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  • Lunedì 18 novembre 2024

Cosa fare per rendere le città a prova di alluvioni

Ci sarebbero zone e quartieri da ripensare del tutto, mentre su alcuni interventi già praticabili l’Italia è indietro

Lavori di pulizia dal fango a Bologna dopo l'ultima alluvione, 21 ottobre 2024 (Max Cavallari/Ansa)
Lavori di pulizia dal fango a Bologna dopo l'ultima alluvione, 21 ottobre 2024 (Max Cavallari/Ansa)
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Per l’alluvione avvenuta a ottobre in Emilia-Romagna, la quarta in un anno e mezzo, oltre tremila persone hanno dovuto essere evacuate e un 20enne è morto travolto dalla piena del fiume Zena. Anche questa volta i danni alle case e alle strutture sono stati ingenti: la Regione ha di nuovo chiesto, e ottenuto, lo stato di emergenza e sono stati stanziati 15 milioni di euro per gli interventi più urgenti.

Come succede ogni volta dopo un disastro del genere ci si è chiesti come, e se, si potevano prevenire i danni. È una discussione che si ripete, perché eventi estremi come siccità e alluvioni stanno diventando sempre più frequenti e sono un segnale del cambiamento climatico. Capire come affrontarli è una questione molto complessa: i problemi sono diversi e riguardano più ambiti, dall’ingegneria all’urbanistica.

In Italia esistono “piani di gestione del rischio di alluvioni”, introdotti da una direttiva comunitaria e coordinati dai distretti idrografici, che servono appunto a valutare e gestire i rischi delle alluvioni nelle diverse zone, ed è fondamentale siano aggiornati con costanza. Ogni evento meteorologico estremo e ogni territorio fanno però un po’ a sé, pertanto i singoli interventi vanno elaborati sulla base delle specificità di ciascuno.

In linea generale in questo momento «dobbiamo attrezzarci meglio da un punto di vista tecnologico, ma anche con risorse umane in grado di capire cosa succede e come si sviluppano gli eventi», dice Barbara Lastoria, ingegnera idraulica dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA). Gli ultimi eventi hanno dimostrato di nuovo che molte città italiane, proprio per come sono fatte, sono parecchio vulnerabili in caso di alluvione. Lo ha sottolineato anche il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, quando ha detto che in certi casi serve pensare a una «nuova soluzione ingegneristica» per affrontare una situazione che «ormai avviene quasi di mese in mese».

Secondo diversi esperti sentiti dal Post occorre ripensare a come molte città si sono sviluppate e pianificare nuove aree per renderle più funzionali a minimizzare i danni quando c’è un’alluvione: adesso non lo sono. «Ovviamente è impossibile cambiare un intero assetto territoriale ma si possono valutare i vantaggi di modificare l’uso di alcuni spazi», dice Lastoria.

Pulizia del fiume Idice in piena a Molinella, nella città metropolitana di Bologna, 20 ottobre 2024 (Max Cavallari/Ansa)

Rispetto ad altri paesi europei l’Italia è più esposta al rischio di alluvioni. Una delle ragioni è di tipo morfologico, cioè legato al modo in cui i rilievi montuosi condizionano il territorio, per cui lo spazio per contenere l’acqua delle esondazioni è limitato dalla natura. Negli ultimi decenni questa condizione è peggiorata perché i centri abitati e le aree industriali si sono espansi, e hanno così coperto una parte consistente di suolo: la cementificazione diminuisce infatti la capacità del suolo di assorbire la pioggia e quindi favorisce lo scorrere di grandi quantità d’acqua.

Secondo gli ultimi dati disponibili dell’ISPRA, che risalgono al 2021, la popolazione residente in aree a pericolosità idraulica elevata o media supera i 9 milioni di persone. Tra le regioni con il rischio di alluvioni più alto ci sono la Calabria e l’Emilia-Romagna. Il quadro generale è complicato dal fatto che storicamente molte città e paesi in Italia sono stati costruiti a ridosso o sopra piccoli corsi d’acqua: in passato molti di questi torrenti e canali servivano per l’approvvigionamento, i trasporti e le industrie. Nel tempo però sono stati abbandonati, perché non servivano più, e negli ultimi anni sono messi a dura prova dalle piogge che fanno cadere in poco tempo grandi quantità di acqua.

«Negli ultimi decenni le città hanno cominciato a crescere a dismisura: si è consumato moltissimo suolo e si è continuato a costruire sopra i corsi d’acqua. Così facendo però sono saltati gli equilibri tra natura ed esseri umani», dice Paolo Pileri, docente di pianificazione territoriale ambientale al Politecnico di Milano. Uno dei problemi maggiori per le città oggi è proprio la gestione della piccola rete idraulica, cioè dei canali e dei corsi d’acqua minori vicini o che le attraversano. Solitamente la rete minore scarica l’acqua in eccesso sui fiumi principali: sempre più spesso però si verificano piogge molto intense e molto localizzate, che sono anche le più difficili da prevedere. «Il risultato è che possono esserci piene dei corsi d’acqua minori e dei fiumi in contemporanea, e così il sistema di deflusso salta», spiega Luca Carniello, professore di Idraulica all’università di Padova.

È per esempio quello che è successo a Bologna, una delle città più colpite dall’alluvione di ottobre: nell’ultimo periodo si è parlato parecchio di com’è fatta e di come le sue caratteristiche strutturali hanno influito sull’impatto delle forti piogge. Come molte altre città in Italia, Bologna è infatti caratterizzata da un fitto reticolo di torrenti e canali, alcuni dei quali a cielo aperto e molti altri invece “tombati”, cioè chiusi sotto strade ed edifici che nei secoli sono stati costruiti sopra. Le forti piogge hanno causato la piena dei torrenti e alcuni di questi, come il Ravone, hanno rotto in più punti le loro coperture, inondando cantine, garage e tombini, oltre che le strade.

Se in passato questo sistema di canali sotterranei aveva aiutato a smaltire proprio l’acqua in eccesso, ora invece sempre più di frequente fatica a gestire piogge torrenziali che scaricano a terra grossi quantitativi di acqua in pochissimo tempo e trascinano con sé considerevoli quantità di sedimenti e detriti di vario genere.

Quando si parla di proteggere una città dalle alluvioni non ci sono soluzioni semplici. In generale si parla spesso di opere strutturali, come le dighe e le casse di espansione, ma sono molto importanti anche gli interventi non strutturali, come le varie misure di prevenzione.

Da un punto di vista tecnico, l’obiettivo è evitare gli allagamenti – di centri abitati, infrastrutture, campi agricoli, e così via – dovuti all’esondazione dei corsi d’acqua, che porta con sé anche fango e detriti. Carniello spiega che in passato si tendeva a costruire argini dei fiumi molto alti, in modo da contenere le piene, ma nel tempo si è capito che era una soluzione poco efficace: «Si rompono spesso e danno una falsa sensazione di sicurezza. Oggi serve una manutenzione attenta degli argini esistenti e investire su altri tipi di opere».

Tra queste ci sono le casse d’espansione, note anche come bacini di espansione. Sono invasi costruiti per raccogliere l’acqua dai fiumi durante le piene. Si chiamano così perché di fatto sono un’espansione dei fiumi: quando il livello dell’acqua è sotto controllo, le casse di espansione rimangono vuote.

Alcune macchine attraversano le vie allagate di Bologna, 19 ottobre 2024 (Max Cavallari/Bologna)

Un’altra cosa che si può fare è creare diversivi, come canali artificiali che distolgano la portata eccessiva dei corsi d’acqua principali. Sono tipi di opere sulle quali ci si sta concentrando anche per l’Emilia-Romagna: illustrando il “piano stralcio” da 877 milioni di euro (su un più ampio piano da 4,6 miliardi di euro), pochi giorni fa la presidente Irene Priolo ha citato come prioritari gli interventi sui torrenti Zena e Savena, a monte del fiume Idice, sullo scolmatore del fiume Reno, e la costruzione di due casse di espansione per i fiumi Santerno e Sillaro.

Esistono anche altri tipi di opere strutturali, su cui si sta sperimentando in alcuni paesi europei. Per esempio, un grande progetto di cui si parla molto ultimamente tra esperti di idraulica e urbanistica è quello in corso a Copenaghen, la capitale della Danimarca. Lì si stanno costruendo giganteschi tunnel per collegare al porto i laghi interni alla città: in caso di forti piogge, questi tunnel possono essere usati come serbatoi, che poi si svuoterebbero direttamente in mare. Ma sono in corso anche sperimentazioni meno impegnative, come le “aiuole pluviali” (sorta di conche che raccolgono l’acqua evitando che ce ne sia troppa in superficie) nelle zone residenziali, oppure la posa di un asfalto più permeabile per evitare che troppa acqua resti in superficie e la riprogettazione di alcuni parchi urbani in modo che all’occorrenza possano funzionare come bacini idrici.

Ci sono insomma soluzioni diverse, anche se spesso si finisce solo per parlare di casse di espansione e innalzamento degli argini. Gli interventi per le opere strutturali sono anche i più complicati per costi e tempi di realizzazione, che per rispettare le regole su verifiche e autorizzazioni sono piuttosto lunghi. In più, Lastoria spiega che molte opere strutturali hanno finito per compromettere l’equilibrio tra i sedimenti e il corso d’acqua: «Un fiume è estremamente dinamico. Se lo si devia, restringe, o ferma, recupererà il suo spazio in altro modo, e può essere devastante». Per questa ragione Lastoria insiste su interventi portati avanti con un «approccio integrato», cioè ragionando sempre su un intero bacino fluviale e non solo su un breve tratto di un corso d’acqua.

– Leggi anche: Il disastro dell’alluvione in Emilia-Romagna si poteva prevedere?

Oltre alle infrastrutture sono molto importanti anche le misure di prevenzione, preparazione e ricostruzione, sulle quali insiste la “direttiva alluvioni” dell’Unione Europea, attuata dall’Italia nel 2010.

Secondo gli esperti bisognerebbe concentrarsi sulla riduzione dell’impatto degli allagamenti, per esempio si potrebbero costruire barriere temporanee all’ingresso degli edifici, rendere i cappotti delle case più impermeabili, usare materiali di costruzione meno deperibili per i piani più bassi e spostare gli oggetti più di valore (come i macchinari degli ospedali).

Andrebbe inoltre tolto cemento ovunque sia possibile farlo. Il problema, osserva Pileri, è che per decenni si è costruito in aree esposte al rischio di disastri, e si continua a farlo. «È essenziale guadagnare spazi permeabili per smaltire l’acqua. Ogni città dovrebbe fare un censimento per capire quali aree, piccole e grandi, potrebbero essere liberate dal cemento».

D’altro canto è inevitabile fare i conti con il fatto che alcune aree molto esposte al rischio di alluvioni non possono essere modificate. Ci sono zone dell’Emilia-Romagna che finiscono sott’acqua ogni volta, e ogni volta servono moltissimi soldi per riparare i danni. Osserva Lastoria: «Sappiamo già che si allagheranno di nuovo, dunque a logica andrebbero abbandonate e usate semmai come aree naturali di espansione delle piene». Se nella teoria questa considerazione è corretta, nella pratica in molti casi non è possibile attuarla: molto banalmente, alcune delle zone più allagabili sono centri abitati, che quindi dovrebbero essere abbandonati con tutte le conseguenze del caso (dove dovrebbero trasferirsi le persone, e con quali soldi?). Inoltre, la decisione di spostare delle persone non può essere semplicemente calata dall’alto, ma va discussa insieme a tutti gli enti coinvolti e soprattutto con chi abita nella zona.

Campi allagati ad Argenta, in provincia di Ferrara, 20 ottobre 2024 (Max Cavallari/Ansa)

Questo problema è emerso anche dopo l’ultima alluvione in Emilia-Romagna. Pochi giorni dopo gli eventi meteorologici più intensi, il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha detto: «Dobbiamo convincere intere comunità che in alcune zone è troppo pericoloso vivere» e «mettere soldi per aiutarle a trovare una nuova casa». Il concetto è stato rimarcato di recente anche dai tecnici al lavoro sul “piano speciale preliminare in materia di ricostruzione”: su 1.500 edifici esaminati dall’Autorità di bacino distrettuale del Po, 400 andrebbero spostati perché troppo esposti a rischi.

Un altro aspetto molto importante è il monitoraggio del territorio. Significa avere a disposizione dati aggiornati e migliorare i modelli di previsione e di simulazione dei fenomeni meteorologici. Oltre a insegnare Idraulica all’univeristà, Carniello fa parte di un gruppo di esperti che lavora a una previsione modellistica per la Regione Veneto in grado di prevedere quanto pioverà e che effetti produrrà in quella zona. Sono sistemi complessi che hanno ricadute molto pratiche: servono, tra le altre cose, a consentire alla Protezione civile di agire rapidamente in caso di necessità.

Conoscere meglio i territori inoltre può aiutare a prendere in considerazione tutte le attività umane e i fenomeni che possono aggravare l’impatto di un’alluvione, per esempio le pratiche di disboscamento, l’agricoltura intensiva e la siccità. Per contrastare gli effetti negativi delle attività umane si può, tra le altre cose, promuovere la rinaturalizzazione delle aree più vicine ai fiumi, cioè far sì che tornino boscose.

C’è anche un’altra cosa che si può fare per alleviare i danni: formare le persone affinché sappiano come ci si deve comportare in caso di alluvione per essere al sicuro. Al contrario di quelle valide per i terremoti, le indicazioni da seguire in caso di alluvione sono meno conosciute, nonostante la frequenza sempre maggiore di fenomeni meteorologici estremi.

– Leggi anche: Si possono prevenire i danni da alluvioni?

Al di là delle specificità di ciascun luogo, gli esperti ritengono che vada ripensato con grande attenzione dove e come si costruisce, vietando per esempio di farlo in zone già allagate in precedenza. Per questo è fondamentale raccogliere in modo puntuale i dati su ogni evento, e investire nel personale qualificato che se ne occupa. Secondo Pileri le zone colpite da alluvioni negli ultimi anni, come l’Emilia-Romagna, le Marche e la Toscana, dovrebbero diventare un «laboratorio» per un’urbanistica capace di ridisegnare intere zone delle città, rendendole funzionali in caso di alluvione ma anche fruibili dai cittadini nel resto del tempo.