La Lega è incastrata

Il calo di consensi di Matteo Salvini e del partito ha molto a che vedere con la permanenza al governo, eppure uscirne è impensabile

Il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini al forum di Conftrasporto, a Roma, il 13 novembre 2024 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
Il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini al forum di Conftrasporto, a Roma, il 13 novembre 2024 (Cecilia Fabiano/LaPresse)
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I pessimi risultati ottenuti dalla Lega nelle recenti elezioni regionali in Umbria e in Emilia-Romagna hanno messo di nuovo in grande evidenza la consistente crisi politica del partito. Il declino è testimoniato anzitutto dal grosso calo dei consensi: tra le europee del 2019 che furono l’apice elettorale della Lega a quelle di giugno scorso il partito ha perso 7 milioni di voti, passando dal 34,2 all’8,9 per cento. E ultimamente le cose vanno ancora peggio. È un po’ come se la parabola di Matteo Salvini, che nel 2013 era diventato segretario della Lega quando stava al 4-5 per cento, dopo aver toccato il punto più alto cinque anni fa stia ora tornando verso i valori di partenza. E tutto ciò sta generando grosse tensioni dentro il partito.

È improbabile che questo trambusto nella Lega produrrà ripercussioni sulla stabilità della maggioranza che sostiene il governo di Giorgia Meloni, almeno nel breve termine. Ma non c’è dubbio che anche la permanenza in un governo che sta rinnegando o accantonando molti dei propositi più identitari della Lega sia motivo di malcontento. Martedì scorso, per commentare la sconfitta in Umbria ed Emilia-Romagna, un deputato leghista ha condiviso in una chat di WhatsApp con alcuni colleghi il link al programma con cui la Lega si era presentata alle elezioni del settembre 2022, corredando il messaggio con una frase che suggeriva, polemicamente, di trovare quanti di quei progetti avessero avuto seguito, e potessero dunque essere utilizzati per fare campagna elettorale. La provocazione ha creato discussioni tra i parlamentari.

Una crescente insofferenza c’è in particolare nei confronti di Giancarlo Giorgetti, che è anche uno dei più autorevoli e longevi dirigenti della Lega, vicesegretario fino al settembre scorso. Da quando è ministro dell’Economia, Giorgetti sta interpretando il suo ruolo in maniera assai rigorosa: dovendo gestire una finanza pubblica disastrata, sta adottando politiche di bilancio austere e prudenti per contenere la spesa pubblica e ridurre il debito pubblico, senza concedere spazio a molte proposte identitarie della Lega, che sarebbero troppo dispendiose.

Giancarlo Giorgetti interviene al Senato per il Question time, il 17 ottobre 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

La Lega di Salvini ha per anni fatto una propaganda feroce contro la “legge Fornero” che aumentava l’età per andare in pensione, e ora Giorgetti sta di fatto ripristinando molte delle misure previste da quella legge, rendendo più difficili e meno convenienti i prepensionamenti. Lo stesso discorso vale per la flat tax e le altre agevolazioni fiscali in favore dei lavoratori autonomi, o per la modifica delle regole fiscali europee. Tutte battaglie portate avanti con veemenza dalla Lega per anni, e ora palesemente contraddette dalle scelte e dall’atteggiamento di Giorgetti.

Da questo punto di vista, nominarlo come ministro dell’Economia è stata una scelta tatticamente perfetta di Meloni, che ha in questo modo disinnescato sul nascere qualsiasi possibile contestazione di Salvini nei confronti della politica economica del governo, dal momento che il responsabile di quella politica è proprio un dirigente della Lega.

– Leggi anche: Giancarlo Giorgetti contro anni di propaganda della destra sull’economia

È anche per questo che capita spesso di sentir dire ai parlamentari leghisti che il partito è in trappola: ipotizzare una crisi di governo per tornare all’opposizione e recuperare consensi è impensabile, ma restare così in maggioranza è molto faticoso. Non solo sui temi economici. Sulla guerra, per esempio, Salvini ha dovuto di fatto accettare la linea filo-atlantica ed europeista di Meloni, e votare sempre a favore del sostegno militare all’Ucraina. Per quanto riguarda l’immigrazione, le iniziative più o meno efficaci per ridurre gli sbarchi vengono rivendicate da Meloni. Quanto alle competenze specifiche di Salvini, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti molto in affanno per via dei costanti ritardi dei treni, non resta molto altro su cui puntare se non la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina, un’opera che però richiederebbe tempo e soldi che al momento non ci sono, e che difficilmente potrà garantire consensi alla Lega nel breve periodo, specie nelle regioni del Nord. E nel frattempo, in questi due anni di permanenza al governo, la Lega ha perso la guida di due regioni: la Sardegna e l’Umbria.

In questa situazione già di per sé così difficile per la Lega, la sentenza con cui la Corte costituzionale il 14 novembre ha dichiarato parzialmente illegittima la riforma dell’autonomia differenziata ha portato ulteriore malcontento.

L’autonomia resta una delle poche battaglie originarie a cui la Lega è rimasta affezionata, nella sua transizione da partito del Nord secessionista a partito nazionalista, e resta per certi versi il tema più sentito dalla base elettorale storica in Veneto e Lombardia. Salvini, e con lui il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli, si è affrettato a dire che la sentenza non pregiudica l’attuazione della riforma, e che anzi il fatto che la legge nel suo impianto complessivo non sia stata bocciata dalla Corte conferma la validità del progetto. Ma tra i dirigenti leghisti c’è piena consapevolezza del fatto che la sentenza renderà di fatto impraticabili, almeno nel giro di qualche anno, le intese con cui il governo può trasferire poteri e funzioni alle regioni su alcune specifiche materie.

Soprattutto in Veneto, alcuni esponenti della Lega hanno criticato la mancanza di fermezza con cui Salvini ha chiesto a Meloni di rinnovare l’impegno in favore dell’autonomia.

Luca Zaia e Roberto Calderoli sul palco di Pontida, il 17 settembre (Claudio Furlan/LaPresse)

Per quanto possa sembrare un’ironia del suo destino politico, il Nord è il motivo di preoccupazione principale per Salvini, non solo perché proprio in quelle terre – dove la Lega è nata e si è radicata – la perdita di consensi negli ultimi due anni è stata più consistente rispetto al Centro e al Sud.

Il congresso in Lombardia, con cui i militanti nominano il nuovo segretario regionale (anche se nel gergo leghista i segretari regionali lombardi si chiamano “segretari nazionali”, proprio in ricordo dell’originaria battaglia secessionista del partito), è stato rinviato per anni da Salvini, per timore che il confronto interno tra gli esponenti più legati a lui e quelli nostalgici del vecchio corso nordista diventasse uno scontro. L’ultimo era stato nel 2015, e significativamente il segretario nominato allora, Paolo Grimoldi, rimasto in carica fino all’inizio del 2021, ha poi abbandonato polemicamente la Lega accusando Salvini di aver tradito la vecchia causa federalista. Dal febbraio del 2021 il partito è formalmente guidato da un commissario, il deputato Fabrizio Cecchetti, da molti ritenuto ben poco autorevole.

Mercoledì il Consiglio federale, cioè il massimo organo direttivo del partito, ha convocato il congresso per il prossimo 15 dicembre. I due principali candidati sono entrambi salviniani (il capogruppo al Senato Massimiliano Romeo e il deputato Luca Toccalini, leader della Lega Giovani dal 2019), ma intorno a loro si vanno organizzando fazioni contrapposte, con molti militanti favorevoli al ritorno a un approccio più nordista e conflittuale con Fratelli d’Italia, pronti a sostenere Romeo.

Poi c’è il Veneto. È l’altra grande regione del leghismo, quella che insieme alla Lombardia determina maggiormente gli orientamenti del partito a livello nazionale. Qui, oltre al tema dell’autonomia che è molto sentito, il problema è legato alle elezioni regionali del prossimo anno. Amministratori locali e militanti vorrebbero che Luca Zaia venisse ricandidato: per farlo servirebbe una specifica legge per consentire ai presidenti di regione di restare in carica per più di due mandati, e al momento né Fratelli d’Italia né Forza Italia sembrano disposte a votarla. Anche perché il partito di Meloni rivendica per sé la scelta di chi candidare in Veneto, così da consolidare il proprio primato elettorale al Nord.