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  • Martedì 19 novembre 2024

Nella mente di un carnefice

Il protagonista di “Bambino”, il nuovo romanzo di Marco Balzano, è un assassino e un delatore al servizio di fascisti, nazisti e partigiani titini

Partigiane jugoslave del maresciallo Tito si addestrano sul confine italiano. (Keystone/Getty Images)
Partigiane jugoslave del maresciallo Tito si addestrano sul confine italiano. (Keystone/Getty Images)
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La zona di Trieste e la Slovenia sono state tra quelle in cui durante la Seconda guerra mondiale i combattimenti furono più duri e dove, quindi, è più difficile ancora oggi tracciare confini. Le frontiere territoriali poi complicano le cose. Il protagonista del romanzo di Marco Balzano, Bambino, è un uomo al centro di quelle vicende: nato a Trieste nel 1900, a vent’anni è un fascista, durante la guerra è squadrista e delatore per conto del regime, poi passa con i nazisti e infine diventa fiancheggiatore dei partigiani jugoslavi di Tito, senza mai avere un dubbio o un rimorso. La protagonista di Resto qui, l’altro romanzo di Balzano sulla guerra ambientato in Alto Adige e uscito nel 2018, era una vittima; in questo caso è un carnefice.

Nel libro, che è narrato in prima persona e copre un arco temporale che va dagli anni Venti al 1946, la prospettiva è sempre quella di chi sceglie il male, cambiando campo con facilità, a seconda dei tempi. La vicenda è ispirata a un incontro reale: un uomo di Trieste a cui è capitato di scoprire soltanto da adulto che suo nonno, una persona affettuosa e gentile, in tempo di guerra e, prima, di fascismo, era stato un seviziatore e un delatore al servizio di fascisti, nazisti e perfino titini. Nell’estratto che pubblichiamo, Bambino per cercare sua madre arriva a Caroiba, un villaggio nell’Istria centrale dove incontra i partigiani jugoslavi.

* * *

In città arrivavano ogni giorno notizie di incendi agli archivi e ai municipi. Gli sloveni e i croati bruciavano qualunque cosa: nelle loro terre non doveva rimanere traccia del passaggio degli italiani e nemmeno degli italiani stessi. Pensavo a quando il padre di Tonetti li chiamava scarafaggi e si divertiva a spaventarli con la moto. Non sentivo né rimorso né pietà, ma non sapevo perché avessi commesso quelle violenze.
– Pisino brucia, – ha detto mio padre una di quelle sere. – Fortuna che abitiamo in città, altrimenti ti avrebbero già ammazzato. E non sarebbe nemmeno facile piangere per la tua morte.
– Ce ne vuole per far la pelle a Mattia Gregori, – ho detto cercando di ridere.
Si è messo al tavolo ad aggiustare un orologio da polso e io sono andato nella mia stanza. Dopo qualche minuto ha ripetuto due volte il mio nome. – Ti ho detto di venire, non farmi alzare che la gamba stasera mi fa male, – ha brontolato sbuffando.
– Allora verrà a piovere.
– Finisciti questo bicchiere di vino, non mi va piú –. L’ho buttato giú d’un fiato. – Non andare piú in Istria, promettimelo.
– Sarà ancora viva?
– Chi?
– Mia madre –. È rimasto in silenzio. – Dimmi almeno se è viva.
Ha esitato, poi con un filo di voce ha mormorato: – Spero di sí.

Qualcuno spariva da un giorno all’altro e non se ne sapeva piú niente. La gente aveva cosí paura di essere prelevata da casa e di fare una brutta fine che guardava ai nazisti implorando protezione. Trieste ormai era occupata e amministrata dalle SS: ogni aspetto della vita della città era deciso dal commissario Rainer. I suoi ordini arrivavano dritti in piazza Oberdan, dove si era installato il comando della Wehrmacht e della Gestapo e dove tutto per me, piú di vent’anni prima, era iniziato.

Durante il giorno vedevo qualche triestino entrare al civico 6. Usciva piú sicuro e confortato, alzandosi il bavero se soffiava la bora, tenendosi ai pali o alle corde per non cadere. Appena il vento allentava la morsa affrettava il passo verso le vie piú interne. Presto sarebbe arrivato un altro inverno di guerra e ogni cosa sembrava di nuovo al punto di partenza. L’odio, mia madre, la dittatura. Tutto restava identico mentre nello specchio vedevo un altro uomo, invecchiato e smagrito da una fatica e da una fame che non si placavano dormendo o riempiendosi la pancia. Gli occhi ormai li tenevo sempre socchiusi, Nanni diceva che sembravo un rapace. Solo la pelle restava liscia, senza che mai nulla la velasse. A volte pensavo che la quiete era a portata di mano – una casa, un mestiere – e io mi ostinavo in tutti i modi a guastarla. Una nuova pigrizia mi faceva rimandare persino il pensiero del lavoro. Sarei tornato al mercato nero solamente quando i soldi sarebbero finiti del tutto.

La sera, se non uscivo a camminare lungo i moli, mi sedevo di fianco a mio padre e cercavo di capire sempre meglio come si sistemavano quegli affari. Gli avrei dimostrato di cosa ero capace. Mi sarei ripreso la manutenzione degli orologi della città, avrei rinnovato il negozio vendendo anche altri piccoli arredi e ci avrei vissuto come un signore.

Ho tradito in fretta la promessa che gli avevo fatto. Sono tornato in Istria qualche giorno dopo aver svuotato davanti a lui quel bicchiere di vino che aveva avanzato. Mi sono spinto fino a Caroiba. Ci sono andato perché avevo ricevuto un biglietto. Non era affrancato, qualcuno lo aveva lasciato dietro la porta con su scritto il mio nome. «Senz’altro ti ricordi di me, eri quasi morto in un fosso quando mi hai mostrato la foto di tua madre. Posso aiutarti».

Quella vecchia che mi aveva vegliato agonizzante e a cui avevo chiesto di mia madre doveva saper leggere a stento, figuriamoci scrivere una lettera. Di fascisti venuti a molestare il suo paese ne avrà visti a decine, non c’era motivo che si spendesse per me. Era una trappola, ma cos’avevo da perdere? Non era la fine migliore lasciare a mia volta una lettera all’orologiaio, andare nella tana del leone, farmi torturare e uccidere pur di incontrare finalmente mia madre? Magari avrei trovato anche lei dall’altra parte, nella schiera dei nemici, dei miei stessi assassini e l’avrei guardata in faccia mentre pronunciava il mio nome e la mia condanna. «Mattia», mi sarebbe bastato sentire, e poi farmi accompagnare mano nella mano sul ciglio di una foiba e aspettare il proiettile che mi avrebbe spinto di sotto con una pace nel cuore mai provata.

Ci sono andato, ma senza dire niente a mio padre e senza lasciargli nemmeno due righe. Lo avrei soltanto gettato in uno stato di prostrazione. All’alba sono partito. Cadere in quella trappola non era stupidità: era la prova che anch’io sapevo amare. Che non ero un bambino.

– Leggi anche: Da che parte sareste stati durante la Seconda guerra mondiale?

Lascio la moto dietro a un fienile. Mi inoltro a piedi in paese. Seguo una voce rauca e severa: – Questo tribunale vi dichiara nemici del popolo, – sentenzia alzandosi da una seggiola sgangherata un uomo sulla sessantina, la barba bianca ridotta a un groviglio. Attorno a lui fanno cerchio altre persone: sono una decina e confabulano tra loro, poi l’uomo ripete meccanicamente: – Questo tribunale vi dichiara nemici del popolo –. Quella grottesca assemblea sembra una recita, invece poco dopo l’annuncio si sentono gli spari. Li fucilano al muro di una stalla riadattata a prigione, e da lí dietro spuntano partigiani spingendo carretti carichi di cadaveri ancora caldi: uomini con le mani legate, sfregiati dalle sevizie subite nella notte, visi irriconoscibili impastati di sangue e capelli appiccicati alla fronte. Qualche contadino gode ad assistere alle esecuzioni, qualcun altro fissa la scena con un viso di pietra. Ci sono anche dei bambini a guardare. Sento il mio volto farsi freddo, il corpo rigido, gli occhi sbarrati. Il fiato rotto, il cuore che tira pugni al petto.

D’istinto provo a scappare, ma attorno si sono raccolti nuovi partigiani, mi circondano. Gli altri s’incamminano per andare a svuotare i carretti. Li vanno a rovesciare come scarti in qualche inghiottitoio, come da sempre accade in quelle terre cave. Si fanno piccoli allontanandosi verso l’orizzonte, dandosi il cambio a spingere. Vanno e vengono a ritmi rapidi, senza segni di stanchezza sui volti. Non riesco piú a controllare i nervi. Tremo. In cima all’ultimo dei mucchi in partenza sta il cadavere di una donna con le gambe ancora aperte e decine di tagli sulle cosce. Vomito senza il tempo di piegarmi. Sudo freddo. Il tremore è un male oscuro, inarrestabile, scuote tutto il corpo.
Uno della banda sui vent’anni mi chiede cosa sono venuto a fare.
– Mi hanno detto che qui c’è mia madre, – rispondo riavendomi per un attimo, sventolando il biglietto con il mio nome.
Immediatamente spunta la vecchia. Ancora piú vecchia.
Le rughe sembrano solcare anche il bianco dei suoi occhi e scendono come vene fino alle unghie delle mani sporche.
Si muove a passo lentissimo.
– Sono venuto a farmi ammazzare, sei contenta?
Annuisce, poi ordina di seguirla.
Ci accodiamo al corteo. Alcuni condannati sono ancora vivi e procedono in fila scortati dai partigiani. Riconosco il gerarca di Gorizia.
– Mi ammazzerete davvero? – chiedo alla vecchia.
Non ascolta le mie parole. Ha lo sguardo inchiodato su quel gruppo di disperati e di carnefici.

© 2024 Giulio Einaudi editore

La copertina di "Bambino" di Marco Balzano; mostra una fotografia di un uomo che punta una pistola contro chi prende in mano il libro

Ndr: per una consuetudine seguita dalla casa editrice Einaudi, nei suoi testi a stampa le vocali I, O e U sono accentate con l’accento acuto. Nel ripubblicare un estratto di un loro libro, rispettiamo la consuetudine.