Scendere in campo, a Venezia

«Nelle grandi città italiane, ma anche in quelle più piccole, è molto raro vedere qualcuno che giochi per strada. Non è più un’abitudine, al massimo si va nei parchi, ma poi ci sono le palestre, le scuole calcio, eccetera. In molti casi, i bambini nemmeno lo sanno che si giocava per strada e che si potrebbe ancora, i genitori non glielo hanno insegnato. A Venezia, senza una ragione o regola particolare, avviene il contrario. Ed è come se tutti i discorsi sul futuro delle città qui trovassero un potenziale sbocco»

Due bambine corrono in Campo Santa Margherita, a Venezia (Foto Anna Toscano)
Due bambine corrono in Campo Santa Margherita, a Venezia (Foto Anna Toscano)
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Mi succede quasi ogni pomeriggio, avverto un suono, prima più attutito e poi intenso, chiaro. Sto camminando nell’ultima calle prima di sbucare in campo Santa Margherita, a Venezia, ed ecco il suono del rimbalzo, un pallone è stato calciato e allora accelero il passo per andare subito a vedere quello che so già: i bambini stanno giocando a calcio, di nuovo, anche oggi con questo sole, ma anche in quest’altro oggi in cui pioviggina. Stanno là, in sei o sette, hanno varie altezze, con le loro maglie dell’Inter, del Milan, della Juve, del Venezia, della Roma, del Real Madrid, del Barcellona, del Napoli. Quando vedo una maglia del Napoli ho sempre un sussulto.

Fermarmi qualche istante a osservarli giocare è per me una sorta di rituale, come quando prendiamo il caffè alla stessa ora, nello stesso bar. La particolare grandezza e forma di campo Santa Margherita – due rettangoli grandi, messi in diagonale, uno che si apre verso i Carmini e l’altro che finisce verso il ponte che porta a San Pantalon, e un terzo più piccolo che va verso San Barnaba – fa sì che contemporaneamente si svolgano due o tre minipartite. O meglio, tre improvvisazioni con il pallone. In quei momenti tutto riconduce al gioco, qui dura l’infanzia.

Non sempre i bambini hanno maglie da calcio, spesso cominciano a giocare appena usciti dalle scuole dei dintorni, spunta un pallone e via. Hanno le loro frasi: «Kvara, ti ho già detto da casa che lo faccio io». C’è una certa abilità in questi ragazzini e ragazzine (non riconducibile soltanto al gioco in sé) nel sapere adeguare la corsa, il dribbling e il tiro al paesaggio circostante. Sanno per istinto di trovarsi nel centro storico di una delle città più belle e complicate del mondo, lo sanno perché ci sono nati. Sanno che su certi muri si può calciare, su altri no. Sanno che davanti e dietro di loro passano residenti con carretti della spesa, passano anziani col bastone, passano gruppi di turisti e altri che si alzano o si siedono nei molti bar e ristoranti del campo. Sanno di doversi fermare un attimo, lasciando magari una finta sospesa, se sto passando con i miei due cani. Le persone proseguono e loro ricominciano.

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Quando passo in mezzo a questo giocare in campo avverto un sentimento prossimo alla gioia. A Venezia succede spesso, non solo in campo Santa Margherita, ma anche in campo Sant’Angelo, o a Sant’Alvise, o in campo Sant’Agnese, a San Giacomo, o ai campetti di Sant’Elena; accade quasi sempre di pomeriggio o nelle mattine in cui non c’è scuola; il rimbalzo del pallone dietro l’angolo ci ricorda – tra le altre cose – di essere vivi, di trovarci ancora nel panorama delle cose possibili.

Naturalmente, nei campi e tra le calli, qui a Venezia non si gioca solo a calcio. Alle spalle delle Zattere e dell’Accademia di belle arti c’è un canestro fissato al muro – ogni tanto, di anno in anno, per l’usura, viene cambiato – si giocano piccole partite, o anche degli uno contro uno all’americana. E poi, sfrecciano le bimbe e i bimbi sulle loro biciclette e tricicli proprio in mezzo alle partite di calcio, tra una vera da pozzo e un’edicola, tra richiami dei genitori e il vociare di questo o quel gruppo di turisti al seguito di una guida, roba da sfilargli la bandierina di riconoscimento per mettersi a giocare a staffetta.

Una bambina che vedo spesso, pare avere un’energia supplementare, corre per un tempo che sembra infinito sul suo monopattino. Gira intorno a tutti, sfiora questo o quell’altro, non rallenta, non impatta contro nessuno, non cade mai, sorride sempre. È l’unica che continua a correre, colma di felicità ed energia, anche quando gli altri se ne vanno, anche quando fa buio ed è ora di rientrare. Qualche settimana fa, in una calle abbastanza larga, non troppo distante dalla Salute, due ragazzini, stavolta francesi, avevano montato una rete da tennis mobile lì sul selciato e si sfidavano in un (pareva) molto acceso singolare. Anche loro erano ben consci circa il comportamento da assumere. Senza scomporsi al passaggio di più persone, interrompevano il gioco e spostavano la rete, poi ricominciavano dal punto precedente. Non si contano i salti dagli ultimi gradini di un ponte, da quelli di una basilica, o quelli per giocare a campana, che pare non tramontare mai e – soprattutto con la bella stagione – ritorna. Questo scenario multiplo ripetuto nei giorni, ma sempre diverso, un poco mi commuove e mi sono domandato il perché.

Sono andato indietro con la memoria, alle nostre strade, cortili, i mille posti dove giocavamo. Anche noi saltavamo alternando i piedi per giocare a campana. Oppure ci dedicavamo a lunghi balzi sull’amico abbassato più avanti, ripetendo quella filastrocca che per ogni dialetto cambia senza perdere mai il gusto del gioco, del divertimento e, soprattutto, dello sfottò. Ti prendevano in giro se sbagliavi il salto, e tu ricambiavi alla prima occasione.

Per imparare a staccare di testa il più possibile, prendevamo slancio e vigore sullo scivolo dei garage di casa delle mie zie, dei nonni. Uno stava in porta, in basso, davanti all’entrata dei box, uno in fondo pronto per il cross, e ciascuno di noi a turno, in cima allo scivolo pronto a saltare. La palla partiva, qualche passo di rincorsa, poi il salto, lo stacco, il pallone colpito di testa, tu che restavi sospeso a un’altezza non ancora (e forse mai più) raggiungibile. Il tuo amico parava? La palla entrava? E a chi importava. «Dobbiamo osare il grande salto nel cosmo», scrive Etty Hillesum, perciò contava il salto riuscito, il vuoto sotto i piedi, gli istanti prima che le ginocchia si piegassero mentre il corpo stava per tornare al suolo. Contava avvicinarsi al cosmo, all’ignoto. Nei pomeriggi ci allenavamo a fare i cross, alzando il più possibile il livello di difficoltà. Bisognava arrivare in un punto dove due marciapiedi si incrociavano e, prima che il pallone ne toccasse i bordi, ruotando caviglia e piede al massimo, crossare. Oppure, sotto l’occhio vigile di mio padre, ci esercitavamo a calciare all’ungherese.

Era molto bello, eravamo ragazzi, ma ripensare a quegli anni non spiega la mia commozione di oggi. Non credo di provare nostalgia e nemmeno di cedere al romanticismo, vabbè forse solo un pochino. Noi giocavamo in strada perché non c’erano molte alternative, le bambine e i bambini di adesso le alternative le hanno; perciò quello che mi emoziona è qualcosa di più profondo che ha a che fare poco con la memoria e parecchio con la visione, mi pare riguardi il destino di questa città (ma anche delle altre), la sua proiezione nel futuro. La nostalgia, per disturbare ancora una volta Giovanni Raboni, è un sentimento che è giusto provare solo rivolto al futuro.

Chi gioca adesso per strada rappresenta il nostro immaginario che disegna il tempo a venire, guardando quelle gambe che corrono appresso al pallone o che stanno in equilibrio su un monopattino possiamo vedere con chiarezza cosa dovrebbe essere una città, come potrebbe essere. Quei bambini sono degli urbanisti. Durante il periodo della pandemia, precisamente nel primo, disorientante e terribile lockdown, con il cielo che non smetteva mai di splendere azzurro sul deserto, mi sono reso conto del disastro in cui eravamo incorsi quando dopo un po’ di tempo, portando i cani a fare i bisogni in campo Santo Stefano, ho pensato che non avevo visto più un bambino da venti, trenta giorni.

L’assenza dei bambini e dei loro giochi era il vuoto totale, il panorama più desolante di tutta la zona desertica. Vederli giocare ogni giorno allontana l’idea della morte della città e, di conseguenza, della nostra. Venezia si svuota, è noto. I residenti o chi viene qui per studiare o chi per passarci un periodo più o meno lungo di lavoro incontrano molte difficoltà nel trovare una casa in affitto, a prescindere dal budget a disposizione. I turisti, molto spesso poco informati, fanno fatica a credere che qui vi siano delle persone vere che fanno le cose, ci vedono come dei figuranti ai quali al massimo si possa domandare come si arrivi a piazza San Marco. I politici, invece, ci dimenticano. È un discorso lungo e complesso che non affrontiamo qua, o meglio, ne affrontiamo un pezzetto e quel pezzetto ha a che fare col gioco.

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Nelle grandi città italiane, pensiamo a Milano, a Napoli, a Roma, a Torino, ma anche in quelle più piccole, è molto raro vedere qualcuno che giochi per strada. Non è più un’abitudine, al massimo si va – dove ce ne sono – nei parchi, ma poi ci sono le palestre, le scuole calcio, eccetera; e, all’interno dei parchi, le aree specifiche adibite al gioco, alle attività ricreative. In molti casi, i bambini nemmeno lo sanno che si giocava per strada e che si potrebbe ancora, i genitori non glielo hanno insegnato perché spesso non si può, è pericoloso, o esistono i divieti. Divieti condominiali che impediscono che si giochi nei cortili, divieti di giocare nei centri storici – recentemente (ma è solo l’ultimo dei casi) si è letto del regolamento della città di Frosinone che vieta di giocare a calcio nel centro storico, con tanto di multe e sequestro di palloni –, divieti di correre a una certa ora, divieti di andare in bicicletta al di fuori di certi percorsi e così via.

A Venezia, senza una ragione o regola particolare, forse solo per come è la città avviene il contrario. Tra il 2018 e il 2019 ci hanno provato con un regolamento comunale. Sono state date un po’ di multe, ci sono state polemiche e dopo nessuno più ha osato multare. Anche nel regolamento delle contravvenzioni comunali non c’è nulla, mentre resiste il sempreverde divieto di tuffarsi in canale o di non circolare a torso nudo. C’è il divieto di andare in bici ma le bici piccole dei bambini sono tollerate. È come se tutti i discorsi, più o meno complessi, che si fanno sul futuro delle città, sulla prossimità, sul riutilizzo degli spazi, sulla vivibilità, sulla comunità, qui trovassero un potenziale sbocco.

I bambini che giocano davanti all’Ospedale di San Giovanni e Paolo, mentre i loro genitori sono seduti a chiacchierare nella pasticceria a due passi, rappresentano la scintilla, l’innesco che potrebbe concretizzare già ora a Venezia quello che i principali architetti hanno immaginato o immaginano per le città del futuro. Venezia è già la città dei quindici minuti dell’architetto Carlos Moreno (il suo libro in Italia è edito da Add); la scuola, il lavoro, l’accesso ai servizi pubblici, il gioco, la condivisione degli spazi, le altre persone da incontrare (qui non prendi un appuntamento, qui ti incontri per strada) è (sarebbe) già tutto qui. Tutto prossimo. È addirittura fin troppo facile da immaginare, non ci sono nemmeno le automobili a fare da ostacolo. Quando calciano il pallone diventano la spiegazione visiva dell’idea di un urbanista sapiente. Il motivo per cui mi commuovo mentre li osservo giocare, penso, è gioioso ma è anche amaro, perché vedo il futuro così come dovrebbe e potrebbe essere.

«Non devi spostarti per vivere in un quartiere migliore», scrive Majora Carter, una stratega della rivitalizzazione urbana. Lei è nata nel Bronx, è andata via per studiare e poi ha deciso di tornarci, ha trasformato un’area di degrado in un piccolo parco urbano, l’Hunts Point Riverside Park. Era un’area identificata come una delle più grandi discariche a cielo aperto, ora è un ambiente sano, destinato al gioco dei bambini, allo svago, un posto buono in cui stare per le famiglie che nel Bronx hanno ancora redditi molto bassi. Scopro la storia di Carter, insieme ad altre, tra le pagine di Il senso delle donne per la città (Einaudi, 2023) dell’architetta Elena Granata, un libro luminoso e illuminante. Uso la vicenda di Carter per tornare a noi: non ci piace il posto in cui viviamo? Proviamo a cambiarlo. Nel caso di Venezia saremmo anche avvantaggiati, è un posto bello, bellissimo, e ha – per unicità – una serie di caratteristiche che potrebbero inserirla facilmente tra le città del futuro, ma in pochi se ne accorgono, si è consolidata una miopia verso il tempo a venire. Chi si occupa di città, a qualunque livello, vedendo i bambini, osservandoli con attenzione e onestà, non potrebbe far finta di niente. Perfino il famoso vecchio che ci bucava il pallone lo sapeva che il giorno dopo saremmo stati ancora là.

Sempre nel saggio di Elena Granata si può leggere il pensiero dell’antropologa e attivista Jane Jacobs: «Partire dalle strade, dai negozi, dalle abitudini quotidiane, non significa affatto perdere la visione d’insieme». Per Jacobs il pensiero sulle città procede dal basso verso l’alto, ricorda Granata, riconoscendo l’importanza delle piccole strategie volte a migliorare la quotidianità. Mi chiedo – mentre osservo un bambino che si esibisce in un elegante colpo di tacco – se io fermandomi ogni giorno per qualche minuto, in prossimità del gioco, non pratichi in qualche modo le idee di Carter, di Jacobs, di Granata e di Moreno; e se, nello stesso modo, io non stia ancora assecondando quel bambino che si esercitava a crossare dal punto esatto in cui i marciapiedi si incrociavano.

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Gianni Montieri
Gianni Montieri

È nato a Giugliano in provincia di Napoli. Scrive per Doppiozero, minima&moralia, Esquire Italia, HuffPost e il Manifesto, tra le altre. Prova a incrociare la letteratura con lo sport per Ultimo Uomo, Rivista Undici. I suoi libri di poesia più recenti sono Ampi margini (2022) e Le cose imperfette, editi da Liberaria. Ha pubblicato per 66thand2nd Il Napoli e la terza stagione e Andrés Iniesta, come una danza. Vive a Venezia.

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