Anche l’agricoltura contribuisce al grande smog in India e Pakistan
Nonostante i divieti molti contadini continuano a bruciare le stoppie, causando problemi soprattutto in autunno
Nelle ultime settimane molte città del nord dell’India e del Pakistan sono state avvolte da una fitta coltre di smog, con conseguenti problemi di salute pubblica. Non è una novità, ma un fenomeno che si verifica annualmente: a causa della pessima qualità dell’aria in città come Lahore, in Pakistan, e New Delhi, capitale dell’India, ogni anno migliaia di persone vengono ricoverate con problemi respiratori.
L’inquinamento in queste zone ha varie cause: le principali sono le centrali elettriche a carbone e il traffico intenso in molte città, ma vi contribuiscono anche i fuochi d’artificio per la festa induista del Diwali e la bruciatura delle stoppie nei campi dopo il raccolto estivo, una pratica agricola vietata ma ancora molto diffusa. La concomitanza di questi due eventi nel periodo autunnale causa ogni anno un significativo peggioramento della qualità dell’aria nella regione.
Le stoppie sono i residui vegetali che rimangono sui campi coltivati dopo la mietitura. Il modo più rapido e semplice per liberarsene è bruciarle, così da ripulire i campi e prepararli per la semina successiva eliminando allo stesso tempo piante e animali infestanti. La pratica però rilascia nell’atmosfera grandi quantità di sostanze inquinanti e pericolose per la salute, come le polveri sottili.
Nel nord dell’India le stoppie vengono bruciate solitamente due volte all’anno: in estate, quando però il vento disperde il fumo, e verso la fine dell’autunno, quando le basse temperature e l’assenza di vento causano invece grossi problemi per la qualità dell’aria. In questo caso il fumo dei fuochi si aggiunge a quello delle altre fonti di inquinamento e permane sopra il nord dell’India e del Pakistan.
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Dal 2015 bruciare le stoppie nella regione di Delhi e negli stati vicini (Haryana, Punjab, Rajasthan e Uttar Pradesh) è vietato. Nel 2019 la Corte suprema indiana aveva ordinato agli stati dell’India di pagare ai contadini 100 rupie (l’equivalente di circa un euro, in un paese in cui lo stipendio medio mensile è di circa 200 euro) per ogni quintale di stoppie non bruciate. Esistono infatti metodi alternativi per liberarsi dei residui agricoli, che includono la rimozione manuale o tramite macchinari specializzati: secondo gli agricoltori però questi metodi costano circa mille rupie (11 euro) ogni mille metri quadrati di campo, o per pagare i braccianti, o per il carburante dei macchinari.
La maggior parte dei contadini indiani sono piccoli agricoltori, e difficilmente possiedono il denaro necessario per acquistare o anche solo noleggiare questi macchinari. In Punjab, uno dei maggiori centri agricoli dell’India, molti contadini hanno detto di non aver mai visto i soldi previsti per chi non brucia le stoppie, e l’amministrazione statale ha ammesso di non essere in grado di pagarli. Anche le politiche per permettere di usare gratuitamente i macchinari per ripulire i campi si sono rivelate sostanzialmente inefficaci per le lunghe liste di attesa.
La decisione del governo nazionale o di quelli statali di applicare rigidamente il divieto comunque sarebbe molto impopolare, e i politici sono restii a rinunciare potenzialmente al sostegno dei moltissimi contadini del nord del paese, che negli anni scorsi peraltro hanno rivendicato i propri interessi con grandissime manifestazioni.
Bruciare le stoppie è una pratica comune in molte parti del mondo (fra cui l’Italia), ma di solito è regolata rigidamente e limitata solo ad alcuni periodi, sia per i problemi della qualità dell’aria sia per il rischio che causi incendi fuori controllo. Un divieto introdotto in Cina nel 2015 ha contribuito a migliorare molto l’aria di Pechino, che era stata per anni nota come una delle città più inquinate del mondo. Gli sforzi per ripulire l’aria della capitale cinese sono comunque costati l’equivalente di 100 miliardi di euro, e hanno incluso il divieto di circolazione per le automobili più vecchie, la transizione dal carbone al gas naturale e l’introduzione di regole ambientali più severe per le fabbriche.
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