I diritti dei film italiani sono un gran casino
«L’Italia non fa assolutamente nulla per valorizzare il cinema del suo passato. L’estrema difficoltà oggi nell’organizzare una retrospettiva completa è figlia di una storica sottovalutazione. A metà anni Settanta l’avvento selvaggio delle tv private fece fallire gran parte dei distributori italiani. I diritti dei vecchi film furono messi all’asta e acquistati per poche lire da pochi imprenditori all’epoca considerati quasi malati di mente. Il risultato è che oggi, spesso, per proiettare un film o uno spezzone ci si sentono chiedere cifre assurde o si risale a società non più reperibili, perché non esistono più»
Può succedere che un bambino venga portato in un paesino nei pressi di Asti che si chiama Mombarone e che sgrani gli occhi quando sua mamma saluta un vecchio signore molto elegante e che lo presenti al pargolo dicendo: «Vedi, questo signore ha fatto tanti film e uno di questi ha fatto il giro del mondo». Il bambinetto ha cinque anni e chiede al signore che sfoggia un paio di indimenticabili baffoni: «E quali sono i tuoi film?» Il signore rimane zitto qualche secondo, come se stesse pensando, poi dice. «È inutile dirtelo, tanto nessuno di quei film è più mio».
Il bambino rimane colpito, quella frase gli ritornerà periodicamente in mente: ma come, se lo ha fatto lui, perché non è suo? In seguito il bambino scoprirà il concetto di plusvalore, di proprietà privata e di tutto quanto concerne la società capitalistica. Però quella frase sarà una specie di fiume carsico che nella sua mente farà capolino tante, tante volte. Anche perché il bambino, inopinatamente (che voleva fare tutt’altro), ha finito poi per occuparsi proprio di cinema.
Chi sia il bambino, forse lo avete capito. Il misterioso signore con i baffi si chiamava invece Giovanni Pastrone e abitò i suoi ultimi tempi proprio a Mombarone, sulla collina di fronte a quella dove è nata mia mamma. E Giovanni Pastrone è stato il primo e più eclatante caso di persona che avendo diretto film di grande successo (il suo Cabiria, distribuito nel 1914, è considerato il primo kolossal della storia del cinema, con le sue 20.000 comparse e le magnifiche scenografie) si è poi trovato nella situazione di non poter più disporre del suo capolavoro. Fu uno dei fondatori del Museo del Cinema di Torino, ed è morto nel 1959, pochi mesi dopo quell’incontro che è uno dei miei ricordi più lontani eppure vivissimi.
Già, i diritti dei film. In Italia sono un gran casino. Il possesso legale di un film regola ogni tipo di suo sfruttamento, ma i diritti possono essere ceduti e le transazioni non correttamente registrate, il che conduce a liti giudiziarie, ma anche alla paradossale e frequente scoperta che i diritti di un film (o una quota di essi) sono detenuti da una società non più reperibile, perché non esiste o non si trova più.
Gli esperti di storia del cinema (ma anche nomi di una certa rilevanza quali Martin Scorsese, Quentin Tarantino, i fratelli Coen e, fuori dall’America, Abbas Kiarostami e Zhang Yimou) sostengono a ragione che la library (cioè l’insieme dei film italiani) sia la seconda come importanza a livello mondiale, ovviamente dopo la produzione hollywoodiana. Contribuiscono a questo posto i grandi capolavori che vengono citati a memoria (i film neorealisti di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica – Roma città aperta, Paisà, Sciuscià, Ladri di biciclette –, quelli di Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti o Bernardo Bertolucci) ma anche opere che avevano una dimensione molto più esplicitamente commerciale (i western di Sergio Leone e di Sergio Corbucci, le commedie di Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, Luigi Comencini, i gialli di Dario Argento, i divertissement con Terence Hill e Bud Spencer che altri non sono se non gli italianissimi Mario Girotti e Carlo Pedersoli, i film di Ercole e Maciste, etc etc).
I film italiani, insomma, hanno fatto il giro del mondo. Non solo i grandi capolavori sopracitati, non solo i premi Oscar più recenti (Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Roberto Benigni, Massimo Troisi, Paolo Sorrentino), non solo i campioni del cinema commerciale già elencati. Si possono citare milioni di esempi che dimostrano la penetrazione a livello mondiale del cinema italiano. Si è già scritto che Tarantino si è ispirato a Django di Sergio Corbucci e a Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellari per i suoi due capolavori Django Unchained e Bastardi senza gloria. Pochi però sanno che il nostro comico più bravo, il principe Antonio De Curtis in arte Totò, è stato doppiato non solo in Francia (dove la voce gliela imprestava un certo Louis de Funès), ma anche in arabo e perfino in cinese.
Il fatto poi che lo scià di Persia abbia pagato personalmente per realizzare Vulcano figlio di Giove e Gli invincibili fratelli Maciste (due film mitologici decisamente non memorabili) perché voleva due ruoli da protagonista per il wrestler iraniano Iloosh Khoshabe, che era una specie di eroe nazionale, è un altro elemento che non andrebbe trascurato. Su tutt’altro livello, è importante il continuo riferirsi a Federico Fellini da parte di Woody Allen. Sono esempi che testimoniano la penetrazione in profondità che ha avuto tutto il cinema italiano a livello mondiale. A ulteriore conferma si potrebbe vedere il documentario che Scorsese ha dedicato al nostro cinema, unendo Rossellini e Mario Bava, o ricordare che il film hippie per eccellenza, Easy Rider, deve il suo titolo alla passione che il regista Dennis Hopper aveva per Easy Life, che altro non è se non il titolo americano della commedia road movie (già…) Il sorpasso, di uno strepitoso Dino Risi con uno strepitoso Vittorio Gassman.
Racconti simpatici, dati esaltanti. L’Italia è il secondo paese al mondo per l’importanza della sua library, ma non fa assolutamente nulla per valorizzare anche commercialmente questo primato. Anzi, l’estrema difficoltà oggi nell’organizzare per esempio una retrospettiva completa di un qualsiasi autore o attore italiano è proprio figlia di una storica sottovalutazione dell’importanza del cinema d’archivio. È questo il tema del convegno Torino Film Industry indetto dalla Cineteca Nazionale e dalla Film Commission Torino Piemonte che si svolge dal 21 al 27 novembre a Torino, al quale partecipano televisioni, aventi diritto, archivi e registi (in particolare Alina Marazzi e Costanza Quatriglio, che al cinema che riusa materiali d’archivio hanno dedicato gran parte della propria filmografia diventando la prima direttrice del festival Unarchive e la seconda direttrice del corso di documentario presso il Centro Sperimentale di Cinematografia).
La difficoltà e la sottovalutazione delle quali dicevamo hanno origini lontane. A metà anni Settanta, infatti, l’avvento selvaggio e non regolamentato delle televisioni private che proiettavano film a ripetizione pagandoli poco o niente fece fallire gran parte dei distributori italiani. E come è noto, quando una società fallisce i suoi beni vengono messi all’asta nel tentativo di recuperare qualche soldo per pagare i creditori. Nel caso dei distributori, i beni in questione erano i vecchi film che si stimava valessero poco o niente. Accadde così che pochi imprenditori all’epoca considerati quasi dei malati di mente li acquistarono per poche lire.
Uno di loro è Stefano Libassi (lunga tradizione cinematografica la sua, con il padre produttore e uno zio attore caratterista in molti film di Totò), che non nasconde di averlo fatto quasi più per una spinta sentimentale che per una certezza imprenditoriale. Oggi ha in listino tantissimi film del nostro cinema, capolavori come La notte di Michelangelo Antonioni, appena presentato a Venezia in un bellissimo restauro, ma anche piccoli film commerciali come Sansone e il tesoro degli Incas di Piero Pierotti. Libassi è una persona intelligente e disponibile, e infatti le cineteche italiane ed estere fanno la fila per lavorare con lui, che questi film continua a venderli in tutto il mondo, producendo anche documentari (sull’horror, il sexy, il western…) che hanno proprio il fine di valorizzarli.
Ma per un Libassi disponibile e attento ci sono molti altri aventi diritto che invece non lo sono affatto. Spesso non rispondono nemmeno a chi chiede un loro film, oppure chiedono cifre assurde per una piccola citazione in un documentario indipendente. Si credono furbi, ma non lo sono: agendo così, impediscono di fatto che i loro film siano valorizzati e contemporaneamente negano l’accesso a un patrimonio che dovrebbe invece essere condiviso perché parte integrante e importante della cultura italiana del ventesimo secolo.
Di fatto, si è di nuovo in un mercato non regolamentato. Non esistono tariffe prestabilite, non esistono gradazioni consolidate per le tariffe stesse. È evidente che una citazione in un documentario indipendente non può essere valutata come una citazione (magari proprio la stessa) in una trasmissione televisiva di prima serata. E non è solo un discorso culturale. Se Tarantino o Scorsese non avessero avuto la possibilità di citare i nostri film popolari, questi non avrebbero il valore che hanno. Dopo il successo di Django Unchained, non solo Django ma tutti gli altri film western di Corbucci (Il grande silenzio, Minnesota Clay, Vamos a matar compañeros, Il mercenario) hanno avuto un’impennata nelle quotazioni. Si tratta di spettacolo, e la visibilità per chi produce contenuti di spettacolo è tutto. Sembra chiaro, ma per alcuni aventi diritto tutto questo chiaro non è. Senza citare i casi, che pure esistono, di gente che rivendica diritti su film che in realtà non possiede. Una situazione da far west alla quale lo Stato deve mettere rimedio perché questa situazione impedisce di valorizzare – cioè di vedere – una componente importante del patrimonio culturale italiano degli ultimi 120 anni.
I rimedi sono semplici. Da un lato, andrebbe intanto fatto un grande piano per digitalizzare (e quindi preservare) tutto il patrimonio filmico italiano, quello contenuto nelle varie cineteche e quello detenuto dai privati. Poi bisogna stabilire norme certe per l’utilizzo dell’archivio evitando gli abusi da parte degli utenti ma anche le vessazioni da parte dei titolari. Ma prima ancora ci vuole un movimento culturale che parta dalla consapevolezza dello stato dell’arte, la settima. Oggi ci sono canali televisivi (History Channel, National Geographic, Rai Storia, Sky Arte….) che vivono praticamente di cinema d’archivio e al documentario di archivio si dedicano grandi nomi anche in Italia, come Giuseppe Tornatore, Marco Bellocchio, Mario Martone e molti altri. Se questo avverrà, sarà davvero un passo avanti, anche per quel ragazzino che sgranava gli occhi più di sessant’anni fa davanti a un signore con i baffi che aveva perso i diritti sul suo capolavoro…