Come si è arrivati alla divisione della maggioranza sul canone Rai
C'entra la sfida costante tra Antonio Tajani e Matteo Salvini e ci sono di mezzo anche gli interessi della famiglia Berlusconi
Martedì mattina la maggioranza di governo è stata battuta in commissione Bilancio al Senato su un emendamento promosso dalla Lega al decreto-legge sul fisco che proponeva la conferma della riduzione del canone Rai (da 90 a 70 euro) anche per il 2025. Come si dice nel gergo parlamentare in questi casi, il governo è andato sotto, cioè ha ottenuto meno voti di quelli delle opposizioni: i favorevoli sono stati 10, i contrari 12. L’emendamento quindi non è stato approvato. È successo perché i membri di Forza Italia in commissione Bilancio hanno votato insieme ai partiti del centrosinistra contro l’emendamento della Lega, che è stato invece sostenuto oltre che dalla stessa Lega anche da Fratelli d’Italia, e su cui il ministero dell’Economia aveva dato parere favorevole.
Il voto sull’emendamento, di per sé, non ha ricadute dirette sul governo, né va interpretato come l’innesco di una crisi. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha cercato di ridimensionare il tutto, parlando di semplici «schermaglie», nelle quali dice di non vedere «niente di serio». Ma non c’è dubbio che sia un fatto politico molto rilevante, che evidenzia le divisioni esistenti tra i partiti della maggioranza proprio nei giorni in cui inizia la fase decisiva della sessione di bilancio, cioè l’iter parlamentare che deve portare all’approvazione entro dicembre della legge di bilancio, il provvedimento con cui si decide come cambieranno la spesa e le entrate dello Stato il prossimo anno.
Il voto sul decreto fiscale è la prima fase di questo percorso e sta diventando il luogo di scontro in cui i partiti di maggioranza, soprattutto Lega e Forza Italia, stanno regolando i conti tra loro, dopo divergenze che vanno avanti da qualche tempo.
Poche ore dopo il voto sul canone la Lega, per ritorsione, si è astenuta su un altro emendamento promosso invece da Forza Italia, che prevedeva tra l’altro misure a favore della sanità della Calabria, regione governata da Roberto Occhiuto, vicesegretario del partito. Occhiuto è tra l’altro l’esponente di Forza Italia più dichiaratamente ostile alla riforma sull’autonomia differenziata voluta dalla Lega: anche per questo la ripicca della Lega è stata particolarmente significativa.
La questione del canone Rai (cioè l’imposta che in Italia deve pagare chi ha una tv) torna ciclicamente ed è sempre piuttosto delicata. Per la Lega, la riduzione e la progressiva abolizione della tassa in favore della tv di Stato sono una battaglia storica. Lo scorso anno, Salvini aveva ottenuto un obiettivo parziale: nella legge di bilancio si era stabilito che per il 2024 il canone si sarebbe ridotto da 90 a 70 euro. La misura era temporanea: valeva per un solo anno. Ora, nella legge di bilancio redatta dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che è pure lui della Lega, è stata ripristinata la tassa nella sua interezza: 90 euro.
La decisione dipende fondamentalmente da motivi di cassa: in una situazione di ristrettezza finanziaria e nella necessità di ridurre la spesa pubblica Giorgetti non ha trovato i soldi necessari per confermare la riduzione del canone. Quando il suo stesso partito ha mostrato malumori per questa scelta, il ministro dell’Economia ha detto che era disposto a rinnovare il taglio, a patto che chi lo proponeva trovasse delle coperture finanziarie equivalenti.
E così ha fatto Salvini. Nell’emendamento presentato dai senatori della Lega, infatti, si prevedeva che il mancato introito connesso alla riduzione del canone venisse compensato con una riduzione di 430 milioni di euro di un fondo destinato a RFI, la società pubblica che gestisce la rete ferroviaria italiana e che fa capo proprio al ministero dei Trasporti guidato da Salvini. Forza Italia si è opposta, anzitutto per motivi contabili. «Se si riduce il canone, bisogna comunque trovare 430 milioni da dare alla Rai, e bisogna trovarli nella fiscalità generale, cioè dalle tasse dei cittadini», dice il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri.
Ma c’è anche un altro motivo che giustifica la netta contrarietà di Forza Italia. La riduzione del canone è infatti il primo passaggio di una riforma più organica che da tempo la Lega porta avanti, e che è contenuta in una proposta di legge depositata alla Camera dal deputato Stefano Candiani: insieme alla riduzione del canone, si alzerebbero i limiti di introiti pubblicitari previsti per la tv pubblica. Cioè, semplificando un po’, si autorizzerebbe e anzi si incentiverebbe la Rai a vendere maggiori spazi pubblicitari (dai 500 milioni di euro del 2022 si arriverebbe a quasi 600 milioni a partire dal 2025) per compensare i soldi mancanti per via del taglio del canone. Questo ovviamente danneggerebbe Mediaset, la tv privata che è la principale concorrente della Rai, che avrebbe maggiore concorrenza sulla pubblicità e rischierebbe di vedere ridotti i propri introiti derivanti da quella fonte.
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È per questo che la materia è politicamente delicata: perché riguarda anche i rapporti altalenanti, e in generale abbastanza complicati, tra Meloni e la famiglia Berlusconi, proprietaria di Mediaset, che di fatto controlla ancora Forza Italia e ne indirizza spesso l’azione.
Al voto di mercoledì mattina si è arrivati dopo giorni di litigi tra Lega e Forza Italia, con Fratelli d’Italia – il partito di Meloni – rimasto un po’ nel mezzo, nel ruolo di mediatore poco convinto. Il conflitto tra i due vicepremier Salvini e Tajani, ansiosi entrambi di presentarsi come leader della seconda forza della coalizione di governo, va avanti da mesi, ma è cresciuto d’intensità dopo le elezioni regionali in Umbria e in Emilia-Romagna di metà novembre. La Lega ha ottenuto pessimi risultati, e a quel punto Tajani si è sentito legittimato a rivendicare una maggiore attenzione per le istanze del suo partito, a partire proprio dalla legge di bilancio.
Le divisioni si sono manifestate in tanti modi. Nel giro di pochi giorni Salvini e Tajani hanno bisticciato a distanza sulla posizione da tenere nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu; sui fondi per la sanità lombarda; sull’autonomia differenziata; sull’operazione di mercato annunciata da Unicredit per acquisire Banco BPM; sulla riduzione dell’Irpef; sulla presidenza della Rai. Domenica scorsa, anche per conciliare queste posizioni così distanti, Giorgia Meloni ha organizzato un aperitivo a casa sua, ospitando anche i due vicepremier. L’incontro non è stato risolutivo, e anzi ha finito per certificare le divergenze, più che appianarle, tra Salvini e Tajani.
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Ci sono stati anche degli atti di dissenso piuttosto eclatanti, da parte di Forza Italia. Lunedì sera, tutti i cinque ministri del partito hanno disertato il Consiglio dei ministri convocato, tra l’altro, per approvare una riforma della giustizia che il partito di Tajani contesta, in particolare perché aumenta i poteri d’indagine della Direzione nazionale antimafia.
Tra lunedì e martedì le sedute della commissione Bilancio, convocata per iniziare a votare sul decreto fiscale, sono state più volte sospese e rinviate, nell’attesa che si trovasse un compromesso che però non c’è mai stato. Meloni ha provato a mediare ma senza lasciarsi trascinare in questa lite: il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, martedì si era arreso di fronte all’inconciliabilità delle posizioni, prima che una brutta febbre lo costringesse ad abbandonare i lavori.
Così, quando alla fine mercoledì mattina la commissione Bilancio ha iniziato a esaminare gli emendamenti al decreto fiscale, la spaccatura nella maggioranza è emersa palesemente. Esponenti di Fratelli d’Italia hanno provato a convincere Forza Italia ad astenersi, e contemporaneamente cercavano di assicurarsi il voto di un esponente delle Autonomie, Pietro Patton, per provare comunque a far approvare l’emendamento. Intanto, i leghisti speravano che magari tra le opposizioni potessero esserci delle divisioni, e che per esempio Raffaella Paita di Italia Viva potesse votare con la maggioranza. Al contrario, il centrosinistra ha retto, facendo andare il governo in minoranza.
Non è la prima volta che la maggioranza viene battuta nella commissione Bilancio. Era già successo nel giugno del 2023, quando i senatori di Forza Italia Claudio Lotito e Dario Damiani avevano disertato un voto sul decreto Lavoro, facendo in modo che una proposta del governo venisse bocciata. È invece la terza volta, dall’inizio della legislatura, che la maggioranza di destra si divide così platealmente. Una volta, nel dicembre del 2023, era accaduto nell’aula della Camera sulla ratifica del trattato del MES, il Meccanismo europeo di stabilità, su cui Lega e Fratelli d’Italia votarono contro e Forza Italia si astenne; nel febbraio scorso, invece, in commissione Affari costituzionali al Senato la Lega aveva proposto un emendamento in favore di Luca Zaia che consentiva di prolungare oltre i due mandati attuali il limite di permanenza in carica dei presidenti di regione, ma Fratelli d’Italia e Forza Italia si erano opposti. Stavolta però l’incidente è stato un po’ più grave.
Sia sul MES sia sul terzo mandato, infatti, il governo aveva evitato di esporsi, non dando alcun parere. Si dice, in questi casi, che il governo “si rimette all’aula (o alla commissione)”, cioè non dà una sua preferenza e prende atto dell’esito del voto. Mercoledì mattina invece il governo, rappresentato dalla sottosegretaria all’Economia Lucia Albano di Fratelli d’Italia, aveva espresso parere favorevole all’emendamento della Lega. Detto in maniera un po’ semplificata, significa che il ministro dell’Economia e la presidente del Consiglio speravano che l’emendamento venisse approvato e lo avevano detto chiaramente: essendo invece stato bocciato, il governo ne esce formalmente battuto.
Dal ministero dell’Economia e dalla presidenza del Consiglio hanno fatto sapere che si è trattato di un errore: che l’indicazione data dal ministro Ciriani martedì sera era appunto di rimettersi alla commissione. Ma mercoledì Albano ha espresso invece parere favorevole all’emendamento leghista, esponendo così il governo su una questione delicata, anche per i rapporti tra Meloni e i Berlusconi. Che si sia trattato di un errore, come sostengono varie fonti di governo, o che invece Albano abbia voluto rendere più evidente lo scontro tra il suo partito e la Lega, come ritengono gli stessi leghisti, resta difficile da capire al momento. Albano si è rifiutata di spiegare meglio la sua posizione.