Lucy non è più sola

Nei 50 anni dopo il suo ritrovamento sono stati scoperti molti altri fossili che hanno complicato la ricostruzione della nostra storia evolutiva

Un modello di Lucy (Getty Images)
Un modello di Lucy (Getty Images)
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Don Johanson stava per raggiungere la sua Land Rover dopo una deludente sessione di ricerca nel sito archeologico preistorico di Hadar, nella regione degli Afar in Etiopia. Era metà giornata e c’erano circa 38 °C, troppi per continuare a cercare. Poco prima di salire in auto, voltò lo sguardo e per caso notò qualcosa di strano sul terreno: un piccolo osso fossile, probabilmente un frammento di un braccio. Insieme a Tom Gray, Johanson trovò poi un frammento di un cranio, un femore, parti di un bacino e altre ossa. Era il 24 novembre del 1974 e i due ricercatori avevano fatto una delle più grandi scoperte nella storia dell’antropologia, trovando il miglior candidato per spiegare parte dell’evoluzione umana.

Johanson aveva 31 anni ed era un paleoantropologo del Cleveland Museum e insieme a Gray stava partecipando a una spedizione organizzata dal ricercatore francese Maurice Taieb. Tornarono al campo e annunciarono ai loro colleghi la scoperta: qualcuno offrì da bere delle birre e qualcun altro fece partire Lucy in the Sky with Diamonds, una delle canzoni più famose dei Beatles. La canzone veniva riprodotta a ripetizione e alla fine al gruppo di ricerca parve quasi naturale chiamare quell’inatteso ritrovamento “Lucy”, erano pur sempre le ossa di una potenziale nostra antenata vissuta almeno 3 milioni di anni fa.

A cinquant’anni di distanza da quella scoperta, e da una festa memorabile per Johanson, Lucy continua a essere di gran lunga il più famoso degli ominini, cioè il gruppo che comprende l’essere umano moderno (Homo sapiens) e i suoi antenati, diretti o variamente imparentati. Lucy non fa parte del genere Homo, ma di quello Australopithecus, ora estinto e che si ritiene ebbe un ruolo nella linea evolutiva degli esseri umani. O, per meglio dire, nel “cespuglio evolutivo” con ramificazioni grandi e piccole, spesso intricate, che complicano la ricostruzione della nostra evoluzione.

Lucy appartiene alla specie Australopithecus afarensis e prima del suo ritrovamento non era mai stato trovato uno scheletro fossile di ominino così ben conservato risalente a più di 3 milioni di anni fa. Era il primo individuo a essere collocato temporalmente nel periodo in cui i genetisti ipotizzavano che fosse iniziata la separazione dei nostri antenati umani dagli scimpanzé. La notizia della sua scoperta suscitò quindi un ampio dibattito, in un ambito in cui il confronto è spesso acceso e agguerrito.

Il ritrovamento del 40 per cento circa delle ossa fossili ad Hadar permise di ricostruire le caratteristiche principali di Lucy. Era alta circa un metro e pesava 30 chilogrammi e aveva ancora fattezze molto simili a quelle di una scimmia. Aveva un cervello piccolo se rapportato al nostro, ma era in grado di camminare mantenendo una posizione eretta, mentre gli arti superiori erano lunghi e probabilmente usati ancora per arrampicarsi sugli alberi, per trovare cibo e riparo dai predatori.

Lucy conservata nel Museo nazionale dell’Etiopia (da Wikimedia)

Per circa 20 anni dopo la scoperta si pensò che A. afarensis, la specie cui apparteneva Lucy, fosse la più antica conosciuta nella famiglia molto allargata delle specie che contribuirono all’evoluzione umana. Fu ipotizzato che fossero stati proprio gli A. afarensis a dare origine a tutti gli ominini che comparvero in seguito, compreso quelli appartenenti al genere Homo. Questa ipotesi era naturalmente dibattuta, ma per diverso tempo sembrò comunque improbabile che ci fosse stato qualcosa di diverso dagli A. afarensis prima di 3 milioni di anni fa.

Lucy del resto aveva somiglianze con le scimmie tali da far pensare che i suoi antenati fossero degli scimpanzé veri e propri. La scoperta di altri resti di A. afarensis avevano permesso di identificare un periodo di esistenza di circa un milione di anni, tra i 3,85 e i 2,95 milioni di anni fa. Ma a metà degli anni Novanta l’identificazione di nuovi fossili fece mettere in discussione molti degli assunti su Lucy.

Sempre in Etiopia, furono trovati fossili di una specie poi chiamata Ardipithecus ramidus risalenti a 4,4 milioni di anni fa, e poi fossili ancora più antichi di un’altra specie che si stima fosse vissuta 5,8 milioni di anni fa. In Kenya furono poi scoperte ossa fossili di specie vissute tra i 6 e i 7 milioni di anni fa. Il cespuglio evolutivo sembrava essere ancora più articolato del previsto, al punto che ancora oggi si discute se effettivamente quelle specie così antiche siano da considerare degli ominini. È anche dibattuto il loro eventuale grado di parentela con il genere Australopithecus e con Homo. I ritrovamenti indicano comunque che la nostra storia iniziò molto prima di Lucy, anche se non sappiamo ancora bene come.

Per capire meglio il ruolo di A. afarensis nella nostra storia evolutiva da circa trent’anni alcuni gruppi di ricerca si stanno concentrando sul periodo intorno ai 4 milioni di anni in cui potrebbero essere vissuti gli antenati di Lucy. Nel 1995 la scoperta in Kenya di fossili risalenti a 3,9 e 4,2 milioni di anni fa di Australopitechus anamensis fece ipotizzare che si potesse trattare della specie direttamente antenata di Lucy, ma una decina di anni fa il ritrovamento di fossili più recenti e concomitanti al periodo in cui era vissuta la sua specie ha portato a rivedere quell’ipotesi. Ora si ritiene che A. anamensis e A. afarensis (la specie di Lucy) abbiano convissuto per un certo periodo di tempo, con qualche membro della prima specie che diede origine alla seconda.

Se studiare cosa ci fu prima di Lucy è complicato, capire che cosa avvenne dopo fino alla comparsa di Homo è ancora più difficile. Il fossile più antico del genere a cui apparteniamo è un frammento di una mandibola che risale a 2,8 milioni di anni fa trovata non molto distante dal sito di Hadar. La vicinanza potrebbe essere un indizio a favore, ma il reperto non è sufficiente per trarre conclusioni più ampie, considerato anche che due delle specie più note del genere, H. habilis e H. erectus, fecero la loro comparsa in altre aree dell’Africa orientale. Negli ultimi decenni si è inoltre scoperto che in quelle zone vivevano molti gruppi diversi di ominini, la cui storia non è stata ancora ricostruita completamente.

I fossili scoperti negli ultimi cinquant’anni mostrano come intorno a 3,5 milioni di anni fa ci fu una marcata differenziazione tra gli ominini, cosa che sembra rendere un po’ meno sola Lucy di quanto fosse stato ipotizzato inizialmente. È possibile che il miglioramento della posizione eretta abbia favorito il processo, insieme ad altri fattori come quelli ambientali e legati alla dieta. Nonostante un quadro sempre più complicato, alcuni scommettono ancora su Lucy come il più probabile antenato diretto di Homo, mentre altri invitano a essere più cauti visto che i ritrovamenti fossili sono in molti casi parziali e da confermare.

Lucy in questo fu comunque un’eccezione: trovare uno scheletro completo al 40 per cento fu un evento raro, se non unico. Come per molte prime volte, nel 1974 si pensò che ci potessero essere presto altri ritrovamenti simili, come ha raccontato il paleoantropologo Bernard Wood: «Il caso ci ha fatto un brutto scherzo: ci ha dato il fossile migliore da subito. È un po’ come se al primo compleanno della mia vita io aprissi il primo regalo e ci trovassi esattamente ciò che voglio… Va a finire che pensi che tutti i regali saranno sempre belli come quel primo dono».

A inizio anno Don Johanson, che ora ha 81 anni, è tornato in Etiopia nel luogo in cui trovò quel «dono» cinquant’anni fa. Una lapide, molto semplice, ricorda il giorno del ritrovamento con scritte in inglese e in lingua amarica, la lingua ufficiale del paese. Il testo è accompagnato da uno schema che mostra le ossa fossili ritrovate e appartenute a Lucy. Anche se non possono darci tutte le risposte che avremmo voluto per ricostruire la nostra storia, hanno avvicinato nuove persone allo studio dell’evoluzione umana e hanno ispirato molti gruppi di ricerca.

Quanto al nome, ormai iconico, Johanson ricorda spesso con piacere che non è l’unico che fu attribuito a quel ritrovamento: «Si meritava un nome etiope. All’epoca vennero a trovarci al sito archeologico alcuni funzionari del ministero della Cultura dell’Etiopia e uno di loro disse: “Penso che dovremmo chiamarla Dinqinesh”. E Dinqinesh in lingua amarica significa “sei meravigliosa”. E lei certamente lo è!».