Non siamo fatti per provare empatia per le generazioni future

Stimolare sensibilità e attenzioni verso gruppi umani non ancora esistenti è uno degli ostacoli a un maggiore impegno per contrastare le crisi globali, compresa quella climatica

La testa di una bambola emerge da un mucchio di rifiuti
La testa di una bambola tra i rifiuti lungo le rive del lago Uru Uru, in Bolivia (Gaston Brito Miserocchi/Getty Images)
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In uno dei più famosi esperimenti di psicologia comportamentale, ideato alla fine degli anni Sessanta dallo psicologo dell’università di Stanford Walter Mischel, a un gruppo di bambini e bambine di 4 anni fu offerto un dolcetto e proposto o di mangiarlo subito o di resistere per 15 minuti alla tentazione di mangiarlo, in cambio di due dolcetti. I risultati mostrarono una certa variabilità della capacità umana di rinunciare a una ricompensa a breve termine per una gratificazione maggiore in futuro, in età prescolare. A un maggiore autocontrollo, in successivi studi molto discussi dello stesso Mischel, furono poi associati migliori risultati scolastici e competenze cognitive.

In tutte le società umane studiate l’autocontrollo è descritto come una qualità fondamentale. Lo è sia perché risparmia alla comunità il costo di eventuali scelte individuali egoistiche e avventate, sia perché può proteggere l’individuo stesso dalle conseguenze a lungo termine delle sue azioni. Un conto è però frenare gli impulsi per trarne un vantaggio futuro per sé o per la propria comunità, e un conto è farlo per garantire un vantaggio a persone distanti sia sul piano interpersonale che su quello intertemporale: vale a dire persone sconosciute e che potrebbero non esistere ancora.

Stimolare la sensibilità e l’attenzione verso le generazioni future, un argomento peraltro trattato in filosofia morale da autori come Hans Jonas e John Rawls, è da molti considerata un’azione indispensabile per orientare adeguate risposte collettive al cambiamento climatico e ai rischi di altre crisi globali. Ma sul piano psicologico è un compito ostacolato dal modo stesso in cui siamo fatti.

Matthew Coleman e David DeSteno, due psicologi della Northeastern University, a Boston, hanno mostrato che a parità di condizioni umane prese in considerazione l’empatia verso le generazioni future è tendenzialmente minore rispetto a quella provata verso le generazioni presenti. E sebbene i fattori che impediscono di dare priorità ai rischi per le generazioni future siano di vario tipo, molti di questi sono prima di tutto psicologici, hanno sostenuto Coleman e DeSteno in un recente articolo pubblicato su Emotion, una delle riviste della American Psychological Association, la più grande associazione di psicologi negli Stati Uniti.

Diversi studi di psicologia hanno mostrato che le persone tendono in generale ad attribuire più valore al presente che al futuro, quando devono prendere decisioni che richiedono un compromesso tra benefici immediati e altri uguali o maggiori in futuro. A causa della maggiore influenza del presente nelle valutazioni di questo tipo le persone fanno meno esercizio fisico di quanto dovrebbero, per esempio, o non mettono abbastanza soldi da parte per quando saranno anziane. E la ragione principale, secondo Coleman e DeSteno, è che a ogni persona viene difficile provare empatia per il proprio sé futuro.

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Tenere i benefici per le generazioni future in maggiore considerazione rispetto ai propri benefici immediati richiede un passaggio in più. Equivale a una sorta di test del dolcetto in cui la gratificazione prevista per il proprio controllo degli impulsi riguarda sia un tempo diverso dal presente, sia persone diverse dal proprio sé futuro. E per superarlo è necessario opporsi a quella che Coleman e DeSteno definiscono una tendenza psicologica a distinguere emotivamente la sofferenza nel presente da quella nel futuro.

Per uno degli studi descritti nel loro articolo utilizzarono un campione di 399 persone e chiesero a ciascuna di loro di immaginare il dolore di una ragazza, Mary, che inciampa mentre sta facendo jogging e, cadendo, si rompe una caviglia. Una parte del campione doveva immaginare Mary nel presente, l’altra doveva immaginarla come una persona del futuro, tra 25 anni. In un altro studio dello stesso tipo e con 672 partecipanti, anziché cadere e rompersi una caviglia, Mary veniva improvvisamente colta da un problema più generico, di tipo respiratorio. A parte la descrizione dell’incidente, nessun’altra informazione né su Mary né sulla situazione veniva fornita ai partecipanti, a ciascuno dei quali veniva quindi chiesto di esprimere in una scala da 1 a 9 quanto dolore pensava provasse Mary e quanto si sentisse angosciato o angosciata per lei.

I risultati dei due studi non mostrarono differenze significative nella valutazione della quantità di dolore provato da Mary, tra i partecipanti che dovevano immaginarla nel presente e quelli che dovevano immaginarla come una persona del futuro. Mostrarono però una differenza nella seconda valutazione, quella del disagio personale nell’immaginare il dolore di Mary: in entrambi gli studi i partecipanti che immaginavano Mary nel futuro erano meno preoccupati per lei (fino al 16 per cento in meno) rispetto a quelli che la immaginavano nel presente.

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Oltre alla differenza di empatia verso le persone nel presente e quelle nel futuro riscontrata da Coleman e DeSteno, un’altra differenza significativa e nota da tempo in psicologia è quella dell’empatia provata verso singoli individui (come Mary, appunto) e verso gruppi umani generici e indefiniti, che è il modo in cui sono generalmente descritte le generazioni future. L’empatia è di solito maggiore nel primo caso, probabilmente perché è più semplice immaginare singoli individui che gruppi. Induce inoltre ad aiutare preferibilmente le persone che conosciamo o che sono simili a noi, se necessario anche a spese di persone che non conosciamo o che percepiamo come diverse da noi.

Un terzo studio condotto da Coleman e DeSteno su 2.448 persone analizzò la possibile influenza della minore empatia verso persone e situazioni immaginate nel futuro anziché nel presente sulle attitudini prosociali. Ai partecipanti fu descritto il lavoro di un’organizzazione non profit che si occupa di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, la Clean Air Task Force. Come nei precedenti studi, a una parte del campione fu detto che l’organizzazione lavorava per le persone nel presente, e all’altra parte che lavorava per le persone che vivranno tra 200 anni. I partecipanti del secondo gruppo furono generalmente meno inclini a fare una donazione all’organizzazione, in linea con i risultati dei primi due studi.

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L’empatia verso le persone del futuro è limitata da fattori psicologici in parte ineludibili, ma questo non significa che non possa essere stimolata. Secondo diversi studi dei ricercatori statunitensi George Loewenstein e Deborah Small, l’empatia delle persone verso la sofferenza altrui è intrinsecamente legata alla loro capacità di immaginarla dettagliatamente e vividamente. E in effetti l’immaginazione del futuro è di solito più astratta e meno vivida rispetto a quella di eventi temporalmente vicini.

In un quarto studio descritto nel loro articolo, che richiedeva a 1.179 partecipanti di immaginare una persona (Mary) con difficoltà a respirare, Coleman e DeSteno chiesero a un gruppo di immaginare quella persona nel presente e a un altro gruppo di immaginarla 200 anni nel futuro. A un terzo gruppo chiesero di immaginarla nel futuro, come il secondo gruppo, ma di prendersi 30 secondi per farlo nel modo più dettagliato possibile: «Che espressione ha il suo viso? Quali suoni senti provenire da lei?».

Dai risultati dello studio emerse che le persone del terzo gruppo mostravano livelli di empatia simili a quelli del primo gruppo, i cui partecipanti immaginavano Mary nel presente. La richiesta di impegnarsi in un esercizio di immaginazione più vivido e dettagliato, in altre parole, aveva eliminato la differenza di empatia che le persone normalmente provano quando immaginano la sofferenza altrui nel presente e quando la immaginano nel futuro.

Lo studio di come le persone si sentano quando immaginano situazioni di sofferenza di altre persone nel futuro costituisce un’area di ricerca relativamente nuova, in cui potrebbe essere utile verificare anche altre ipotesi. È possibile, per esempio, che i genitori siano portati più di altre persone a provare empatia per le persone nel futuro, avendo già un investimento emotivo verso il futuro dei loro figli, ha scritto Coleman sulla rivista Psyche. Così come è anche possibile che la mancanza di empatia verso le generazioni future sia meno diffusa in culture che attribuiscono esplicitamente un valore alla prosperità di quelle generazioni.

Bilanciare meglio le attenzioni tra il presente e il futuro della specie umana, cercando di mitigare i rischi di crisi già noti, richiede e richiederà impegno da parte di governi, società e individui. Per ispirarlo serviranno incentivi economici, finanziamenti e pressione politica, secondo Coleman, ma servirà anche tenere in considerazione altri fattori, e una conoscenza più approfondita di quelli psicologici potrebbe servire a strutturare e orientare meglio le iniziative che si concentrano sui benefici a lungo termine per la collettività.