Il problema della ritrattazione nei casi di violenza di genere
Spesso le donne che avevano denunciato abusi vengono indotte a dire che si erano inventate tutto: finora la giurisprudenza ha sottovalutato la questione, ma qualcosa si sta muovendo
di Giulia Siviero
Dopo che il marito l’aveva picchiata brutalmente, e per l’ennesima volta, A. era stata lasciata dal suocero davanti alla casa dei genitori, che vedendola in quelle condizioni l’avevano immediatamente accompagnata in ospedale. Inizialmente ai medici la donna aveva detto di essere caduta accidentalmente, ma molte delle sue lesioni non erano compatibili con il racconto e alla fine si era convinta a presentare una denuncia per maltrattamenti nei confronti del marito e padre dei suoi figli che all’epoca, nel 2020, erano piccolissimi. In seguito alla denuncia il pubblico ministero chiese per l’uomo la misura cautelare della detenzione in carcere, dove lui rimase per 21 giorni.
Dall’ospedale, a causa di quell’ennesima aggressione, A. era uscita avendo perso la vista da un occhio, con vistose cicatrici su tutto il corpo, comprese le orecchie, e con una grave compromissione dell’equilibrio e della deambulazione. Fuori dall’ospedale A. aveva poi continuato a subire dal marito e dai genitori di lui minacce che avevano a che fare con l’affidamento dei figli, forti pressioni per «rimettere insieme la famiglia che aveva spaccato», come riferisce la sua avvocata, e per tirare il marito fuori dalla prigione dove lei «era stata accusata di averlo mandato». È a quel punto che A. decise di ritrattare tutto quel che aveva raccontato all’inizio. Non è vero niente, disse, «mi sono inventata tutto».
Chi si occupa di violenza di genere sa che le donne che l’hanno subita e che hanno avviato un percorso giudiziario molto spesso decidono di ritrattare, di ridimensionare le proprie dichiarazioni iniziali o di rinunciare alla denuncia contro l’autore del reato. Succede talmente di frequente – come si dice nel report del 2023 della Procura generale della Corte di Cassazione sulla violenza di genere – che in ambito giuridico i casi di ritrattazione sono materia di dibattito e questioni di cui si occupano diverse sentenze, emesse da tribunali nazionali e sovranazionali.
Le conseguenze delle ritrattazioni sono molto concrete: nella maggior parte dei casi pregiudicano l’esito del giudizio portando all’assoluzione dell’autore del reato, ma arrivano anche a tradursi in denunce per calunnia contro le donne stesse che hanno subìto violenza (la calunnia è il reato che commette chi accusa qualcuno di un altro reato, pur sapendolo innocente). Hanno ricadute sulla loro incolumità pur a fronte di un possibile e concreto pericolo di continuare a subire maltrattamenti, e sulla loro credibilità anche in caso di nuove denunce in futuro, perché nella grandissima parte dei casi le condotte violente persistono. E hanno ricadute, infine, sulla loro capacità genitoriale se hanno dei figli. Una ritrattazione trasforma la donna che ha subìto violenza nell’oggetto del giudizio e porta a ritenere che non sia attendibile, meritevole di protezione o di essere una madre, e in questo modo la espongono a nuovi abusi.
Dopo che A. era uscita dall’ospedale e aveva ritrattato, il suo caso è arrivato al tribunale dei minori di Salerno che ha deciso di sospendere la responsabilità genitoriale di lei e di lui: quella di lei, nello specifico, perché avendo rivisto le proprie dichiarazioni non è stata considerata né affidabile né tutelante nei confronti dei figli, che sono stati dunque affidati ai nonni paterni e mandati a vivere nella loro casa. Si trovano ancora lì. E lì, da quattro anni, frequentano regolarmente il padre mentre la madre possono vederla solo per un’ora al giorno in modalità protetta, cioè alla presenza dei servizi sociali. La bambina, che all’epoca della violenza aveva sei mesi, oggi ha quattro anni. Il figlio, di poco più grande, si rifiuta di vedere la madre.
L’uomo, nel frattempo, ha chiesto una separazione giudiziale con addebito a carico della donna. Ha chiesto cioè che la responsabilità della fine della relazione venga fatta ricadere su di lei, per un suo comportamento che avrebbe reso intollerabile la prosecuzione della convivenza. Il procedimento è ancora in corso, ma se l’addebito sarà riconosciuto dal giudice, comporterà per A. la perdita del diritto a un assegno di mantenimento, la perdita di ogni diritto successorio e il pagamento delle spese legali del giudizio. Paradossalmente, A. è stata anche denunciata per calunnia perché, avendo prima raccontato una versione e poi un’altra, si sarebbe resa colpevole di aver accusato l’uomo di un reato che lui non avrebbe commesso.
Il processo penale è in corso e in caso di condanna A. rischia la reclusione da due a sei anni. Nello stesso tribunale che si sta occupando della calunnia, è in corso anche il processo nei confronti dell’uomo per maltrattamenti: grazie al sostegno ricevuto in un centro antiviolenza, infatti, A. nel frattempo ha trovato il coraggio di confermare ciò che fin dall’inizio aveva detto le fosse accaduto, ritrattando la sua stessa ritrattazione. Maria Carmela Cicchiello, presidente dell’Osservatorio sul diritto di famiglia di Benevento che si occupa da molti anni di vittime di reati di genere, avvocata di una casa rifugio per donne maltrattate e legale di A., dice che quella della sua cliente «è una storia, purtroppo, molto comune».
Lo scorso febbraio la sesta sezione penale della Corte di Cassazione, riprendendo alcuni recenti giudizi, ha emesso una sentenza importante, che ribalta le cose. Sostiene che ritrattazione, ridimensionamento e remissione di querela anziché costituire elementi per escludere il reato o per mettere in dubbio l’attendibilità della denunciante possano essere sintomatici del contrario. Possono cioè indirettamente confermare il reato stesso e l’esposizione della vittima alla prosecuzione o all’aggravamento della relazione maltrattante attraverso minacce, ricatti, intimidazioni, rappresaglie e condizionamenti portati avanti dall’imputato o da chi gli sta intorno.
La sentenza della Cassazione in questione confermava la condanna del giugno del 2023 decisa dalla Corte di appello di Messina nei confronti di un uomo per maltrattamenti ai danni della convivente. Dopo la condanna l’uomo, tramite il proprio legale, aveva presentato ricorso argomentandolo con varie motivazioni. La principale era che la Corte di appello avesse basato la propria decisione finale sulle dichiarazioni della donna che erano state però da lei ritrattate. Durante il processo d’appello però i giudici avevano giudicato inattendibile proprio la ritrattazione, segnalando lo «stato di soggezione» della donna e elencando le «riscontrate e convergenti prove» che confermavano la reiterazione dei maltrattamenti nei suoi confronti: c’erano testimonianze della polizia e atti redatti durante i loro interventi per violenza domestica nella casa dove i due vivevano, testimonianze dei vicini di casa, testimonianze dell’ex marito della donna che le aveva offerto un rifugio, e un referto medico. Questo contesto, nonostante la ritrattazione, confermava insomma che la violenza effettivamente c’era stata. E quando quella sentenza di appello era arrivata in Cassazione, la Cassazione ne aveva confermato la piena legittimità stabilendo un orientamento di cui i giudici di rango inferiore da quel momento in poi dovrebbero in generale sempre tener conto.
La sentenza della Cassazione consente di riconoscere ritrattazioni e ridimensionamenti non più come l’espressione di volubilità e inattendibilità intrinseca delle persone offese, ma come un esito possibile, se non addirittura certo, dovuto alle modalità «insidiose, circolari e manipolatorie in cui può svilupparsi la violenza domestica». È quello che afferma la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, conosciuta più brevemente come Convenzione di Istanbul, un trattato internazionale che l’Italia ha ratificato nel 2013 che è anche il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante per la prevenzione e il contrasto di un fenomeno che è riconosciuto come strutturale. Per quanto riguarda la ritrattazione, la Convenzione stabilisce che è un comportamento connaturato alla dinamica dei reati legati alla violenza domestica tanto che impone «che i procedimenti penali legati a tali reati vadano perseguiti a prescindere dal fatto che le vittime ritrattino o ritirino la denuncia».
Nella violenza maschile contro le donne ci sono delle costanti: non è emergenziale, è un reato trasversale a etnie, classi sociali o religioni che a differenza di altri non sta diminuendo e avviene nella grandissima parte dei casi in contesti affettivi e per mano di persone conosciute. Ma, soprattutto, segue dinamiche precise che hanno un andamento ciclico.
Il meccanismo che viene usato per descriverla, e che ancora oggi si usa, è stato elaborato già alla fine degli anni Settanta dalla psicologa statunitense Lenore Walker sulla base delle ricerche e delle testimonianze delle persone maltrattate con le quali aveva lavorato. Il ciclo della violenza, dice Walker, si compone di varie fasi. La prima è quella dell’“accumulo di tensione”, quando avvengono una serie di eventi, scenate di gelosia, discussioni, insulti e violenza verbale o psicologica, che sono interpretati da parte di chi li subisce come sporadici e gestibili, ma tali da generare paura e mettere in crisi la propria identità e le proprie capacità. Via via le condotte violente aumentano, diventano sempre più gravi e culminano nella fase dell’aggressione che spesso è anche di natura fisica. È la fase più breve del ciclo e anche quella di maggiore pericolosità per la vittima, che tende a isolarsi e non reagisce temendo l’incremento della violenza stessa, certa che passerà.
Dopodiché l’aggressore si ferma e ha inizio la fase di riconciliazione e calma, quella della cosiddetta “luna di miele”. In questa fase l’aggressore si scusa, promette che quanto accaduto non si ripeterà più servendosi di tecniche manipolatorie affinché la relazione continui, soprattutto utilizzando i figli come arma di ricatto: tecniche che generano nella vittima senso di colpa e la convinzione che da lì in poi le cose cambieranno. Dopodiché il ciclo ricomincia in una spirale continua in cui l’autostima e la consapevolezza di sé di chi subisce violenza risultano sempre più compromesse, fino ad ammalarsi anche gravemente.
Le decisioni o le non decisioni che vengono prese dalle donne vittime di violenza vanno dunque comprese all’interno di questo contesto. La giudice di Cassazione Paola Di Nicola Travaglini, esperta in materia e autrice di diversi libri, spiega che è durante la terza fase, quella della luna di miele, «che spesso la donna ritratta, che ritira la querela che ha presentato al momento dell’aggressione o che ritiene di essersi confusa volendo credere all’autore della violenza che le assicura che cambierà». Di Nicola Travaglini dice che questo fatto «costituisce ormai massima di esperienza, riconosciuta dalla Relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio della precedente legislatura, oltre che dalla Convenzione di Istanbul e da ultimo dalla Direttiva del maggio 2024 dell’Unione europea sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica». Una della ragioni per cui le donne smentiscono le loro stesse parole è dunque legata a una delle fasi del ciclo della violenza.
La seconda ragione è la paura: in particolare, la paura che portare avanti il procedimento penale possa ritorcersi contro le donne stesse che l’hanno avviato. «La presenza di minori all’interno di questa dinamica o il fatto di trovarsi nel mezzo di una separazione in cui in gioco c’è l’affidamento dei figli agisce esattamente nella direzione della paura, piuttosto che in quella contraria. Le donne che denunciano durante la separazione sono viste con sospetto innanzitutto dal loro contesto familiare e sociale, che le isola perché le ritiene delle “cattive madri” che con la denuncia hanno rotto l’unità familiare e ostacolato il rapporto dei figli con il loro padre. La paura può dipendere anche dalle condizioni di isolamento in cui la donna che per anni ha subito violenza è stata costretta o dalla dipendenza economica che le è stata imposta dall’autore del reato», spiega Di Nicola Travaglini.
Una terza ragione della ritrattazione, prosegue la giudice, è la mancata protezione delle donne che subiscono violenza, come sostengono almeno cinque sentenze che la Corte europea dei diritti umani (CEDU) ha emesso contro l’Italia tra il 2017 e il 2022. Secondo queste sentenze ritrattazione e ridimensionamento possono derivare proprio dalla mancanza di un’efficace e immediata protezione delle vittime, di una fattiva e competente difesa tecnica, dal non essere seguite da centri antiviolenza specializzati e, in generale, dal pericolo di essere colpevolizzate.
«Se non c’è un’immediata messa in sicurezza, anche con provvedimenti cautelari, e l’autore prosegue condotte minacciose e ricattatorie che vengono banalizzate da istituzioni non formate sulla valutazione del rischio di prosecuzione del reato – che ha precisi criteri studiati a livello internazionale – le vittime di violenza ovviamente ritrattano. Come le vittime di mafia. Ricordiamoci che l’autore conosce tutto di loro: ha le chiavi di casa, ha il loro numero di telefono, sa dove lavorano, conosce le loro abitudini, avvicina i loro figli», dice Di Nicola Travaglini. E ricorda anche che nel 2021, a proposito di un procedimento per stupro di gruppo, la CEDU ha parlato dei processi penali italiani per violenza di genere come di un «calvario» per le donne stesse, in cui agiscono gli stereotipi sulla violenza di genere, il principale dei quali è la convinzione che le donne denuncino falsamente: «Se le istituzioni non rispondono in modo adeguato, sono di fatto le istituzioni a costringere la vittima a tornare sui propri passi. Si chiama, in termini giuridici, “vittimizzazione secondaria” ed è causata soltanto dalla mancata formazione degli operatori», dice la giudice.
Sovente la ritrattazione viene dunque ottenuta dall’imputato proprio attraverso nuove condotte di violenza, o di avvicinamento tramite parenti o amici. È indotta e agevolata anche dal fatto che, di regola e salvo lo stato cautelare dell’imputato, il dibattimento si celebra a notevole distanza di tempo dal fatto. In un report del 2022 del Consiglio superiore della magistratura si spiega come non sia un caso che spesso l’imputato di reati legati alla violenza di genere scelga il rito dibattimentale anziché quello abbreviato, «evidentemente confidando nel ripensamento della donna». Nel report si precisa che in questi casi «avrebbe dunque particolare rilievo la celerità della trattazione», che dovrebbe riguardare «non solo la fase delle indagini ma anche le fasi successive, in quanto il fattore tempo incide pesantemente sulla tenuta della persona offesa».
In realtà il codice di procedura penale italiano si occupa della ritrattazione. L’articolo 500, al comma 4, stabilisce che quando vi sono elementi concreti per ritenere «che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità» affinché non deponga o deponga il falso, «le dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al fascicolo del dibattimento». Tradotto, dice Di Nicola Travaglini, «significa che se un giudice, durante il processo, è davanti a una donna vittima di violenza che sta ritrattando e ritiene che ci siano elementi concreti e obiettivi, anche di natura logica, che possano far pensare che su di lei siano state fatte pressioni e intimidazioni di vario grado», allora «quel giudice può ritenere fondate solo le originarie dichiarazioni della donna e inattendibile la sua ritrattazione». Questo articolo viene spesso applicato nei reati che hanno a che fare con la criminalità organizzata, ma di rado per i casi di violenza domestica, dice Di Nicola Travaglini.
Come segnalato nel 2022 dalla Procura generale della Corte di Cassazione in un documento intitolato “Orientamenti in materia di violenza di genere”, a fronte del tasso rilevante di ritrattazioni c’è la necessità che la vittima sia accompagnata da un percorso che la sostenga per l’intero procedimento, che quest’ultimo sia privo di stereotipi, che sia più celere, che tenga conto delle norme sovranazionali e delle fonti internazionali che illustrano con precisione cos’è la violenza di genere. È quindi utile che la magistratura operi “in rete” , coinvolgendo i centri antiviolenza. C’è bisogno di un intervento più coordinato tra differenti autorità giudiziarie, che venga superata l’idea che diritto penale e civile in merito a un’unica vicenda familiare viaggino su due binari paralleli.
Non di rado infatti, e come nel caso di A., ci si trova di fronte a decisioni incompatibili del giudice penale e di quello civile. Capita che il giudice penale applichi una misura cautelare al padre per atti violenti all’interno della famiglia e che il giudice civile disponga l’affidamento condiviso dei figli. Oppure che in sede civile vengano disposte consulenze tecniche che richiedono incontri tra le parti pur in presenza di misure cautelari protettive. O ancora che le madri debbano accompagnare i figli per le visite dai padri colpiti da una misura cautelare, dal momento che il giudice civile ignora la vicenda penale.
Soprattutto, dice Di Nicola Travaglini, c’è carenza di formazione, che in Italia non è obbligatoria per chi opera nella giustizia e in qualsiasi settore cruciale nel contrasto alla violenza contro le donne (assistenti sociali, psicologi, medici del pronto soccorso, pediatri, e così via). Formazione che volontariamente viene fatta invece su altre materie ritenute molto più tecniche, come per esempio i casi di bancarotta fraudolenta: «Invece, nei casi di violenza di genere, tra i più difficili anche sotto il profilo giuridico perché richiedono la conoscenza di diversi ambiti del diritto e non solo, delle Convenzioni internazionali ma soprattutto della radice culturale e invisibile del movente, si gioca tutto sulla formazione di forze di polizia, avvocati, pubblici ministeri e giudici», dice Di Nicola Travaglini, «altrimenti il rischio della vittimizzazione secondaria e della ritrattazione sono dietro l’angolo, con tutte le conseguenze che comportano in termini di impunità per delitti che violano i diritti umani e normalizzazione della violenza per l’intero contesto socioculturale di una comunità».
– Leggi anche: Qual è il problema delle sentenze sui casi di stupro in Italia
Tatiana Montella, femminista e avvocata che tra le altre cose lavora con due centri antiviolenza per consulenze in materia penale, ritiene importante allargare un po’ lo sguardo sulla questione della ritrattazione. «A volte» spiega «è legata all’idea di giustizia che una donna ha: non tutte sono indotte o costrette a farla e non tutte sono mosse da una logica punitiva. Desiderano “solo” interrompere la dinamica violenta, vogliono l’allontanamento del maltrattante o una protezione immediata. E usano dunque gli strumenti che il penale offre loro, all’interno di dinamiche e rapporti che restano comunque complessi, soprattutto se sono presenti dei figli».
Questo per Montella dice anche «che la complessità del fenomeno della violenza di genere non può essere risolta esclusivamente per via penale e dentro ai tribunali, ovvero dentro a un contesto che, seguendo questa via, resta individuale. Soltanto leggendo la violenza maschile contro le donne come un fenomeno strutturale della nostra società superiamo una dimensione strettamente privata della violenza stessa, e comprendiamo la necessità di una presa di coscienza e di responsabilità collettiva, necessaria per incidere realmente su un fenomeno che non può e non deve rimanere confinata nel privato». Se la ritrattazione finisce sempre e purtroppo per compromettere le donne stesse con conseguenze per loro molto pesanti, non va fatto nemmeno l’errore completamente opposto: «Pensare che una “brava madre” o una “brava donna” siano brave solo se denunciano o fanno condannare».