Che cos’è questo “risiko bancario”
È un'espressione che viene fuori ogni volta che una banca cerca di comprarne un'altra: dietro ci sono intrecci e tendenze di cui si parla da anni
L’Offerta Pubblica di Scambio che Unicredit ha lanciato lunedì per comprare Banco BPM ha riaperto quello che sui giornali viene spesso chiamato “risiko bancario”, un’espressione che descrive abbastanza bene il grande e continuo movimento di acquisizioni e fusioni nel settore bancario italiano ed europeo: seguendo la metafora, un po’ come nel famoso gioco da tavolo le banche sono da tempo impegnate in un lungo e complesso processo in cui conquistano o sono conquistate, cioè comprano o sono comprate.
Questa tendenza al cosiddetto consolidamento degli istituti, come si chiama in gergo finanziario, è iniziata negli anni Novanta ed è finita per diventare una questione di sopravvivenza per il settore a partire dall’inizio degli anni Duemila, con la crescente internazionalizzazione dei mercati finanziari e con la maggiore rilevanza della tecnologia e dell’informatica.
Le banche cercano di ingrandirsi nel tentativo di conquistare una quota di mercato nazionale e internazionale che permetta di ottenere quelle che si chiamano “economie di scala” ed “economie di scopo”: concretamente significa diventare abbastanza da grandi da ridurre complessivamente i costi in relazione al giro di affari, e allo stesso tempo riuscire a dare ai clienti un’offerta di prodotti sufficientemente vasta da soddisfare i bisogni che le banche piccole talvolta lasciano inevasi.
Idealmente, nel mercato bancario europeo, una piccola banca locale delle Marche, per esempio, può trovarsi in diretta concorrenza con un grande gruppo di Parigi che ha una filiale nella stessa zona. La piccola banca locale, nonostante in certi contesti mantenga ancora un ruolo economico e sociale essenziale, ha dei limiti: innanzitutto non riuscirà mai a offrire i suoi servizi allo stesso costo del grande gruppo, che ha una dimensione tale da essere più efficiente e competitiva nei prezzi, e talvolta non riuscirà a soddisfare alcune richieste dei clienti, soprattutto quelle più specifiche o avanzate. Un esempio di queste richieste oggi potrebbe essere il trading di strumenti finanziari di nicchia, vent’anni fa poteva essere un banale home banking (cioè l’accesso al proprio conto tramite internet).
Con l’avanzamento tecnologico e il crescente ruolo dell’informatica nella gestione delle attività finanziarie questo divario si è gradualmente allargato: l’innovazione ha richiesto investimenti enormi alle banche, per lo sviluppo e il mantenimento dei sistemi, ma anche per tutto ciò che riguarda la protezione dei dati, la sicurezza, e così via. Secondo Rony Hamaui, docente di economia monetaria all’Università Cattolica di Milano ed esperto del settore bancario, sono investimenti ingenti, talvolta solo alla portata dei grandi gruppi.
A questo si aggiunge l’esigenza per le banche di essere presenti in più paesi con i loro uffici e le loro filiali, per garantire servizi ai clienti che viaggiano e alle imprese che esportano. Da queste esigenze – competere sui mercati internazionali e avere le risorse per l’innovazione tecnologica – nasce la necessità di ingrandirsi e una grande spinta quindi al cosiddetto “risiko bancario”.
La creazione di gruppi sempre più grandi e la tendenza al consolidamento di tutto il settore sono state generalmente ben viste anche dalle istituzioni europee, come la Banca Centrale Europea e l’Autorità Bancaria Europea, l’EBA, quella che si occupa della vigilanza degli istituti. E questo soprattutto per una questione pratica: gruppi più grandi sono solitamente più solidi a livello economico e anche più facili da vigilare per le autorità rispetto alle banche più piccole. Dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla crisi europea dei debiti sovrani, per le quali molte banche europee rischiarono di fallire, la solidità di una banca e un bilancio in ordine – senza cioè esposizione a crediti che difficilmente verranno riscossi – sono caratteristiche assai attenzionate nelle istituzioni europee.
Hamaui sostiene però che l’atteggiamento favorevole delle istituzioni europee abbia ancora limiti nella regolamentazione, che impone grosse barriere alla creazione di gruppi che siano davvero europei, e non solo nazionali con filiali altrove. Peraltro l’attuale consolidamento del settore sta avvenendo in un contesto in cui non esiste ancora un vero mercato bancario europeo unificato, nonostante le banche europee siano sostanzialmente sottoposte alle stesse regole: per come sta procedendo il rischio è che gradualmente la concorrenza si riduca a livello nazionale, a scapito dei clienti, che rischiano di trovarsi nel lungo periodo con costi più elevati.
A queste motivazioni di ordine generale per cui le banche decidono di ingrandirsi si aggiungono poi valutazioni più specifiche sul loro modello di business. Comprare un’altra banca significa comprare tutte le sue strutture, le sue filiali e i suoi prodotti, assumere i suoi dipendenti, ma anche acquisire tutti i suoi clienti: una banca sceglie di acquisirne un’altra perché punta alle cosiddette cosiddette sinergie, risparmiando sui costi e diversificando le fonti di guadagno. Per esempio: una banca altamente specializzata negli investimenti può trovare conveniente comprarne una che invece opera perlopiù con operazioni di sportello, che ha una rete diffusa di filiali e una grande clientela composta da famiglie e imprese. E viceversa.
In questo ha anche un ruolo il processo di calo dei tassi di interesse, avviato a giugno dalla BCE dopo che li aveva tenuti alti per due anni per fermare l’inflazione e intervenire sull’aumento del costo della vita: alti tassi di interesse hanno consentito alle banche di fare guadagni eccezionali grazie alle loro attività di prestiti alle imprese e mutui alle famiglie, entrambi assai rincarati. Nella prospettiva di una minore redditività di queste attività, è probabile che le banche si ingegnino per diversificare le loro fonti di guadagno e cerchino così di integrarle grazie ad acquisizioni o fusioni, secondo Hamaui.
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La scelta di ampliare il proprio business è per esempio una delle valutazioni che potrebbero aver spinto Unicredit a tentare di comprare Banco BPM, rispettivamente la seconda e la quinta banca italiana per capitalizzazione, cioè per valore complessivo di tutte le azioni in circolazione: Banco BPM ha una grande attività sui territori e peraltro aveva avviato da poco l’acquisizione di Anima SGR, importante società italiana di gestione del risparmio che si occupa di investimenti per conto dei clienti. Se l’operazione andasse a buon fine, in un solo colpo Unicredit si rafforzerebbe nella finanza territoriale e amplierebbe la sua attività di gestione dei patrimoni, superando così Intesa Sanpaolo per dimensione.
Unicredit è peraltro la banca italiana che più di tutte in questi anni ha avuto un ruolo nel “risiko bancario”, o che perlomeno ha smosso gli equilibri del settore. Solo a settembre aveva comprato quasi il 30 per cento della grande banca tedesca Commerzbank, che puntava ad acquisire completamente per rafforzare la sua presenza in Germania: l’operazione è al momento bloccata a causa di forti dissensi col governo tedesco, azionista della banca, che non ha apprezzato che a tentare di comprarla fosse una banca italiana. Nel 2021 aveva tentato di comprare MPS, la banca senese in dissesto e salvata dallo Stato, ma poi l’operazione saltò.
C’è un motivo per cui è così attiva. Secondo Hamaui, benché sia una banca indubbiamente grande, Unicredit non è così grande a livello europeo: ha una buona presenza in Italia e una buona presenza in Germania, ma in entrambi i paesi non ha una quota di mercato che consenta un controllo e un indirizzo significativo. Dopo Intesa Sanpaolo è comunque la seconda banca italiana per capitalizzazione di mercato, ma le sue attività sono diluite in giro per l’Europa, il che non le consente di avere ancora in nessun paese una posizione da leader di mercato. Da qui la sua necessità di espandersi, o in Italia o in Germania, per esempio.
L’operazione su Banco BPM è stata molto criticata dal governo italiano, perché è stata ritenuta un’interferenza nella vendita di MPS, banca nel frattempo risanata e ancora in gran parte di proprietà dello Stato e per cui da anni i governi che si sono succeduti hanno cercato un acquirente, per ora senza successo. Secondo il governo Banco BPM potrebbe avere avuto interesse nell’acquisizione di MPS: in occasione dell’ultima tranche di vendita di azioni di MPS Banco BPM ne aveva comprato il 5 per cento. Nonostante l’amministratore delegato di Banco BPM avesse smentito fin da subito l’esistenza di un concreto interesse nell’acquisire tutta la banca, la possibilità aveva creato una certa discussione nei media e il governo ci aveva evidentemente puntato molto. Un’eventuale acquisizione da parte di Unicredit potrebbe però bloccare sul nascere qualsiasi operazione con MPS, anche eventuali trattative informali in corso.
Intorno alla vendita di MPS, oltre che la necessità del governo di incassare risorse nell’ambito di un ambizioso piano di privatizzazioni, c’è anche da sempre la speranza della politica e del settore per la creazione di un cosiddetto “terzo polo”, cioè un terzo gruppo italiano che possa essere in grado di competere con le grandi Intesa e Unicredit. Il “terzo polo”, che nei piani del governo risulterebbe dall’unione di MPS con la banca che la comprerebbe, avrebbe due funzioni, spiega Hamaui: la prima quella di mantenere la concorrenza e impedire che il sistema bancario italiano diventi troppo concentrato intorno a Intesa e Unicredit, diventando così una sorta di duopolio; la seconda quella di far sì che il “terzo polo” non venga poi messo in piedi da qualche banca straniera, come Credit Agricole o BNP Paribas, banche francesi molto presenti sul territorio italiano.
Per queste ragioni lunedì sia il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini hanno espresso un certo disappunto sull’operazione di Unicredit su Banco BPM. A margine di un’audizione in parlamento, Giorgetti ha detto che la mossa di Unicredit non è stata «concordata col governo» – sebbene non ci fossero obblighi giuridici per cui dovesse esserlo – e che in ogni caso c’è il golden power, cioè la possibilità per il governo di bloccare vendite e acquisizioni in settori che reputa importanti per gli interessi e la sicurezza nazionali.
Salvini ha poi alluso al fatto che l’operazione di Unicredit su Banco BPM sia stata impostata proprio per essere un elemento di disturbo alla vendita di MPS. «Unicredit ormai di italiano ha poco e niente: è una banca straniera», ha detto Salvini: «non vorrei che qualcuno volesse fermare l’accordo BPM-Monte dei Paschi per fare un favore ad altri», ha aggiunto. Unicredit è una banca quotata in borsa, e solo l’8 per cento delle sue azioni è di proprietà di investitori italiani, ma questo non vuol dire che la banca sia straniera: è quotata alla borsa di Milano, oltre che a quella di Francoforte e di Varsavia, ha la sede legale in Italia e la gran parte delle sue attività e dei suoi dipendenti è sul territorio italiano.
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