L’Australia vieterà i social media ai minori di 16 anni
È il primo paese al mondo a farlo, ma ci sono forti dubbi sull'efficacia e sui benefici
Giovedì, con un ultimo voto del Senato, il parlamento australiano ha approvato una legge che ha l’obiettivo di vietare alle persone con meno di 16 anni di accedere a tutti i principali social media. L’Australia non è il primo paese al mondo a tentare di introdurre una misura del genere, ma il divieto approvato dal parlamento è il più ampio e stringente finora. Anche per la mancanza di precedenti non è ancora chiaro cosa prevederà il divieto: la legge dice solo che le piattaforme dovranno adottare le misure necessarie per impedire agli utenti sotto ai 16 anni di avere un account, e che in caso di violazioni sistematiche saranno multate. A metà del 2025 inizierà una fase di sperimentazione e il provvedimento comunque non entrerà in vigore prima di 12 mesi.
La legge era stata presentata a settembre dal governo del primo ministro Laburista Anthony Albanese, che l’aveva presentata come un modo per tutelare la salute mentale dei giovani australiani, a suo dire compromessa dall’utilizzo dei social network. Gode di un ampio appoggio della politica e della popolazione australiana, ma in queste settimane è stata molto criticata da esperti e organizzazioni che si occupano di internet, tutela dei minori, e anche di protezione dei dati.
Prima di tutto la legge è ancora molto vaga e non ha un elenco ufficiale delle piattaforme che saranno interessate, né dei veri criteri per la selezione. La ministra delle Comunicazioni Michelle Rowland ha detto che molto probabilmente saranno coinvolti Snapchat, TikTok, X, Instagram, Reddit e Facebook. YouTube invece non sarà incluso per via del suo possibile scopo educativo, diversamente da come era stato ipotizzato inizialmente. Neanche i servizi di messaggistica come WhatsApp e Facebook Messenger saranno inclusi.
Uno dei principali problemi è come poter verificare l’età di chi accede alle piattaforme. Tra i metodi possibili ci sono sistemi di verifica gestiti dal governo (un po’ come lo SPID in Italia) oppure basati su dati biometrici: in entrambi i casi i genitori potrebbero aggirare il divieto accedendo con la propria identità per poi consegnare il dispositivo ai figli con meno di 16 anni, come successo in altri casi in cui si è tentato di imporre un divieto di questo tipo. Alcuni sono anche preoccupati dall’eventualità di dover fornire o comunque far gestire dati sensibili alle grandi aziende che gestiscono le piattaforme social.
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A novembre la Taskforce australiana per i diritti dell’infanzia, un consorzio di oltre cento organizzazioni per i diritti dei minori, aveva inviato una lettera aperta ad Albanese, firmata da oltre 140 accademici e da 20 organizzazioni, secondo cui un divieto totale potrebbe anche rappresentare una violazione del diritto dei minori all’accesso e alla partecipazione sui social media, che è stato riconosciuto anche dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia. La lettera invitava il primo ministro a sostituire il divieto con l’introduzione di standard di sicurezza più elevati rivolti ai più giovani.
È la stessa prospettiva adottata dall’Unione Europea, che nel 2023 ha approvato il Digital Services Act (DSA), una legge sulla sicurezza e la trasparenza dei servizi digitali che ha già portato all’avvio di una serie di indagini contro le piattaforme che non rispettavano le regole contenute al suo interno per limitare gli effetti nocivi sui giovani.
In generale gli esperti ritengono che sia meglio accompagnare i ragazzi nell’utilizzo dei social e fare in modo che imparino a gestirli in maniera sempre più autonoma, più che imporre divieti facilmente aggirabili. In un’opinione inviata al governo anche Amnesty International ha sconsigliato al governo di approvare la legge, dicendo che «un divieto che isola i giovani non soddisfa l’obiettivo del governo di migliorare» la loro vita.
L’idea che l’utilizzo dei social media sia la causa di un aumento di ansia e depressione tra gli adolescenti è discussa da tempo e condivisa da molte persone, ma non è sostenuta in maniera univoca da studi scientifici. Gli esperti sembrano concordare sul fatto che esista una correlazione tra utilizzo dei social e peggioramento della salute mentale tra i giovani, ma non che ci sia un nesso causale. Significa che le ricerche da cui emergono associazioni significative tra i due fenomeni non suggeriscono che l’uso dei social media sia la causa dei problemi di salute mentale, ma che i giovani con problemi di salute mentale tendono a utilizzare le piattaforme più frequentemente oppure in modi diversi rispetto ai loro coetanei che non hanno problemi.
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