Perché il processo di Gisèle Pelicot è così seguito
Ha aperto un dibattito politico sulla “cultura dello stupro” e si inserisce nella tradizione femminista di usare cause legali per cambiare le leggi e la società
Da circa tre mesi al tribunale di Avignone, in Francia, si sta tenendo uno dei processi più seguiti degli ultimi anni dall’opinione pubblica francese e dai giornali nazionali e internazionali: è quello che riguarda la storia di Gisèle Pelicot, una donna di 71 anni che è stata sedata inconsapevolmente per moltissimo tempo da quello che oggi è il suo ex marito, Dominique Pelicot, e poi violentata da lui e da altre decine di sconosciuti mentre era incosciente. Cinquanta di loro, insieme all’ex marito, sono oggi imputati.
Il processo, che la stampa ha contribuito a far conoscere come quello degli “stupri di Mazan”, la cittadina del sud del paese dove i Pelicot abitavano, ha aperto in Francia una discussione più ampia sulla cosiddetta “cultura dello stupro” e sulla possibilità di modificare la legge attuale sulla violenza sessuale.
Questo è avvenuto per via della storia in sé, ma anche per il modo in cui Gisèle Pelicot ha deciso di impostare il processo: ha scelto attivamente di non rinunciare subito al cognome del marito, dal quale ha divorziato nel 2023 dopo essere venuta a conoscenza degli stupri, e di avere un processo pubblico, con l’obiettivo di rendere universale una storia individuale. È una pratica già usata in passato dai movimenti per i diritti civili e sociali, fra cui quelli femministi, che anche in Francia avevano usato processi per avviare un dibattito pubblico che aveva poi portato a cambiamenti di grande rilevanza a livello giuridico e sociale.
Per prima cosa, come ha spiegato l’avvocata Carine Durrieu-Diebolt al giornale francese Mediapart, quella degli stupri di Mazan non è solo una storia particolarmente impressionante, ma anche «ideale» dal punto di vista giuridico. Il processo si concentra su quasi 200 stupri commessi da decine di uomini che si erano messi d’accordo con Dominique Pelicot via internet e dei quali ci sono tantissime prove: centinaia di messaggi e soprattutto di video degli stupri ripresi da Dominique Pelicot, che li aveva poi catalogati con date e nomi delle persone coinvolte in una cartella del suo computer chiamata “abusi”.
Dominique Pelicot ha ammesso la sua colpevolezza, a differenza della maggior parte degli altri imputati, che nelle loro testimonianze hanno detto di aver pensato che Gisèle Pelicot fosse d’accordo con il marito o che non consideravano stupro quello che avevano compiuto.
Il secondo motivo che spiega l’enorme attenzione sul caso riguarda il modo in cui Gisèle Pelicot e i suoi avvocati hanno voluto impostare il processo: come detto, pur avendo diritto a un processo a porte chiuse per preservare il suo anonimato e non essere esposta a ulteriori violenze o pressioni, come permette la legge francese nei casi di violenza sessuale, Pelicot ha chiesto che le udienze fossero aperte a tutte e a tutti, spiegando di aver preso questa decisione affinché la sua storia e le sue parole arrivassero a quante più persone possibili. Sempre per questo motivo ha deciso di tenere il cognome dell’ex marito e si è spesso presentata in aula.
Fin da subito Pelicot ha anche fatto una serie di dichiarazioni che avevano l’obiettivo di spostare la sua storia dal piano individuale a quello politico e collettivo.
Durante le sue testimonianze ha detto di aver deciso di fare causa al suo ex marito per «cambiare la società» e per rappresentare simbolicamente tutte le donne vittime di stupro. Ha inoltre detto di aver scelto di avere un processo pubblico perché «forse una mattina una donna che si sveglia senza memoria penserà alla mia testimonianza» e affinché «le donne dicano “se ce l’ha fatta la signora Pelicot, posso farlo anche io”».
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Tutti questi elementi hanno consentito, oltre che a costruire un caso molto forte per l’accusa, di raccogliere molta empatia nei confronti di Gisèle Pelicot e di costruire di un dibattito pubblico e politico più ampio sul tema dello stupro. Questo è stato da subito un obiettivo dichiarato di Pelicot, che in tribunale ha spesso parlato di stupro in termini femministi: durante una deposizione per esempio ha detto «non spetta a noi provare vergogna, ma a loro», riferendosi agli stupratori e nella sua ultima testimonianza di qualche giorno fa ha ribadito che «è tempo di cambiare il modo in cui consideriamo lo stupro», che è «banalizzato» dalla società «patriarcale e machista».
Il processo è stato molto seguito non solo dai giornalisti, ma anche dai movimenti femministi e da moltissime altre persone, soprattutto donne.
Le udienze, aperte al pubblico, sono state da subito molto partecipate: in diverse occasioni le persone presenti hanno applaudito Gisèle Pelicot al termine delle sue testimonianze. In alcune città francesi si sono tenute manifestazioni in suo sostegno e molta attenzione è stata messa sul fatto che gli uomini accusati di stupro avevano vite normali: per questo sono stati definiti “Monsieur Tout-le-Monde”, un’espressione francese per indicare un uomo comune.
Sui giornali, nelle trasmissioni televisive e in politica, su richiesta del Partito Socialista, questi eventi hanno riaperto un dibattito anche sull’opportunità di riscrivere l’articolo 222-23 del codice penale francese, secondo cui «è stupro qualsiasi atto di penetrazione sessuale di qualsiasi tipo, o qualsiasi atto orale o genitale commesso […] con violenza, coercizione, minaccia o sorpresa». Non viene menzionato il consenso, che viene fatto rientrare implicitamente nelle altre categorie, inclusa quella della sorpresa. Molti sostengono però che la necessità di provare l’esistenza di una di queste quattro categorie renda molto difficile arrivare a delle condanne per stupro.
Raccogliendo un appello dell’ordine dei medici, lunedì il primo ministro Michel Barnier ha detto che presenterà una proposta di legge per includere nelle prestazioni rimborsate dal servizio sanitario nazionale i test per la “sottomissione chimica”, quella praticata da Dominique Pelicot nei confronti di sua moglie, che consiste nel drogare una persona a sua insaputa per abusarne senza che lei possa reagire e talvolta nemmeno rendersene conto.
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Il processo di Pelicot e il modo in cui si sta svolgendo si inseriscono nella cosiddetta “politica dei processi” che soprattutto negli anni Settanta in Francia, ma anche Italia, ha portato a importanti riforme legislative.
Il caso forse più celebre è quello di Marie-Claire Chevalier, “colpevole” di aver abortito clandestinamente dopo avere subito uno stupro a sedici anni: abortì con l’aiuto della madre e di altre tre donne e per questo fu processata al tribunale di Bobigny nel 1972. Sapendo che la società francese era da tempo sensibilizzata al dramma dell’aborto clandestino, le femministe intuirono che quel processo avrebbe potuto cambiare la legge se fosse diventato un affaire, ossia una vicenda giudiziaria che si ingrandisce fino a diventare un caso di cui parla anche l’opinione pubblica.
Per questo iniziarono a presentarsi in tribunale un po’ come sta succedendo in questi giorni con Pelicot. In quel caso però si spinsero oltre, occupando anche le aule di giustizia. Quello che andò in scena a Bobigny non sembrava dunque un dibattimento, ma un convegno femminista: al centro del discorso non venne messo il corpo di Chevalier, ma quello di tutte le donne. Gisèle Halimi, che difendeva Chevalier, fu allo stesso tempo avvocata e accusata, poiché a sua volta dichiarò di aver infranto la legge: «Ho abortito, ho commesso questo reato».
Il tribunale venne così trasformato da luogo del giudizio in un luogo dove si aprì un dibattito sull’aborto clandestino e su una legge e una società che consentivano, tolleravano e costringevano milioni di donne ad abortire in clandestinità.
Alla fine del processo il procuratore concluse infatti che il codice penale che criminalizzava l’aborto doveva essere rivisto. Marie-Claire Chevalier venne assolta. Da lì a poco la ministra francese della Salute, Simone Veil, presentò in parlamento la richiesta di una legge sulla depenalizzazione dell’aborto, che porta il suo nome e che venne promulgata il 17 gennaio del 1975.
Qualche anno dopo a Aix-en-Provence si svolse un altro processo, contro tre uomini che avevano stuprato due turiste vicino a Marsiglia, nel sud della Francia. Le udienze, su richiesta di Gisèle Halimi, anche in quel caso avvocata delle due donne, si svolsero a porte aperte, e di nuovo i gruppi femministi fecero di questo un processo-tribuna contro la violenza maschile sulle donne.
Anche in questo caso il modello della vittima silenziosa e passiva venne rovesciato e le donne stuprate portarono in aula il loro racconto e il racconto del loro trauma, proprio come ha fatto Gisèle Pelicot negli ultimi mesi. Presenti in massa alle udienze, le femministe rilanciarono le denunce sottolineando le responsabilità sociali e istituzionali di un certo modo di condurre i processi di quel tipo, in cui le donne che hanno subito lo stupro vengono trasformate in imputate.
La mobilitazione ebbe una risonanza enorme, innescò un processo di revisione della definizione di stupro presente nel codice penale, che risaliva al 1810 e inquadrava lo stupro come un rapporto sessuale avvenuto fra un uomo e una donna fuori dal matrimonio e senza il consenso di quest’ultima. Nel 1980 venne invece approvata una legge (quella tuttora in vigore) che definisce lo stupro come un qualsiasi atto di penetrazione compiuto da una persona contro un’altra persona e che soprattutto non deve essere per forza «illecito», come invece era definito in precedenza: questo permise di perseguire gli stupri coniugali, fra cui anche quelli che Dominique Pelicot stesso ha ammesso di aver compiuto contro sua moglie numerose volte.
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