Anche il clima ha i suoi lobbisti
Tra le oltre 60mila persone alla COP29 ci sono attivisti ed esperti che cercano di influenzare i negoziati verso politiche ambientaliste o di transizione energetica
di Ludovica Lugli
Non ci sono ancora dati definitivi su quante persone abbiano partecipato alla COP29, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite di quest’anno, organizzata a Baku in Azerbaijan, ma le registrazioni sono più di 65mila. Per la maggioranza i partecipanti delle COP sono membri delle delegazioni dei paesi che negoziano sugli impegni internazionali per il contrasto al riscaldamento globale. Ci sono poi anche migliaia di persone che ci vanno come «osservatori», con l’obiettivo di influenzare le trattative in un modo o nell’altro. Possono essere persone che lavorano per le aziende di combustibili fossili (a Baku ne erano registrate almeno 1.700), ma anche quelli che si possono considerare lobbisti “per il clima” o “per la transizione energetica”.
Le Nazioni Unite permettono a un gran numero di organizzazioni di assistere ai negoziati sul clima e così seguirne l’andamento, cosa che invece non è concessa ai giornalisti. Gli osservatori dunque sanno bene su quali aspetti le delegazioni dei paesi sono in disaccordo e possono provare a spingere le trattative da una parte o dall’altra dando dei suggerimenti ai negoziatori.
«Lavoriamo ai margini», dice Eleonora Cogo, esperta di finanza internazionale che lavora per ECCO, un think tank indipendente che studia le iniziative di transizione energetica e mitigazione del cambiamento climatico in Italia. «Cerchiamo di fare proposte per provare a risolvere i nodi dei negoziati, oppure di dare una lettura diversa su una questione, che dia conto del punto di vista di altri paesi. Ad esempio suggeriamo di provare a pensare a cosa significa una determinata questione in un contesto di crisi del debito, come quello che riguarda gran parte dei paesi in via di sviluppo», dice ancora Cogo.
Nel caso dei think tank le consulenze possono essere molto tecniche, ma non solo: «Ci sono aspetti che esulano dal negoziato vero e proprio, ma servono per costruire una narrazione politica e aiutano a smussare un po’ le posizioni». In occasione della COP29, dedicata principalmente alla “finanza climatica”, cioè agli aiuti economici con cui i paesi più ricchi si sono impegnati a sostenere quelli meno sviluppati, ECCO ha lavorato moltissimo sulle questioni che riguardano i rapporti con i paesi dell’Africa, che sono tra i destinatari degli aiuti e con cui in questo periodo il governo italiano sta coltivando particolari rapporti all’interno del cosiddetto Piano Mattei.
Fa un lavoro simile anche chi lavora nelle organizzazioni ambientaliste. Ylenia Bursich, che lavora per Greenpeace, spiega: «Abbiamo come obiettivo quei paesi che pensiamo possano fare qualcosa per le nostre priorità politiche, che sono ad esempio degli impegni di riduzione delle emissioni ambiziosi e una finanza climatica che faccia pagare i danni causati dal cambiamento climatico alle grandi aziende inquinanti». In alcuni casi i membri di Greenpeace si rivolgono direttamente ai capi delegazioni dei paesi, altre volte, se le questioni sono più puntuali, al delegato che si occupa di un argomento specifico.
«L’Italia in questo momento non è tra i nostri obiettivi anche perché partecipa al negoziato all’interno dell’Unione Europea», continua Bursich, «ci rivolgiamo ai paesi che potrebbero cambiare posizione o guidare un cambiamento, come in passato sono stati la Colombia o alcuni paesi insulari del Pacifico, come Vanuatu».
Organizzazioni meno strutturate di Greenpeace, che è una delle più grandi ong ambientaliste del mondo, possono avere approcci più «a tappeto». Benedetta Rossi, medica di Brescia che aveva partecipato alla COP21 del 2015 all’interno di una associazione di studenti di medicina, ricorda che per inserire un riferimento ai danni per la salute causati dal cambiamento climatico nell’accordo di Parigi lei e altri giovani attivisti usarono approcci molto informali: «Facevamo irruzione negli uffici per farci ascoltare, aspettavamo i delegati fuori dalla sala dei negoziati o li fermavano mentre facevano una pausa per bere un caffè. L’obiettivo era suggerire emendamenti all’accordo sul tema della salute». Alla fine il riferimento fu incluso nel testo.
Le ong ambientaliste organizzano anche molte altre attività che hanno lo scopo di portare all’attenzione dei media e quindi di un pubblico più ampio le loro battaglie. Oltre alle conferenze stampa e alle interviste, quasi ogni giorno nei corridoi delle COP ci sono manifestazioni di protesta di una o più organizzazioni, che possono anche creare delle coalizioni (Greenpeace ad esempio fa parte di Climate Action Network, o più brevemente CAN, che ne raccoglie più di 1.900 nel mondo). Queste manifestazioni devono essere autorizzate dalle Nazioni Unite, che sono l’autorità che gestisce gli spazi interni della conferenza, mentre per eventuali proteste all’esterno il riferimento è il paese in cui si svolge la COP.
«Di solito per avere l’approvazione bisogna aspettare un giorno», spiega Bursich. Non è complicato ma bisogna rispettare alcune regole: «Ci sono cose su cui non si può essere molto espliciti, non si possono nominare singoli paesi o aziende. Ad esempio quando noi parliamo della campagna “make polluters pay” [“facciamolo pagare a chi inquina”] ci riferiamo a sette multinazionali specifiche che stanno distruggendo il pianeta: non possiamo menzionarle in modo diretto ma tanto tutti sanno di chi stiamo parlando».
I think tank come ECCO sfruttano le COP anche per confrontarsi con altri enti che studiano le varie questioni legate al contrasto del cambiamento climatico di altre parti del mondo, anche in funzione del negoziato: «Parlando tra noi proviamo a capire in maniera alternativa come si potrebbero sbloccare le trattative. Tra noi riusciamo ad avere delle conversazioni molto più sincere e capire davvero quelli che sono i nodi, quindi poi possiamo aiutare un po’ le delegazioni». In alternativa si organizzano incontri per il resto dell’anno, perché anche se le conferenze delle Nazioni Unite si tengono solo tra novembre e dicembre il lavoro che c’è dietro non si ferma mai.
Sia Cogo che Bursich frequentano le COP da anni. Cogo in passato ha fatto parte della delegazione italiana e ha negoziato per conto dell’Unione Europea: «Quello è proprio un lavoro a tempo pieno», racconta, «in cui si susseguono riunioni della delegazione italiana al completo, riunioni di coordinamento con tutte le delegazioni europee e riunioni con il gruppetto negoziale dell’argomento su cui si lavora. E poi ci sono i negoziati ufficiali e quelli bilaterali tra paesi per cercare di trovare una soluzione su un punto di disaccordo. Le ore dormite erano davvero poche».
Anche per gli osservatori, comunque, è tutto piuttosto intenso. «Non si mangia tanto, si corre sempre e ci si dimentica anche di andare in bagno, praticamente», dice Bursich.
Da programma la COP29 sarebbe dovuta finire il 22 novembre, ma il negoziato sul tema principale della conferenza, la finanza climatica, è stato molto difficile e le bozze per il possibile accordo sono arrivate in ritardo. È probabile che la conferenza si chiuderà sabato 23, ma sia i delegati che gli osservatori sono preparati. Non è la prima volta che i negoziati si dilungano – il sito di notizie specializzato Carbon Brief ha anche fatto un grafico che mostra come dal 1995 a oggi le COP sono diventate sempre più lunghe, in media – e molti si erano organizzati in anticipo. Bursich dice: «Tanti avevano preso il biglietto aereo di ritorno per il 24, anche io».