I funerali dell’anarchica Pinelli
«“Non sei stata tu a cercare quei riflettori che ti hanno puntato addosso e che anzi, hai cercato sempre di evitare", ha scandito la figlia Claudia dagli altoparlanti durante la cerimonia per sua madre Licia Rognini. Vorrei ricordare una foto. Venne scattata all’una e cinque di notte del 16 dicembre 1969. Quattro giorni prima era scoppiata la bomba di piazza Fontana e Giuseppe Pinelli dalla sera della strage era rinchiuso nel palazzo della questura di Milano. Quella notte un paio di giornalisti del "Corriere" si precipitano a casa Pinelli a San Siro, in via Preneste 2. Licia Pinelli, in vestaglia, apre la porta e i due giornalisti le comunicano la notizia. “Dev’essere successa una disgrazia a suo marito”. E aggiungono: “Sembra che sia caduto da una finestra della questura“. Licia Pinelli ascolta e in quel momento, click, viene scattata la foto. Il volto grigio, livido, prosciugato da quattro giorni di timori e cattivi pensieri, diventa un’immagine di cronaca».
Qualcuno ha fatto il conto dei giorni trascorsi da Licia Rognini Pinelli senza più il marito a fianco: 20.054 giorni. Non era scontato che dopo tutto il tormento, gli oltraggi e la fatica, avrebbe vissuto così a lungo. 1928-2024. Dal fascismo a Elon Musk. Quasi un secolo di vita. Eppure ce l’ha fatta. Una folla di amici si è ritrovata per darle l’ultimo saluto nella casa funeraria San Siro di via Arcangelo Corelli, la stessa strada, all’estrema periferia di Milano, dov’era in funzione il CPR finito sotto inchiesta per malagestione. Per arrivare fino da quelle parti, tra il quartiere dell’Ortica e la frazione di Novegro, occorrevano, oltre a un mezzo proprio di trasporto, una buona motivazione. Nel mio caso era un desiderio, diciamo, esistenziale: bagnarmi di nuovo nelle acque agitate di una lunghissima storia. E bisbigliare un grazie.
Alle due e mezzo del pomeriggio il piazzale era pieno. Spiccavano le bandiere rosse e nere della FAI, la Federazione anarchica italiana, e quelle tricolori dell’ANPI, l’associazione dei partigiani. C’era chi portava al petto una targhetta con scritto «Bella ciao, Licia». C’erano lo striscione della Casa delle donne e quello dell’Associazione familiari e amici di Fausto e Iaio. Era certo che molte persone avrebbero preso parola per pronunciare un lungo discorso di saluto, ben meditato e scritto col cuore. Sono arrivato in via Corelli, anche con la segreta speranza di carpire qualche dettaglio in più sulla storia di Licia Pinelli. Un paio di altoparlanti hanno diffuso forti e chiare le voci degli oratori, ogni tanto coperte dal rombo degli aeroplani in arrivo e in partenza da Linate.
Mentre ricordava l’infanzia e la vecchia casa di San Siro in cui è cresciuta, Claudia, figlia minore di Licia e Giuseppe Pinelli, ha accennato a un suono, a un rumore, più discreto e terrestre del boato dei motori a reazione sopra le nostre teste: l’incessante tic-tac di una macchina da scrivere, che fu il principale strumento di lavoro di Licia, fin da quando era adolescente e viveva in un casamento in viale Monza. Chi è nato nel Novecento conosce bene la musica dei martelletti azionati dalla tastiera, intervallata dallo scatto quasi rabbioso del carrello. La macchina da scrivere è un oggetto continuamente evocato anche in Una storia quasi soltanto mia, il libro di Licia Pinelli e Piero Scaramucci (da Licia affettuosamente chiamato “Scaramouche”).
Si può supporre che grazie alla macchina da scrivere la mente di Licia fosse un luogo sempre ricco, animato e in evoluzione. Il paziente lavoro di battitura di centinaia di tesi universitarie le permise d’incontrare un gran numero di studenti e di spaziare attraverso campi diversi del sapere. La vita di Licia si svolgeva, in qualche modo, tra le lettere. E non è un caso che grazie a una comune curiosità per le parole conobbe per la prima volta Giuseppe Pinelli, in un corso di esperanto, la lingua creata a tavolino con lo scopo di far comunicare tra loro popoli diversi. Forse un po’ del segreto della longevità di Licia fu nella battitura delle tesi. O nello yoga, praticato fino a 80 anni, come riferito in uno degli interventi.
Un vecchio amico di famiglia, il sociologo Marino Livolsi, ha raccontato al microfono di aver calcolato, a spanne, di aver chiacchierato con Licia per più di mille ore. Molto di questo tempo, ha detto, è trascorso a discutere di libri, i libri che si scambiavano. Licia era un’insaziabile lettrice. Anche l’attore e drammaturgo Renato Sarti nel suo intervento ha parlato a lungo di un libro. Tra la folla ho notato che Pierfrancesco Majorino, il consigliere regionale, stava ascoltando Sarti in profonda concentrazione, a occhi chiusi. La storia raccontata da Sarti è curiosa e anche un po’ misteriosa. Il protagonista è il primo libro letto da Licia Pinelli, all’età di tredici anni: I quattro giusti, romanzo d’esordio di Edgar Wallace, pubblicato nel 1905. Sarti lo aveva riletto qualche anno fa, su consiglio di Licia e durante la lettura aveva notato delle coincidenze tra il romanzo e la vita di Licia:
«Pagina 22: “Sotto il tavolo troverete un ordigno caricato con una quantità di esplosivo sufficiente a distruggere gran parte del palazzo”. Pagina 38: “Siete anarchici?”. Pagina 26: “Un ordigno infernale collocato intorno alle 16 e 30”. 16 e 30! 16-e-30! La stessa ora puntata per la bomba di piazza Fontana, anche se scoppiata qualche minuto dopo per un guasto al timer. Sembrerebbe la stessa storia della banca di piazza Fontana. Invece l’ha scritta Wallace, Edgar Wallace, lo stesso scrittore di King Kong, nel 1905, 64 anni prima. Ed è stato il primo, il primo libro letto nella tua vita. Stranezze?!».
“I funerali dell’anarchico Pinelli”, installazione pittorica di Enrico Baj del 1972, che si può vedere alla mostra BAJ al Palazzo Reale di Milano fino al 9 febbraio
Sarti ha accennato anche a un interesse atipico e sorprendente, che getta luce su un versante poco noto di Licia Pinelli. È la spia di un ulteriore grado di complessità. Lei stessa ne parla in alcune pagine di Dopo, un breve libro di memorie pubblicato nel 2015 per l’Enciclopedia delle donne. A metà degli anni Ottanta si era interessata ad alcune forme di religiosità, di cui aveva letto nelle tesi di laurea di due studentesse, che naturalmente aveva battuto a macchina. Una delle due tesi aveva avuto come relatore un professore indiano e indagava il tema della reincarnazione.
Licia cominciò a incuriosirsi di aspetti dell’esistenza un po’ più in ombra e nascosti. Grazie a una conoscente, Sara, si cimentò in qualche seduta medianica. È così che prese avvio il dialogo di Licia e Sara con un’entità chiamata il Maestro. Licia si esercitò, inoltre, nella trascrizione delle parole di Sara durante gli stati di trance. Niente di lugubre o di troppo misterioso. Era un percorso di conoscenza, un modo come un altro per guardare più a fondo nella vita. Ne venne fuori un libriccino, L’emblema di un sogno arcano, scritto con gli pseudonimi Luce e Sara Di Ambra.
Il ritratto di Licia Pinelli scelto per la copertina di Dopo, anche alla luce della notizia di queste esperienze, irradia un fascino speciale. Si tratta di una foto in bianco e nero, a mezza figura, dove Licia posa di tre quarti ed è illuminata solo per metà. La camicia bianca dal colletto rialzato, la collana, il taglio di capelli, la carta da parati sullo sfondo, più che dal tardo Novecento, sembrano sbucare dal repertorio di un’altra epoca, da un romanzo di Fogazzaro. Il ritratto ricorda inequivocabilmente un’atmosfera di fine Ottocento. Stranezze.
Al tempo stesso, è come se Licia in questa foto di copertina avesse trovato un modo un po’ più sofisticato per rappresentare la propria ritrosia e la viscerale riservatezza che l’ha sempre contraddistinta. «Non sei stata tu a cercare quei riflettori che ti hanno puntato addosso e che anzi, hai cercato sempre di evitare», ha scandito la figlia Claudia dagli altoparlanti.
Vorrei ricordare un’altra foto. È un’immagine che ho sempre avuto presente, senza però conoscerne il contesto. Fu Enrico Deaglio a parlarmene un paio di anni fa, mentre lavoravamo al primo volume di C’era una volta in Italia. Si tratta di un primo piano, pubblicato anche in Una storia quasi soltanto mia. Venne scattato a un’ora insolita, all’una e cinque di notte del 16 dicembre 1969. Quattro giorni prima era scoppiata la bomba di piazza Fontana e Giuseppe Pinelli dalla sera della strage era rinchiuso nel palazzo della questura di Milano. Quella notte un paio di giornalisti del Corriere si precipitano a casa Pinelli a San Siro, in via Preneste 2. Licia Pinelli, in vestaglia, apre la porta e i due giornalisti le comunicano la notizia. «Dev’essere successa una disgrazia a suo marito». E aggiungono: «Sembra che sia caduto da una finestra della questura». Licia Pinelli ascolta e in quel momento, click, viene scattata la foto.
Il volto grigio, livido, prosciugato da quattro giorni di timori e cattivi pensieri, diventa un’immagine di cronaca. Possiamo cogliere, facilmente, tanto l’incredulità e la rabbia, quanto, forse, un moto dell’animo più sottile, il presagio, il primo enuclearsi di un atroce sospetto circa la macchinazione infernale a monte della strage di piazza Fontana e della morte di Pino. Parte in quell’istante, di fronte alla macchina fotografica, anche la lotta per difendere la propria vita da «quei riflettori che ti hanno puntato addosso».
La foto è certamente sintomatica degli eccessi della stampa e di un giornalismo cinico. Per completare il quadro, bisogna però raccontare il seguito del siparietto sul pianerottolo. Quando i due cronisti del Corriere se ne vanno, incontrano lungo le scale altri tre colleghi. Sono Corrado Stajano, Giampaolo Pansa e Camilla Cederna. È anche grazie alla loro ostinazione che la vicenda di Pinelli non finì sommersa da un mare di menzogne. Anche loro bussarono alla porta di Licia. Nel libro Pinelli. Una finestra sulla strage, Camilla Cederna scrisse:
«Ma Licia Pinelli non piange, ed è per questo che fa più impressione: è lì tutta dritta nella sua vestaglietta rosa dal collettino ricamato, con un bel viso grigio di pallore e gli occhi intenti che han sotto un alone scuro. Parla piano per non svegliare le bambine ma, decisa a non lasciarci entrare, socchiude appena la porta, e sta lì ben piantata in quella fessura, a difendere la sua casa».
Le due diventarono grandi amiche e proprio alla Cederna è dedicato Una storia quasi soltanto mia (un titolo, tra l’altro, entrato nella storia dei titoli belli della nostra editoria).
Negli anni Settanta Licia Pinelli si concede qualche distrazione e nel 1975 fa il suo primo viaggio all’estero, a Monaco di Baviera, con una signora conosciuta sul tram («Lei è la signora Pinelli?»), Emilia, ex staffetta partigiana, di cui divenne amica. Nel 1979 le spoglie di Giuseppe Pinelli vennero trasferite dal cimitero milanese di Musocco al cimitero di Turigliano a Carrara, dove riposano altre figure importanti dell’anarchismo. Il legame della famiglia Pinelli con Carrara è fortissimo. Passarono anche qualche vacanza estiva a Marina di Carrara. Davide Lazzaroni, anarchico nato e cresciuto a Carrara, mi ha confermato in questi giorni che effettivamente Carrara, oltre a essere stata, come noto, un centro della cultura libertaria fin dalla fine dell’Ottocento, è stata anche un luogo di villeggiatura per molti anarchici. «Per esempio diversi anarchici romani», racconta Lazzaroni, «passavano le vacanze da queste parti. In vacanza con la famiglia veniva anche Alfonso Failla (anarchico siciliano confinato a Ponza e a Ventotene, nda). Failla è stato sepolto qui a Turigliano, nel 1986. Lungo il litorale esistevano addirittura delle colonie estive per bambini ispirate ai principi anarchici dell’educazione libertaria e antiautoritaria».
Sulla tomba di Pinelli sono incisi i versi di una poesia tratta dal libro più amato dal ferroviere: la celebre Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Inizia così: «Io vidi una donna bellissima, con gli occhi bendati». La donna bellissima è la dea Giustizia, che mentre colpisce a colpi di spada un bambino, poi un operaio, poi una donna, poi un folle, sorregge nella mano destra una bilancia, dove chi viene risparmiato dalla spada getta monete d’oro. Alla fine qualcuno si fa coraggio e strappa le bende alla dea. Terribile visione: «Le ciglia erano tutte corrose / sulle palpebre marce; / le pupille bruciate da un muco latteo». Quando ho riletto questi versi, subito ho pensato alla foto di Licia scattata all’una e cinque di notte. Aveva la faccia di chi ha visto la dea Giustizia senza bende.
Fu Licia Pinelli a portare le spoglie del marito a Carrara, accompagnata dall’amico di sempre Marino Livolsi. Licia ne parla in Una solitudine soltanto mia.
«Era aprile, ma a Milano sembrava una mattinata d’inverno, fredda, con un vento gelido, l’atmosfera cupa, plumbea, e questa fatica della riesumazione. Io non volevo vedere. Livolsi, che è molto attento a quello che provo, mi ha detto: “Adesso tu ti allontani” […] Io stavo in disparte e mi aveva preso come una paura di non riuscire a portarlo via. Poi man mano, andando verso Carrara questa paura si è sciolta, e mi sono quasi rasserenata. Questa giornata piena di sole, calda, e le Apuane. C’era una differenza, come se ci fosse una differenza anche politica: dall’involuzione di Milano all’evoluzione di Carrara».
Naturalmente, anche Licia Pinelli è seppellita a Carrara.