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  • Mercoledì 20 novembre 2024

È stato speso solo un terzo dei fondi per ridurre le liste d’attesa

Negli ultimi quattro anni i governi hanno dato alle regioni centinaia di milioni di euro che in gran parte sono inutilizzati

Operatori sanitari preparano un paziente a una Tac
Operatori sanitari preparano un paziente a una Tac (ANSA/UFFICIO STAMPA ESERCITO)
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I governi che si sono succeduti dal 2020 al 2024 hanno dato alle regioni centinaia di milioni di euro per ridurre i tempi di attesa di esami e visite mediche, in generale molto lunghi e in alcuni casi lunghissimi. Tuttavia le regioni hanno speso solo una minima parte di tutti quei soldi: poco meno del 30%. Se n’è accorta la Corte dei Conti che negli ultimi mesi ha faticosamente ottenuto dalle regioni un resoconto sull’utilizzo di quei fondi. «Nonostante l’ammontare non indifferente di risorse messe a disposizione, il relativo utilizzo appare esiguo», si legge in una relazione diffusa martedì.

Il problema delle liste d’attesa è noto e discusso da anni, già prima del sensibile peggioramento causato dalla pandemia. I tempi di attesa si allungano quando c’è uno squilibrio tra la domanda e l’offerta, cioè quando il numero di persone che cercano di prenotare è più alto rispetto alle prestazioni disponibili. Le indagini fatte ogni anno da varie associazioni che tutelano i diritti dei pazienti mostrano le conseguenze di questo squilibrio. La più recente è stata realizzata dall’associazione Cittadinanzattiva: tra i casi limite ci sono i 498 giorni di attesa per un’ecografia all’addome nell’azienda universitaria del Friuli, oppure i 427 per una visita cardiologica all’azienda sanitaria 3 della Liguria.

Solo pochi ospedali in Italia riescono a rispettare i tempi massimi previsti dalla legge: entro 72 ore se la priorità è urgente (indicata con la sigla U sulla prescrizione), entro 10 giorni se è breve (B), entro 30 giorni per visite differibili (D), entro 120 giorni quando sono programmate (P). In molte regioni le persone sono quasi costrette a rivolgersi a strutture private, che hanno organizzazioni flessibili e a differenza degli ospedali pubblici possono concentrare gli sforzi sulle prestazioni più remunerative, garantendo più appuntamenti per le visite e gli esami più richiesti.

Semplificando molto, il problema può essere risolto in due modi: intervenendo sulla domanda, cioè limitando le prescrizioni di esami e visite fatte dai medici di famiglia o dagli ospedalieri; oppure aumentando l’offerta, mettendo cioè a disposizione più appuntamenti. Dopo l’emergenza coronavirus i governi hanno scelto soprattutto la seconda soluzione: dal 2020 all’inizio del 2024 sono stati dati circa 2 miliardi di euro alle regioni – in Italia la sanità è competenza regionale – per aumentare le prestazioni sanitarie. L’analisi della Corte dei Conti si è concentrata in particolare su due fondi: il primo da 483 milioni di euro, il secondo da poco più di 365 milioni di euro.

– Leggi anche: Le lunghe liste di attesa negli ospedali, spiegate

Il primo appunto critico fatto dalla Corte dei Conti alle regioni riguarda l’approssimazione nella raccolta e nella trasmissione dei dati. Le risposte all’indagine sono state parziali e molte regioni non sono state nemmeno in grado di fornire dati aggiornati. Di fatto, spiega la Corte dei Conti, è complicato capire come sono stati spesi quei soldi perché ogni regione fa un po’ come le pare: i sistemi di organizzazione dei dati e dei controlli sono diversi l’uno dall’altro e di conseguenza non è sempre possibile fare confronti.

Il lungo lavoro di ricognizione ha permesso almeno di avere un prospetto preciso sulle spese complessive. Nel caso del primo fondo sono stati spesi soltanto 66,8 milioni di euro sui 229 messi a disposizione, quindi il 29,2 per cento. Del secondo fondo sono stati spesi 171 milioni sui 365 disponibili, cioè quasi il 47 per cento.

Molte regioni non hanno utilizzato nemmeno un euro del primo fondo. Abruzzo, Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia e provincia autonoma di Trento hanno speso meno della metà dei soldi, mentre solo Calabria, Puglia, Sardegna, Umbria e provincia autonoma di Bolzano hanno speso una quota superiore al 50 per cento. La Sicilia è l’unica regione che ha sforato, spendendo l’11 per cento in più di quanto le era stato assegnato.

Nel caso del secondo fondo solo Emilia-Romagna, Lazio, provincia autonoma di Trento, provincia autonoma di Bolzano e Sardegna hanno speso meno della metà, ma molte regioni hanno utilizzato i soldi messi a disposizione dal governo anche per altro: i soldi per ridurre le liste di attesa sono serviti per far quadrare i bilanci precari della sanità regionale. «Non è più accettabile che i fondi stanziati per le liste d’attesa non siano ancora stati spesi proprio per abbattere le liste d’attesa», ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci, che ha scritto alle regioni per chiedere controlli più serrati e ha previsto premi per chi raggiunge buoni risultati.

A luglio il governo aveva approvato un decreto annunciando nuove regole e fondi per ridurre le liste d’attesa. Il piano era stato presentato prima delle elezioni europee come straordinario e risolutivo, per motivi più che altro elettorali. In realtà molte delle misure erano già previste da anni. Tra le varie novità approvate, una delle più celebrate dal governo era la creazione della piattaforma nazionale delle liste d’attesa, un sistema per controllare le regioni, lo stesso previsto già dal 2019 e finora servito a poco.

Anche la norma chiamata “salta code” non è nuova: prevede che quando non è possibile rispettare i tempi indicati nella ricetta ci si possa rivolgere a strutture private, pagando solo il ticket. Il costo della visita dovrebbe essere rimborsato successivamente dalla regione alle strutture private. È una possibilità già prevista da una ventina d’anni e finora quasi mai sfruttata dalle regioni.