Ora al Museo Egizio di Torino ogni cosa è illuminata
In occasione del bicentenario ha aperto nuove sezioni e trasformato il suo statuario da una scatola nera a una galleria piena di luce
di Emanuele Menietti
Nel 2006 lo scenografo Dante Ferretti, vincitore di tre premi Oscar, progettò il nuovo allestimento temporaneo dello statuario del Museo Egizio di Torino, la sua sala più famosa e d’impatto. Ma si sa che il temporaneo diventa spesso permanente, soprattutto in un museo, e lo statuario di Ferretti, con i suoi punti di luce sulle grandi statue millenarie immerse nel buio, rimase tale e quale per anni. Apprezzatissimo dai visitatori, era meno amato dagli egittologi che cercano di allontanare l’antico Egitto dallo stereotipo del suo misticismo oscuro, anche perché non è forse il deserto pieno di luce?
Ora, a distanza di quasi 20 anni, le statue del Museo Egizio hanno ritrovato la loro luce. Se non proprio quella del Sole cocente che le ha illuminate per millenni, quella di uno statuario completamente ripensato per rendere più realistica e al tempo stesso filologica l’esposizione di sfingi, statue di faraoni e di altre divinità conservate da oltre un secolo a Torino. La nuova “Galleria dei Re” è stata inaugurata mercoledì 20 novembre in occasione dell’inizio dei festeggiamenti per il bicentenario dell’Egizio, uno dei musei più visitati e apprezzati d’Italia con circa un milione di visitatori all’anno.
Per l’allestimento “Riflessi di pietra”, Ferretti aveva disposto le statue rivolte verso l’ingresso dello statuario, in modo che accogliessero idealmente i visitatori al loro arrivo. Due grandi sfingi in arenaria provenienti dal tempio di Amon a Karnak (vicino a Tebe, l’odierna Luxor), risalenti a tremila anni fa, aprivano la prospettiva della sala fino al colosso alto circa cinque metri dedicato al faraone Seti II, proveniente dallo stesso tempio. I punti luce illuminavano le singole statue lasciando nella semioscurità il resto della sala, con un gioco di specchi che contribuiva a dare un maggiore senso di profondità. L’effetto scenografico era assicurato, ma la rappresentazione non era fedele a ciò che vedeva chi in tempi remotissimi raggiungeva Karnak.
Le sfingi non erano per esempio orientate dando le spalle al tempio, ma si fronteggiavano a coppie, in modo da sorvegliare simbolicamente il viale che conduceva all’edificio. Le due sfingi dello statuario sono quindi tornate a guardarsi, ora lungo una parete dalla sala, con un disegno sul suo rivestimento di alluminio che illustra come apparivano a Karnak. E l’alluminio opaco è stato scelto come elemento centrale della nuova Galleria dallo studio di architettura olandese OMA, incaricato di ripensare l’esposizione insieme agli egittologi del museo. La luce, che ora può filtrare dai finestroni del palazzo seicentesco che ospita il museo e che Ferretti aveva oscurato, si riflette sulle pareti insieme a quella prodotta dal nuovo sistema di illuminazione, ricordando la luminosità abbacinante negli ambienti esterni di un antico tempio egizio.
La statua di Seti II è rimasta al suo posto, al fondo della sala, sia per continuità sia per motivi pratici, hanno spiegato i curatori del museo. Il colosso pesa circa 5 tonnellate e sarebbe stato non solo difficile ma anche rischioso spostarlo: i pesi devono essere distribuiti con attenzione nella sala, per evitare cedimenti strutturali. Le pareti in alluminio mostrano un grande disegno del tempio di Karnak, mentre nel caso delle altre statue mostrano informazioni sulla loro storia.
Un grande arco porta alla seconda sala della Galleria, nella quale sono raccolte statue di altri faraoni e di divinità egizie. Al centro è ben visibile la statua di Ramesse II, una delle più famose e tra i simboli più riconoscibili del Museo Egizio. Altre statue sono state collocate in ordine cronologico con una impostazione più scientifica, come aveva detto di voler fare il direttore del museo, Christian Greco, già sei anni fa: «Intendo cambiare completamente la Galleria dei Re dell’Egizio che il pubblico ama, ma noi archeologi no, perché le statue sono decontestualizzate».
Greco divenne direttore del museo dieci anni fa, quando non aveva ancora quarant’anni, dopo una selezione internazionale curata dalla Fondazione Museo delle Antichità Egizie, che dal 2004 gestisce l’Egizio tenendo insieme le principali istituzioni pubbliche, comprese quelle piemontesi, e due fondazioni bancarie. Sotto la direzione di Greco, il museo ha proseguito il lavoro di rinnovamento dell’intero percorso espositivo, passando dalle teche di legno di un tempo – stracolme di reperti e con minuscole didascalie scritte ancora a macchina – a criteri più moderni e didattici. La riorganizzazione e il recupero di nuovi spazi, sempre nella sede storica nel centro di Torino, offre la possibilità di valorizzare meglio gli oltre 40mila reperti della collezione, anche se sarebbe impossibile mostrarli tutti. Il primo, un’elaborata tavoletta in bronzo nota come “Mensa isiaca”, non proveniva dall’antico Egitto.
Era stata realizzata probabilmente a Roma nel Primo secolo dopo Cristo, forse per decorare una camera di culto dedicata a Iside, la dea egizia della vita. Era stata ceduta dai Gonzaga ai Savoia nella prima metà del Seicento e aveva suscitato curiosità e interesse per la civiltà egizia. Circa un secolo dopo, il botanico e appassionato di egittologia Vitaliano Donati fu incaricato di condurre scavi archeologici in Egitto, dove trovò statue e altri reperti che inviò a Torino. All’inizio dell’Ottocento poi si sviluppò una Egitto-mania in Europa, grazie alle campagne napoleoniche che avevano portato a numerose altre scoperte archeologiche nel paese.
Fu in quel periodo che il piemontese Bernardino Drovetti, già console generale di Francia, collezionò oltre 7mila reperti. Provò a venderli senza successo alla Francia, ma riuscì a cogliere l’interesse del re sabaudo Carlo Felice, che nel 1824 acquistò la collezione per 400mila lire. La collezione Drovetti fu unita a quella Donati e ad altri reperti portando alla costituzione del primo Museo Egizio della storia (quello del Cairo fu costituito una trentina di anni dopo). In due secoli di esistenza, il museo continuò non solo a espandersi, ma anche a finanziare missioni archeologiche in Egitto, regolarizzando i rapporti con il paese e rendendo condiviso il patrimonio di conoscenze e la possibilità di far conoscere la sua storia più antica nel resto del mondo.
Gestire i rapporti con un paese dalla storia politica complicata come l’Egitto non è sempre semplice e implica confrontarsi con qualche contraddizione. Nel 1965 il Museo Egizio mise in sicurezza il tempio nubiano di Ellesiya, che rischiava di essere sommerso dal lago artificiale Nasser, frutto della costruzione della grande diga di Assuan sul Nilo. L’anno seguente il governo egiziano donò il monumento all’Italia e si decise di conservarlo a Torino. E proprio il tempio di Ellesiya è stato restaurato e riallestito in occasione del bicentenario del museo, con un’installazione video che proietta sulle sue pietre le attività che resero possibile il suo trasferimento in Italia.
La sala 6 in cui sono conservati i reperti dell’antico villaggio operaio di Deir-El Medina, da poco riallestita, è dedicata da qualche anno a Giulio Regeni, il giovane ricercatore rapito e ucciso al Cairo nel 2016 in circostanze ancora da chiarire e con un successivo ostruzionismo investigativo e processuale da parte delle autorità egiziane.
Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio, erano invitati alla cerimonia per il bicentenario di mercoledì, cui ha partecipato anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma erano a un’udienza per il processo ancora in corso sull’omicidio del figlio. La presidente del Museo Egizio, Evelina Christillin, li ha ringraziati per il loro messaggio di risposta all’invito nel quale hanno scritto che: «Forse il ponte culturale è l’unico che riesca a tenere aperta qualche speranza di verità».
Dopo un lungo confronto interno al ministero della Cultura, mercoledì il ministro Alessandro Giuli ha confermato Christillin fino al 2028: la sua carica era in scadenza e il rinnovo era stato chiesto da buona parte delle istituzioni coinvolte.
Oltre alla Galleria dei Re, a inizio ottobre è stato terminato l’allestimento permanente di “Materia. Forma del tempo”, una nuova ala del museo dedicata alle materie con cui l’antica civiltà egizia produsse l’enorme quantità di manufatti nei suoi circa quattromila anni di storia, dal 3.900 avanti Cristo (il cosiddetto “periodo predinastico”) fino al 342 avanti Cristo (“periodo tardo”): una sezione è dedicata ai legni e ai pigmenti utilizzati per le decorazioni, un’altra alla ceramica e l’ultima alla pietra. Racconta con un approccio divulgativo le conoscenze e le scoperte su come lavorassero gli artigiani egizi e quali progressi tecnologici avessero raggiunto.
Enrico Ferraris, coordinatore dell’iniziativa, ha spiegato che il nuovo allestimento «conferma la definitiva interiorizzazione del dialogo tra scienze umane, scienze naturali e tecnologia, come cifra del paesaggio culturale e museale del XXI secolo». La nuova ala si ispira ad alcune mostre effettuate in passato all’Egizio che avevano già sperimentato nuovi modi di esporre i reperti e di contestualizzarli in aree tematiche e non solo cronologiche.
Un approccio simile era stato già seguito con l’apertura della Sala dei Tessuti, nella quale sono raccolti oltre 700 tessuti di epoca faraonica (3.000-322 a.C.), dai quali emerge un finissimo lavoro di tessitura seguito per millenni. I teli sono stati esposti per la prima volta al pubblico su speciali supporti trasparenti, con un grande lavoro di recupero iniziato nel 2010. Prima di allora erano stati conservati per decenni in sacchi di carta: per alcuni doveva essere una sistemazione temporanea, come testimoniato da un biglietto lasciato ai tempi di Ernesto Schiaparelli, storico direttore del museo nei primi decenni del Novecento, su uno di quei pacchi per una consegna e arrivato fino ai giorni nostri. Ma, appunto, si sa che il temporaneo diventa spesso permanente, soprattutto in un museo.