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  • Martedì 26 novembre 2024

A Sarajevo c’è un museo diverso

Raccoglie oggetti e storie di migliaia di bambini che hanno passato l'infanzia in guerra, cercando di rimanere il più lontano possibile dalle divisioni politiche

Un giocattolo della collezione del Museo dell'infanzia di guerra durante un'esposizione temporanea nei Paesi Bassi
Un giocattolo della collezione del Museo dell'infanzia di guerra durante un'esposizione temporanea nei Paesi Bassi (foto tratta dalla pagina Facebook del Museo dell'infanzia di guerra)
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Quando nell’aprile del 1992 la guerra iniziò a Sarajevo, la capitale della Bosnia Erzegovina, Filip Andronik aveva undici anni. «Quando iniziò la guerra nessuno nella mia famiglia, tra gli amici dei miei genitori o tra i miei amici se lo aspettava», ha raccontato Filip. Una delle cose che lo colpirono di più in quegli anni furono gli aiuti umanitari che molto spesso contenevano cibi che per lui erano insoliti e nuovi. Così, un po’ alla volta, iniziò a collezionarne gli involucri. Un po’ per curiosità e per divertimento, un po’ anche per trovare un modo di distrarsi «e avere uno scopo in un tempo che non aveva assolutamente senso».

«Oggi i ragazzini collezionano le figurine dei calciatori o dei Pokémon, ma all’epoca non esistevano a Sarajevo», ha raccontato: «il fatto che gli involucri degli aiuti umanitari fossero così colorati, e che ogni volta che ricevevi un pacco potevi trovarci dentro cose nuove era piuttosto interessante per un bambino di undici anni».

La guerra in Bosnia Erzegovina durò tre anni, dal 1992 al 1995. I principali gruppi nazionali del paese – serbi, croati e bosgnacchi musulmani – si combatterono tra di loro, e Sarajevo subì l’assedio più lungo della storia moderna. Quando finì, la collezione di Filip contava circa 2mila esemplari. Filip finì anche sul Guinness dei primati — il primo cittadino bosniaco a riuscirci —, come detentore della più grande collezione di confezioni di aiuti umanitari al mondo.

Negli anni successivi alla guerra in Bosnia Erzegovina, Filip non ha voluto sbarazzarsi della propria collezione, fino a quando qualche anno fa non l’ha donata al Museo dell’infanzia di guerra, che ha aperto a Sarajevo nel 2017.

Il museo oggi ha una collezione di più di 6mila oggetti, che sono stati donati soprattutto da persone che erano minorenni durante la guerra in Bosnia Erzegovina: oggetti che i loro proprietari avevano conservato con molta cura per decenni.

Una visitatrice fotografa parte della collezione di Filip, all'inaugurazione del museo nel 2016

Una visitatrice fotografa parte della collezione di Filip (dalla pagina Facebook del Museo dell’infanzia di guerra)

Il fondatore del museo, Jasminko Halilović, è un sarajevese nato nel 1988. All’inizio della guerra aveva quattro anni. Halilović ha raccontato di avere avuto l’idea di creare un museo insieme ad alcuni amici, dopo aver lavorato a un libro intitolato War Childhood, che per la prima volta raccoglieva un migliaio di brevi testimonianze da parte di persone che erano state bambine e bambini durante la guerra in città.

«In quel momento mi sono reso conto che molte di queste persone collegavano i propri ricordi a qualche oggetto personale», ha detto Halilović, «e così mi è venuta l’idea di creare un museo. Ho pensato che fosse un buon modo per preservare queste storie».

Durante l’assedio di Sarajevo vennero uccise migliaia di civili, tra cui moltissime bambine e bambini. Quell’esperienza influenzò molte persone che oggi sono adulte, con gravi conseguenze psicologiche. Eppure, fino a quando non ha aperto il museo, una loro prospettiva sulla guerra degli anni Novanta era per lo più assente (con alcune eccezioni, la più famosa delle quali è molto probabilmente rappresentata dal libro Diario di Zlata, che racconta l’assedio di Sarajevo dal punto di vista di una bambina di dodici anni).

«Di solito, quando si parla di guerra in Bosnia Erzegovina prevalgono le narrazioni da parte di quelli che all’epoca erano uomini adulti e hanno combattuto», ha spiegato Amina Krvavac, la direttrice esecutiva del museo. «Il nostro scopo era quello di introdurre un discorso diverso e un punto di vista più inclusivo, che tenesse conto anche delle esperienze degli adolescenti e dei bambini dell’epoca».

Secondo Krvavac, l’obiettivo del museo è anche raccontare «le strategie che mettono in pratica i bambini per proteggere la propria salute mentale e andare avanti con le proprie vite».

Oggi il museo ha una collezione di più di 6mila oggetti, ciascuno accompagnato dalla storia di chi lo ha preservato e dei motivi per cui lo ha fatto. Provengono non solo da Sarajevo, ma da tutta la Bosnia Erzegovina, e da diversi altri paesi in cui si sono combattute guerre in anni più recenti: tra gli altri la Siria, l’Afghanistan e l’Ucraina.

Tra gli oggetti raccolti al museo, c’è per esempio un rasoio appartenuto a una persona uccisa nel genocidio di Srebrenica, e conservato per anni dal figlio Emir; o un libro bruciacchiato che una ragazza, Alma, salvò insieme alla propria amica dalla biblioteca nazionale distrutta nell’estate del 1992.

Krvavac spiega che nella collezione ci sono oggetti che rappresentano storie tragiche, ma che tanti raccontano anche «storie incoraggianti»: come, per esempio, una collanina che Larisa Šabanović regalò a un’amica, Dušica, quando questa lasciò Sarajevo per rifugiarsi nella città serba di Čačak. «Dušica non ritornò più a casa», ha raccontato Šabanović, «e sarebbero trascorsi molti anni prima che ci rincontrassimo, a Belgrado nel 2018: anche se erano passati ventisei anni, la riconobbi dal modo in cui camminava. Dušica aveva conservato la mia collanina e me la restituì, proprio come aveva promesso di fare quando ci saremmo riviste».

Gli oggetti conservati nel museo non hanno grande valore materiale o artistico, ma hanno ovviamente un enorme valore emotivo e vengono tutti archiviati con grande cura. Per molti anni le persone che li hanno conservati non hanno voluto separarsene, visto che rappresentavano un legame tangibile con un periodo molto traumatico, fino al momento in cui si sono decise ad affidarle al museo.

Non è una scelta semplice, ha spiegato Krvavac. Per molte di queste persone, dare questi oggetti al museo è stato un momento che ha coinciso con un momento di rielaborazione di un forte trauma personale, e di ricordi molto dolorosi che risalgono agli anni della guerra. Per molti di loro è un po’ «la chiusura di un cerchio», ha raccontato.

Una bambina rifugiata stringe una bambola dopo essere arrivata con la propria famiglia nella città bosniaca di Travnik, nel 1993

Una bambina stringe una bambola dopo essere arrivata con la propria famiglia come rifugiati nella città bosniaca di Travnik, nel 1993 (Mikhail Evstafiev/Wikimedia Commons)

Krvavac ha raccontato che per il successo del museo è stato essenziale ottenere la fiducia delle persone che hanno deciso di collaborare. Ha aiutato il fatto che i creatori del museo condividessero le loro esperienze, e che loro stessi avessero partecipato con un proprio oggetto: per Halilović è una marionetta a forma di orso che il padre gli portò da Berlino e che, spiega, «mi ha tenuto compagnia per tutta la durata della guerra». Per Krvavac è un pupazzo fatto a mano da una sua amica, che le venne regalato per il suo compleanno.

Affidare un oggetto al museo, e raccontare la propria storia, «è un’esperienza molto forte», secondo Krvavac: «spesso non si esaurisce in un momento, ma è un incontro che dura anche tre ore». Per questo motivo, ha detto, il museo collabora con organizzazioni di psicologi che seguono i donatori e il personale che ci lavora. Per lo stesso motivo, chiunque può riavere indietro ciò che ha donato in qualsiasi momento, o chiedere di vederlo.

La Bosnia Erzegovina oggi è un paese ancora molto diviso, nel quale serbi, croati e bosgnacchi hanno visioni distinte del passato e diverse interpretazioni della guerra degli anni Novanta. Nelle scuole l’insegnamento è strutturato in curriculum nazionali: gli studenti di ogni gruppo imparano quindi versioni diverse e inconciliabili della storia del proprio paese.

In questo contesto i musei sono molto spesso un modo per rinforzare la visione politica e l’interpretazione della storia di ogni gruppo nazionale. Il Museo dell’infanzia di guerra, fin dalla sua apertura, ha fatto una scelta diversa: quella di raccontare storie che provengono da tutto il territorio, senza dare importanza all’identità dei donatori e cercando di rimanere il più possibile lontano dalle divisioni politiche — una cosa piuttosto unica in Bosnia Erzegovina.

Una visitatrice al Museo dell'infanzia di guerra

Una visitatrice al Museo dell’infanzia di guerra (foto tratta dalla pagina Facebook del museo)

Krvavac ha detto che nelle speranze dei fondatori, concentrarsi su storie intime e universali come quelle dei bambini avrebbe potuto favorire un certo dialogo e, magari, la riconciliazione tra i diversi gruppi nazionali.

Proprio per questa sua ambizione, il museo è sempre stato accolto con una certa ostilità dai politici bosniaci: «la maggior parte dei politici bosniaci non ci ama», ha detto Halilović, «perché il museo avvicina le persone, raccontando le loro storie senza riguardo per come si chiamano o per la loro città di provenienza. Né ai nazionalisti né ai populisti del nostro paese fa piacere la nostra indipendenza: e quando si escludono i nazionalisti e i populisti, rimane ben poco della classe politica bosniaca».

Negli anni comunque il museo è cresciuto molto, sia in termini di visite sia per numero di attività e iniziative, che hanno l’obiettivo di indagare sugli effetti della guerra sui bambini.

Negli ultimi anni il museo ha raccolto più di seicento oggetti di bambini che hanno trascorso (o stanno trascorrendo) la propria infanzia in Ucraina durante la guerra, e ha aperto una sede a Kiev: «in questo caso, ovviamente, lo scopo non è tanto di aiutare questi bambini a superare il proprio trauma», ha spiegato Krvavac, «quanto di mettere a disposizione una piattaforma per permettergli di raccontare le loro storie, per fare capire loro che qualcuno li ascolta e non farli sentire soli».