L’Italia si sta attrezzando per prevedere gli eventi meteorologici estremi
Per la prima volta con un'unica agenzia nazionale, ItaliaMeteo, che ha iniziato a raccogliere e analizzare i dati di migliaia di centraline
di Isaia Invernizzi
Negli ultimi mesi nella sede dell’agenzia ItaliaMeteo sono arrivati più meteorologi e più dati, essenziali per fare previsioni meteo migliori, quindi anche per prevedere gli eventi estremi come piogge intense, tempeste, siccità, sempre più frequenti per via del cambiamento climatico. Per farla molto semplice, le persone preparate e i dati aiutano a conoscere in anticipo il quando e il dove: quando cadrà una pioggia molto intensa e dove cadrà, possibilmente con livelli di incertezza che non superano l’ora e il chilometro. Servono appunto dati, milioni di dati, oltre a modelli di previsione affidabili (ci torniamo dopo).
Per anni in Italia tutto questo è stato fatto dal sistema di allerta meteo gestito da agenzie regionali, che si sono mosse in autonomia con i loro modelli, coordinate dalla Protezione civile. Da circa un anno queste informazioni hanno iniziato a convergere verso i computer di ItaliaMeteo, un’unica agenzia nazionale creata dal governo solo negli ultimi anni per coordinare tutte le strutture e gli enti meteo italiani.
Anche se è operativa da poco tempo, l’agenzia ItaliaMeteo è il risultato di discussioni che durano da una ventina d’anni. Mentre all’estero i servizi meteorologici nazionali crescevano e assumevano centinaia e addirittura migliaia di persone, in Italia si è preferito mantenere il servizio meteo dell’aeronautica militare, gestito dal ministero della Difesa, e le strutture regionali. Sono stati aperti centri di ricerca, laboratori universitari, servizi privati, ma mai un’agenzia di riferimento nazionale e civile. Solo a metà degli anni Dieci lo Stato si è reso conto che un servizio meteo così frammentato non bastava più.
Negli uffici della sede di Bologna, al secondo e al terzo piano del complesso della fiera progettato negli anni Sessanta dall’architetto Kenzō Tange, una delle parole che si sente pronunciare di più è “prevenzione”. Anzi, forse bisognerebbe parlare di prevenzioni, perché non ce n’è una sola. La tipologia più impegnativa e complessa è il cosiddetto early warning, cioè il sistema di allerta che consente di inviare avvisi prima di un evento per preparare la popolazione a una possibile emergenza.
In Italia questo sistema è gestito dalla Protezione civile: i dati vengono raccolti dai servizi meteo regionali, elaborati e riassunti in un bollettino quotidiano con le possibili criticità identificate con i colori verde, giallo, arancione e rosso, a seconda del rischio. A ogni livello di allerta vanno prese precauzioni che possono arrivare fino all’evacuazione di alcune zone, come è accaduto prima delle alluvioni in Emilia-Romagna.
Non meno importante è la prevenzione strutturale, sul lungo periodo, l’ormai nota “riduzione del rischio idrogeologico” o per dirla in altre parole la “messa in sicurezza del territorio”: consiste nel finanziare opere che consentano di ridurre il rischio legato agli eventi estremi. In una zona a rischio alluvione vanno costruite casse di espansione dei fiumi o dighe, in una a rischio frane reti paramassi, oppure va fatto un consolidamento dei pendii. Servono soldi e tempo. I fondi stanziati dai governi negli ultimi anni hanno risposto in minima parte alle richieste di regioni e province: solo l’Emilia-Romagna ha chiesto 4,3 miliardi di euro, non ancora arrivati. E poi c’è poi la questione dei ritardi: per costruire una cassa di espansione possono servire oltre 15 anni tra procedure di approvazione, ricorsi e intoppi. Fare prevenzione, insomma, è costoso e complicato.
Sia l’early warning che la prevenzione strutturale hanno bisogno di dati affidabili. «I dati servono anche sul lungo periodo perché noi attraverso un’analisi del clima possiamo dire a chi progetta una cassa di espansione quante possibilità ci sono che in quella zona cada una quantità di acqua eccezionale», spiega Carlo Cacciamani, il direttore dell’agenzia ItaliaMeteo. «Da quei dati si possono stimare parametri ingegneristici per costruire opere di prevenzione adeguate, commisurate al rischio». La prevenzione dipende anche da cosa c’è in quel territorio, quanto è stato costruito, quante persone ci abitano, come sono stati gestiti i fiumi, perché uno stesso fenomeno atmosferico può creare molti danni in una zona esposta e passare quasi inosservato in un’altra.
Il punto di partenza di tutte le analisi sono i dati misurati dai sensori installati nelle centraline meteo sparse ovunque in Italia. Sono circa quattromila, gestite dalle regioni, e nella maggior parte dei casi rilevano la temperatura, le precipitazioni, la velocità e la direzione del vento e pochi altri parametri. Esistono poi i dati delle stazioni chiamate “sinottiche”, gestite dall’aeronautica militare e dall’ente nazionale di assistenza al volo (ENAV), parte del sistema internazionale dell’organizzazione meteorologica mondiale. Oltre alle centraline ufficiali ci sono poi migliaia di stazioni meteo amatoriali installate da appassionati su balconi, terrazzi, tetti. L’agenzia ItaliaMeteo non è nata per soppiantare questi servizi, ma per integrare il lavoro dei servizi meteo regionali con una visione più nazionale.
In Italia le prime centraline furono installate all’inizio del Novecento con lo sviluppo del Servizio idrografico italiano, un ente pubblico che si occupava di studiare meteo e clima. Nel 1998 la gestione passò ai servizi meteo regionali, nati negli anni Ottanta soprattutto per rispondere alle esigenze degli agricoltori: le previsioni aiutavano a capire quando seminare, quando tagliare il fieno e molto altro. Quasi ogni regione creò la sua agenzia, le Arpa, acronimo di agenzia regionale per la protezione ambientale. La mancanza di un’agenzia civile nazionale spinse anche molte grandi aziende – l’Enel, per dirne una – a costruire un servizio meteo personalizzato.
Per essere tradotti in previsioni, i dati rilevati dalle centraline devono essere elaborati da un modello matematico. Cacciamani lo spiega in modo semplice: «Se vogliamo sapere che tempo farà domani a Bologna non basta osservare cosa sta succedendo ora in Francia. Bisogna usare le leggi della fluidodinamica e della termodinamica per creare un modello che simuli il comportamento dell’atmosfera e del clima». Il modello non è altro che l’interazione tra migliaia o addirittura milioni di equazioni molto complesse, così complesse che per eseguirle con milioni di dati spesso servono dei supercomputer, cioè computer con una capacità di calcolo molto più elevata rispetto a quelli normali.
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In Italia la frammentazione del meteo ha portato i servizi regionali a servirsi di più modelli meteorologici operativi, mentre negli altri paesi si lavora solitamente con un solo modello. Anzi, quasi tutti i paesi europei hanno deciso di formare dei consorzi tra più agenzie nazionali per sviluppare meglio pochi modelli. I consorzi principali sono tre: uno è gestito dalla Francia, uno dalla Germania e uno dal Regno Unito. L’Italia fa parte del consorzio tedesco – Cosmo – insieme a Svizzera, Grecia, Israele, Polonia, Russia e Romania, che utilizza il modello chiamato ICON.
I consorzi sono stati creati perché per stare dietro a un modello servono soldi e competenze che un solo paese fa fatica a mettere a disposizione. «Stiamo cercando di far capire che è più utile avere un sistema unico nazionale piuttosto che disperdere competenze», continua Cacciamani. «Non vuol dire che i modelli utilizzati in Italia siano sbagliati: i sistemi regionali hanno lavorato e lavorano bene. Ma le persone che in Italia lavorano su sei o sette modelli meteorologici sono un quarto di quelle che lavorano su un solo modello in Germania al Deutscher Wetterdienst, il meteo nazionale tedesco».
Alcuni tecnici di ItaliaMeteo hanno già partecipato alle riunioni del consorzio Cosmo e se tutto andrà come previsto nei prossimi due anni il ruolo dell’agenzia sarà sempre più rilevante. ItaliaMeteo sta via via firmando convenzioni con gli enti meteo regionali per utilizzare i loro dati e fare previsioni migliori. Il ritardo rispetto agli obiettivi iniziali si spiega con un blocco delle assunzioni rimasto in vigore fino allo scorso giugno e superato solo con un decreto-legge ad hoc.
Gli strumenti sviluppati dall’agenzia, compresi quelli per la previsione degli eventi estremi, saranno messi a disposizione di enti e aziende, a partire dalla Protezione civile. Cacciamani confida in un miglioramento generale della gestione e della comunicazione delle previsioni meteorologiche in Italia, o almeno quello è l’obiettivo: «Oggi i modelli consentono di fare previsioni con una risoluzione di un paio di chilometri e di ora in ora, il problema è che nonostante siano sempre più precisi possono sbagliare. Gli errori possono essere minimi, di qualche chilometro e di qualche ora, però decisivi. È complicato limitare l’incertezza».
L’agenzia lavorerà anche sulla comunicazione, che insieme alle previsioni è una parte essenziale del sistema di allerta. Ai sindaci e in generale agli amministratori vanno date informazioni puntuali per decidere cosa fare – chiudere le scuole, evacuare parti di territorio – e la popolazione deve avere strumenti per capire le ragioni di quelle scelte. Secondo Cacciamani il rischio legato ai cambiamenti climatici è percepito ancora come troppo lontano dalla maggior parte delle persone: dipende dal modo in cui viene spiegato, dal linguaggio tecnico e scientifico talvolta poco accessibile. «In Italia c’è bisogno di fare crescere la cultura del meteo, per esempio facendo passare di più concetti come l’incertezza. Ci devono aiutare anche i giornali e le trasmissioni televisive che dovrebbero spiegare il meteo con più impegno e costanza, non solo dopo un evento meteorologico estremo e per pochi secondi, come accade ora».
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