Perché le COP sul clima sono importanti
In 30 anni non hanno ancora fatto diminuire le emissioni di gas serra, ma se non ci fossero non avremmo le politiche per la transizione energetica
Nel 2023 le emissioni di gas serra nell’atmosfera nel mondo sono aumentate rispetto all’anno precedente e hanno raggiunto un nuovo massimo: 57,1 miliardi di tonnellate di “CO2 equivalente”, l’unità di misura che si usa in questo contesto. Dall’inizio del secolo, fatta eccezione per il 2020 quando diminuirono a causa della pandemia da coronavirus, sono cresciute ogni anno. I paesi del mondo si sono impegnati a ridurle attraverso politiche di lungo periodo, ma anche se dovessero rispettarle in pieno la temperatura media globale supererà di più di 1,5 °C quella dell’epoca pre-industriale: lo dice l’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) sulle emissioni di gas serra, pubblicato a fine ottobre.
Potrebbe quindi sembrare che le conferenze sul clima delle Nazioni Unite, le cosiddette COP, siano un’iniziativa inutile. Sono quasi trent’anni che si fanno, ma di fatto finora non hanno portato a una riduzione complessiva delle emissioni che causano il cambiamento climatico. Sono però l’unico contesto in cui i paesi del mondo collaborano specificamente con questo obiettivo, e quello in cui paesi più danneggiati dal cambiamento climatico e meno ricchi, come i piccoli stati insulari, ricevono maggiori attenzioni. Per questo, e per i risultati che comunque hanno raggiunto negli anni, sono tuttora considerate indispensabili anche da chi ne critica la macchinosità e le storture.
Sui media le COP hanno cominciato a ottenere spazi considerevoli solo nell’ultima decina d’anni, quando sono diventate grandi eventi con decine di migliaia di partecipanti, tra cui molti attivisti: alla COP di Dubai del 2023, la più affollata di sempre, si registrarono quasi 70mila persone. La loro storia però è molto più lunga.
Si chiamano “COP” perché sono le conferenze delle parti che firmarono la “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (UNFCCC) del 1992. La prima fu organizzata nel 1995 a Berlino (COP1), l’ultima è in corso a Baku, in Azerbaijan (COP29). Ognuno dei 198 paesi membri dell’UNFCCC può partecipare alle COP con una delegazione governativa, che generalmente porta avanti i negoziati all’interno di un più ampio gruppo di paesi con interessi comuni: l’Italia ad esempio lo fa insieme agli altri paesi dell’Unione Europea.
I temi in discussione e le trattative sono complesse perché per ridurre le emissioni di gas serra è necessario rinunciare in gran parte all’uso dei combustibili fossili per la produzione di energia e, più in generale, fare grossi cambiamenti in molti settori economici. È un processo costoso, impegnativo per tutti i paesi, ma in modo particolare per le economie in via di sviluppo o ancora molto arretrate. Per questo tra le cose di cui si discute ci sono gli aiuti economici che i paesi più ricchi forniscono ai paesi in via di sviluppo per “decarbonizzare” le proprie economie, cioè ridurre le proprie emissioni, e finanziare attività e infrastrutture necessarie per adattarsi a un clima diverso.
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Il principio alla base dei negoziati è di concordare degli obiettivi comuni che poi ogni paese deve cercare di raggiungere attraverso politiche nazionali.
In varie occasioni è stato più semplice sulla carta che nella pratica, e indubbiamente alcuni fallimenti ci sono stati. Nel 1997, solo alla terza COP, i paesi più ricchi si impegnarono a ridurre le emissioni di gas serra del 5 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2012, con il protocollo di Kyoto. Gli Stati Uniti però non lo ratificarono mai (anche per via del cambio di amministrazione, da quella Democratica di Bill Clinton a quella Repubblicana di George W. Bush), ragione per cui la sua entrata in vigore fu molto ritardata.
Le prime politiche climatiche nazionali furono comunque adottate sulla spinta del protocollo di Kyoto, che venne poi prolungato con l’obiettivo di una riduzione delle emissioni di almeno il 18 per cento entro il 2020. I suoi effetti sono stati valutati definitivamente nel 2022, con conclusioni diverse tra loro: formalmente l’obiettivo è stato raggiunto, ma era poco ambizioso in partenza e non ha contribuito a ridurre le emissioni globali perché nel frattempo sono cresciute nuove economie che fanno tuttora molto affidamento sui combustibili fossili, come la Cina e l’India. Secondo i giudizi più positivi tuttavia il protocollo di Kyoto, con tutti i suoi limiti, ha dato un modello da cui partire per le discussioni successive.
A oggi l’accordo più importante su cui si basano tutti i negoziati sul clima è l’accordo di Parigi del 2015, che a differenza del protocollo di Kyoto non richiede solo a una parte dei paesi del mondo di collaborare alla riduzione delle emissioni, ma a tutti quanti. Per ottenere questo impegno globale è stato scritto in modo diverso: non ha fissato una quota di emissioni da ridurre, ma delle temperature medie da non superare, la nota soglia di 1,5 °C. Per questo ogni paese è libero di impegnarsi a raggiungere il proprio obiettivo di riduzione delle emissioni, attraverso i “Contributi determinati su base nazionale”, o NDC nell’acronimo in inglese.
L’Unione Europea per esempio si è già impegnata a ridurre le proprie emissioni del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. All’inizio dell’anno prossimo però dovrà aggiornare questo obiettivo, come previsto dall’accordo di Parigi.
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Dagli NDC europei derivano le politiche del cosiddetto Green Deal, che si ripercuotono sulle legislazioni dei paesi membri dell’Unione: le conferenze sul clima dell’ONU sono l’inizio dell’intero processo. Lo stesso vale per varie altre iniziative politiche che negli ultimi anni, tra le altre cose, hanno accelerato i processi della transizione energetica, come l’Inflation Reduction Act (IRA) dell’amministrazione di Joe Biden, che è stata la più ampia misura economica mai adottata nella storia degli Stati Uniti per combattere il cambiamento climatico. Prevede sgravi fiscali per le auto elettriche, per la produzione di energia da fonti rinnovabili e per le riconversioni di impianti inquinanti. Anche se sarà in gran parte smantellata da Donald Trump avrà comunque contribuito a trasformare l’economia del secondo paese al mondo per emissioni di gas serra.
La recente trasformazione delle COP in grandi eventi, il fatto che negli ultimi tre anni siano state organizzate in paesi produttori di petrolio e in cui non c’è piena libertà d’espressione (prima dell’Azerbaijan ci sono stati gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto) e che siano sempre più frequentate da un gran numero di lobbisti del settore petrolifero ha suscitato molte contestazioni tra scienziati del clima e attivisti. Ma nessuno dice che non debbano essere fatte, al massimo rese più efficienti e veloci.
In un’intervista del 2021 Stefan Aykut, professore di sociologia dell’Università di Amburgo ed esperto delle politiche climatiche critico nei confronti delle COP, ha spiegato: «Sono ancora importanti occasioni in cui si parla di clima in tutto il mondo. Inoltre forniscono strumenti e risorse di diritto internazionale che possono essere usate nei dibattiti nazionali e nei tribunali». Aykut ritiene che ancora più importanti delle COP siano i movimenti ambientalisti, che però dopo una grande partecipazione nel periodo precedente alla pandemia hanno perso slancio.
Un’altra opinione critica è quella di Raymond Clémençon, professore dell’Università di Santa Barbara, in California, e in passato negoziatore alle conferenze sul clima per la Svizzera: nel 2023 ha pubblicato un lungo articolo intitolato “30 anni di negoziati internazionali sul clima: sono ancora la nostra migliore speranza?”. Secondo Clémençon l’efficacia delle discussioni multilaterali tra paesi è diminuita in anni recenti, perché non ha saputo portare a una trasformazione sufficiente del sistema economico mondiale. Anche secondo lui tuttavia le COP «rimarranno importanti» per coordinarsi sulla ricerca e sugli aspetti più tecnici degli impegni dei paesi, ma anche per «continuare a fare pressione sui paesi ricchi per aumentare le risorse» per i paesi in via di sviluppo. Quest’ultimo aspetto è proprio quello di cui si sta discutendo di più alla COP di Baku.
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