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  • Martedì 26 novembre 2024

Ci riproviamo coi mercati di crediti di carbonio

Alla COP29 di Baku sono state introdotte nuove regole per gli scambi internazionali di “emissioni risparmiate” e il settore potrebbe crescere molto

Una nuvola di vapore prodotto da una centrale elettrica a carbone vicino a una serie di pale eoliche
Una nuvola di vapore prodotto da una centrale elettrica a carbone in Germania, nel 2018 (AP Photo/Markus Schreiber)
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Una delle cose per cui la COP sul clima di Baku sarà ricordata, oltre al risultato deludente sui soldi che i paesi più ricchi si sono impegnati a dare a quelli in via di sviluppo, riguarda gli scambi internazionali dei cosiddetti crediti di carbonio. I crediti di carbonio sono un’astrazione: quote di emissioni di gas serra “negative”, create in contesti in cui l’anidride carbonica è assorbita dall’atmosfera, oppure in situazioni in cui la diffusione di gas serra viene evitata. Concretamente però i crediti di carbonio sono certificati che possono essere acquistati, finanziando così l’attività che li ha prodotti, e, dato che l’atmosfera è una sola, compensando emissioni fatte altrove.

Alla COP29, dopo quasi un decennio dall’accordo di Parigi, sono stati definiti i termini dell’articolo 6 del trattato, che riguarda appunto gli scambi internazionali di crediti di carbonio. Sono state introdotte nuove regole che i paesi possono seguire per acquistare crediti in un altro paese (comma 2 dell’articolo 6), anche se non sono tenuti a rispettarle. Inoltre è stato creato un sistema gestito dalle Nazioni Unite per valutare la qualità delle attività che li generano (comma 4 dell’articolo 6), che possono essere finanziate anche dalle aziende, per dire di aver parzialmente rimediato al proprio impatto sull’ambiente.

Come associamo dei prezzi alle emissioni di gas serra
Nel mondo esistono tre diversi approcci per associare un prezzo alle emissioni che causano la crisi climatica. Uno è quello delle cosiddette carbon tax, le tasse sulle emissioni, che penalizzano le aziende dei settori che contribuiscono di più al riscaldamento globale. Il secondo è dato dai sistemi per lo scambio di quote di emissione di gas, più noti con l’espressione inglese emission trading system (ETS), come quello che c’è nell’Unione Europea. Gli ETS prevedono che alle aziende responsabili di ingenti emissioni di gas serra ne sia concessa una certa quota annua, che diminuisce nel tempo in linea con gli obiettivi di riduzione delle emissioni: in caso di superamento della propria quota, le aziende devono acquistarne di aggiuntive da altre aziende dello stesso paese che hanno emesso meno del previsto grazie ad ammodernamenti per la riduzione dell’impatto ambientale.

Il terzo approccio, da non confondere coi precedenti, è quello dello scambio dei carbon credit appunto, cioè quote di emissioni che per una ragione o per l’altra si possono considerare “risparmiate”. Un esempio è la creazione di nuove foreste in regioni tropicali, dato che gli alberi assorbono l’anidride carbonica (CO2) nell’aria per vivere e crescere.

Le carbon tax e gli ETS sono generalmente sistemi nazionali, o di gruppi di paesi come l’Unione Europea, mentre i mercati di crediti di carbonio possono essere sia nazionali che internazionali, ma i negoziati di Baku riguardavano solo questi ultimi. Attualmente, nella maggior parte dei casi, le carbon tax e gli ETS nazionali sono separati dai mercati dei crediti internazionali; fanno eccezione l’ETS della Corea del Sud, le cui aziende possono comprare crediti di carbonio dall’estero, e il sistema di carbon tax di Singapore.

Cosa sono i crediti di carbonio e come si scambiano
Il modo più corretto per tradurre carbon credit sarebbe “crediti di anidride carbonica equivalente”, facendo riferimento all’unità di misura usata per esprimere quantità di gas serra emesse nell’atmosfera, le tonnellate di anidride carbonica equivalente. Queste si usano perché sono diversi i gas che contribuiscono al riscaldamento globale – oltre alla CO2 sono il metano e il protossido di azoto, principalmente – e ognuno ha un impatto diverso a parità di quantità dispersa nell’aria. Però per brevità, e per un calco sbrigativo dall’inglese, si parla ormai comunemente di crediti di carbonio. E un credito di carbonio è dato da una tonnellata di CO2 equivalente rimossa dall’atmosfera, oppure evitata.

Bisogna poi fare ulteriori distinzioni tra gli scambi di crediti di carbonio, ragione per cui si parla di mercati dei crediti di carbonio, al plurale.

Negli scambi tra paesi, il paese compratore ha l’obiettivo di ridurre il proprio bilancio nazionale di emissioni di gas serra allo scopo di rispettare gli impegni presi con l’accordo di Parigi. Quindi i crediti di carbonio che ha acquistato vengono scalati dal bilancio nazionale del paese acquirente, e non sono conteggiati nel bilancio del paese in cui il credito è stato prodotto. Nell’accordo di Parigi è stata prevista la possibilità di scambiare crediti di carbonio a questo scopo perché si ritiene che così si possa favorire una più rapida riduzione delle emissioni globali: in certi paesi, per via del loro livello di sviluppo industriale e delle loro caratteristiche geografiche, è più facile e meno costoso risparmiare emissioni che in altri.

Anche prima dell’accordo di Parigi del 2015 era stato creato un mercato globale di crediti di carbonio, sotto il cosiddetto Clean development mechanism (CDM) del protocollo di Kyoto del 1997, il precedente grande accordo internazionale per il contrasto al cambiamento climatico. Il CDM aveva l’obiettivo di incoraggiare gli investimenti finanziari privati, soprattutto nel settore della produzione di energia da fonti rinnovabili.

«Le sue modalità per certificare i crediti però si erano rivelate inadeguate», spiega Jacopo Bencini, ricercatore di Carbon Markets Hub dell’Istituto Universitario Europeo. «Infatti nel 2012, in seguito ad alcuni scandali riguardo alla loro affidabilità, l’Unione Europea aveva chiuso il proprio ETS allo scambio di crediti di carbonio».

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Per questo, e per il fatto che mancavano delle cose da decidere attorno all’articolo 6 dell’accordo di Parigi, finora gli scambi di crediti di carbonio tra paesi sono rimasti abbastanza limitati. Secondo le Nazioni Unite fino all’ottobre di quest’anno gli accordi bilaterali tra paesi sono stati 91, tra 56 paesi, ma il numero di scambi effettivi rimane ancora basso.

Gli scambi che coinvolgono le aziende invece avvengono in quello che è definito “mercato volontario dei crediti di carbonio” (VCM, nell’acronimo in inglese), che è stato sfruttato da molte società per poter dire di avere interesse, oltre che al profitto, alla propria sostenibilità ambientale. È lo stesso mercato che negli ultimi anni è stato interessato da una serie di indagini scientifiche e giornalistiche che hanno messo in forte discussione l’affidabilità dei crediti prodotti e certificati da organizzazioni di settore (che sono principalmente la statunitense Verra e la svizzera Gold Standard).

Perché un credito di carbonio sia fatto bene bisogna innanzitutto essere certi che senza il finanziamento dell’iniziativa che lo ha generato non ci sarebbe stata quella riduzione delle emissioni o quell’assorbimento di gas serra. Per fare un esempio: l’installazione di pannelli fotovoltaici non può essere considerata una iniziativa produttrice di crediti di carbonio se, nel luogo in cui sono installati, ci sono le risorse per acquistarli e un vantaggio economico a farlo. Inoltre bisogna stimare in modo corretto la riduzione delle emissioni o l’assorbimento di gas serra, per stabilire se si possa considerare permanente o se abbia una durata definita, ed evitare doppi conteggi nei bilanci delle emissioni di aziende e paesi.

Sono tutte cose piuttosto complicate nella pratica. Secondo un articolo pubblicato il 14 novembre sull’autorevole rivista scientifica Nature Communications, che ha preso in considerazione 14 diversi studi sui progetti per la creazione di crediti di carbonio, meno del 16 per cento delle iniziative indagate, che complessivamente corrispondono a un quinto di tutti i crediti prodotti finora, ha portato a una genuina riduzione delle emissioni.

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La definizione dell’articolo 6 era attesa da anni anche perché si sperava che avrebbe portato maggiore rigore anche nel contesto del mercato volontario, per quanto il suo carattere appunto volontario non lo obblighi a seguire le indicazioni delle Nazioni Unite.

Tra gli addetti ai lavori del settore si ritiene che l’introduzione di regole approvate dall’ONU possa far crescere molto il mercato. Per avere un’idea: nel 2023 il valore complessivo del mercato volontario era stato di meno di un miliardo di dollari e complessivamente tutti i sistemi per dare un valore finanziario alle emissioni (compresi dunque gli ETS e le tasse) avevano un valore di 104 miliardi di dollari. L’IETA, un’associazione di aziende che sostengono un’espansione dei mercati di crediti di carbonio, ha stimato quale potrebbe essere la dimensione del mercato basato sull’articolo 6 nel 2030: è un valore da prendere con le pinze, perché basato su premesse ottimiste, ma si parla di 250 miliardi di dollari.

Cosa è stato fatto a Baku
Alla COP29 è stato infine creato un sistema – chiamato Meccanismo per i crediti dell’accordo di Parigi (PACM, in acronimo) – di metodi rigorosi per sviluppare attività utili alla creazione di crediti di carbonio e accertarne la qualità. Solo i crediti prodotti rispettando questi metodi saranno considerati validi dall’ONU e i paesi potranno conteggiarli nel proprio bilancio di emissioni annuale, anche nel caso in cui i crediti fossero acquistati da aziende del paese. Il sistema è stato sviluppato da un organo supervisore delle Nazioni Unite che esisteva già e che dovrebbe vigilare sui mercati dei crediti.

Tra le altre cose il PACM prevede che ogni progetto per la creazione di crediti debba rispettare gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile, non solo economico ma anche sociale, fissati dalle stesse Nazioni Unite. È un aspetto importante anche da un punto di vista etico perché in passato alcuni progetti per la creazione di crediti erano stati accusati di aver violato i diritti di popolazioni indigene. Il PACM prevede anche la possibilità di sollevare vertenze riguardo ai progetti da parte delle persone più interessate, nel caso ritengano che sia contrario in qualche modo agli obiettivi di sviluppo sostenibile.

Anche altri aspetti del PACM sono importanti. Bencini cita ad esempio il fatto che debba essere prevista una sorta di assicurazione fisica per tenere conto del possibile fallimento di un progetto: «Nel caso della creazione di una foresta, chi se ne occupa deve preventivare che un incendio potrebbe distruggerla». Quindi, ancora prima di iniziare, deve riservare una parte della foresta da piantare come zona cuscinetto, non per generare crediti nell’immediato ma solo nel caso in cui la parte di foresta che invece si usa per produrli fosse distrutta.

Sotto il PACM inoltre le Nazioni Unite raccoglieranno un 5 per cento del valore dei crediti scambiati nei mercati di crediti di carbonio per finanziare altre iniziative di contrasto ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo. Martin Hession, vicepresidente dell’organo di supervisione del PACM, ha detto che il meccanismo è «il primo standard per i crediti di carbonio allineato con gli obiettivi dell’accordo di Parigi». Le prime tecniche per la creazione di crediti compatibili col PACM potrebbero essere approvate nella seconda metà del 2025, ha detto l’organo supervisore. È possibile che anche le organizzazioni certificatrici dei crediti del mercato volontario sottopongano all’ONU i propri metodi.

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A Baku si è anche definito come possono avvenire scambi di crediti di carbonio bilaterali tra paesi. In questo caso le Nazioni Unite non chiederanno il rispetto delle proprie metodologie (i paesi potranno scegliere in modo indipendente se seguirle o meno), ma solo l’invio di informazioni dettagliate riguardo alle modalità di creazione dei crediti.

Su questo aspetto della finalizzazione dell’articolo 6, che riguardava il comma 2, ci sono state più critiche da parte dei ricercatori e degli attivisti che studiano i mercati dei crediti di carbonio, che temono che gli scambi bilaterali possano avvenire con poca trasparenza, anche perché i tempi per la consegna delle informazioni sono lunghi e quindi sarà più difficile analizzare per tempo la qualità degli scambi.

Servirà a qualcosa?
In generale le reazioni ai risultati ottenuti a Baku sull’articolo 6 sono state miste tra gli esperti del settore. Molti si sono espressi positivamente, perché era da anni che si attendevano novità e perché hanno giudicato le regole del PACM sufficientemente rigorose.

«Il completamento dei negoziati sull’articolo 6 rappresenta un segnale importante per l’attuazione dell’accordo di Parigi», commenta Stefano De Clara, direttore esecutivo di ICAP, un’organizzazione intergovernativa che si occupa di come migliorare i sistemi di riduzione delle emissioni. «Sebbene la maggior parte degli sforzi debba essere realizzata attraverso misure nazionali, i mercati internazionali dei crediti, se implementati correttamente, possono costituire un complemento essenziale. In particolare, per i paesi meno sviluppati».

Altri hanno dato maggior peso al fatto che gli scambi bilaterali regolati dal comma 2 non saranno controllati maggiormente. Federica Dossi di Carbon Market Watch, un’organizzazione di ricerca non profit che riceve finanziamenti dall’Unione Europea, dice: «Le salvaguardie introdotte lasciano aperte alcune lacune, soprattutto nei mercati regolati dall’articolo 6.2, per la trasparenza e perché non sono previste conseguenze concrete in caso di irregolarità. Siamo scettici riguardo ai mercati dei crediti di carbonio, che finora non hanno mantenuto le promesse. Le regole sono state migliorate ma i cambiamenti sono marginali. E resta da vedere quali regole i paesi decideranno di rispettare per gli scambi bilaterali e come sarà implementato, nella pratica, il PACM».

In generale per capire meglio quali saranno le conseguenze concrete della definizione dell’articolo 6 bisognerà aspettare di vedere come e quanto i mercati dei crediti di carbonio cresceranno.