Sul clima l’Italia è contraddittoria

Il Piano nazionale per contrastare il riscaldamento globale ha molti limiti e alla COP29 di Baku Giorgia Meloni non ha annunciato nuovi impegni

di Ludovica Lugli

Pale eoliche su una collina in una fotografia notturna, con la Luna parzialmente coperta da una nuvola
Pale eoliche a Collarmele, vicino all'Aquila, il 30 settembre 2021 (AP Photo/Alessandra Tarantino)
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«L’Italia intende continuare a fare la propria parte» ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla COP29 di Baku, la conferenza mondiale di quest’anno in Azerbaijan per coordinare quello che si sta facendo per provare a limitare il cambiamento climatico e i suoi danni. Meloni è stata una dei pochi capi di governo dei paesi dell’Unione Europea ad avere partecipato alla COP, ma nel suo intervento non ha annunciato nuovi impegni significativi dell’Italia. Ha solo menzionato quelli già presi per poi parlare di fusione nucleare, le cui tecnologie sperimentali per la produzione di energia anche nelle ipotesi più ottimistiche saranno disponibili troppo tardi per contribuire a mantenere l’aumento delle temperature medie globali sotto la soglia di 1,5 °C, fissata dall’accordo di Parigi.

Alle conferenze sul clima dell’ONU le presenze dei leader sono un’occasione mediatica e hanno un valore politico e diplomatico di indirizzo generale, mentre le trattative sono portate avanti da delegazioni di politici e tecnici che nel caso dei paesi dell’Unione Europea negoziano in modo coordinato. Le parole di Meloni possono comunque essere considerate insieme al Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC), che riunisce tutti gli impegni dell’Italia per la riduzione delle emissioni di gas serra, per avere un’idea di come stia lavorando il governo sul clima. «In modo contraddittorio», è il giudizio sintetico di Luca Bergamaschi, direttore di ECCO, un think tank indipendente che studia le iniziative di transizione energetica e mitigazione del cambiamento climatico in Italia.

Alla fine di ottobre ECCO, che si finanzia attraverso donazioni di varie fondazioni internazionali, ha pubblicato un’analisi aggiornata del PNIEC, quello consegnato dal governo alla Commissione Europea nella sua ultima versione lo scorso luglio. Lo ha valutato «insufficiente» da molti punti di vista, sia per quanto riguarda il mantenimento degli obiettivi europei – che prevedono una riduzione delle emissioni nette del 55 per cento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030 – sia per cogliere le opportunità economiche della transizione.

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Il PNIEC è un documento di quasi 500 pagine che si occupa di obiettivi che riguardano molti ambiti diversi, dalla produzione di energia ai trasporti, dall’efficienza energetica degli edifici agli impatti sociali della transizione. Per ogni ambito contiene stime sulla riduzione delle emissioni, che in alcuni casi sono dichiaratamente inferiori rispetto a quanto richiesto. Secondo ECCO alcuni degli aspetti per cui il PNIEC è più lacunoso sono quelli che riguardano i trasporti e l’eliminazione progressiva del gas naturale come fonte di energia per il sistema elettrico (un impegno preso anche nel contesto del G7), per cui non c’è un piano.

Relativamente ai trasporti il piano prevede principalmente di ridurre le emissioni del trasporto merci su strada utilizzando sempre di più biocarburanti, in particolare biodiesel. A garanzia del rispetto degli obiettivi previsti c’è il programma industriale di Eni sulla propria produzione: la più grande azienda energetica e petrolifera italiana dice di stare investendo nella coltivazione di vegetali in alcuni paesi africani, principalmente Kenya e Repubblica del Congo, per aumentarla nei prossimi anni. Al riguardo ECCO nota che sarebbe necessaria una valutazione indipendente sull’impatto di questa attività nei paesi interessati, per verificare che la necessità di utilizzo di suolo agricolo non per fini alimentari causi un incremento nella deforestazione.

Per quanto riguarda invece il trasporto privato di persone, il PNIEC prevede che nel 2030 circoleranno 4,3 milioni di automobili elettriche a batteria e 2,3 milioni di auto ibride, ma non fa stime sulla riduzione del numero di auto a benzina e diesel che sono la maggior parte degli attuali 40 milioni di auto circolanti. Secondo i dati dell’Eurostat del 2023, l’Italia è il paese dell’Unione Europea con il maggior numero di auto ogni 1.000 abitanti e a ottobre di quest’anno quelle elettriche erano 266mila, una quantità molto bassa rispetto agli obiettivi per il 2030. Questo dipende soprattutto dal fatto che la rete di stazioni di ricarica per le auto elettriche è ancora limitata: i luoghi in cui sono disponibili sono meno di 22mila e la distribuzione sul territorio nazionale non è uniforme; specialmente in Valle D’Aosta, Umbria, Molise, Basilicata e Calabria ce ne sono poche.

Entro la fine dell’anno dovrebbero essere appaltati i lavori per l’installazione di 13.775 stazioni di ricarica veloce nei centri urbani e 7.500 sulle strade di lunga percorrenza, ma il processo è in «grave ritardo» secondo ECCO. L’altro problema, dice Bergamaschi, è la carenza di offerte di auto utilitarie nel mercato: «Serve una politica industriale per lo sviluppo della mobilità elettrica utilitaria, come quella fatta dalla Cina e dagli Stati Uniti».

Le cose da fare però sono anche altre e servirebbero tutte insieme: per l’espansione dell’infrastruttura di ricarica bisognerebbe anche ammodernare la rete elettrica, in modo da permettere un più ampio sfruttamento delle fonti di energia rinnovabili, principalmente da luce solare e vento. Dato che sono fonti intermittenti, per evitare di sprecare l’energia prodotta nei momenti di abbondanza (come le ore diurne estive) e averne nei momenti di carenza (di inverno e in assenza di vento), serve che la rete elettrica sia dotata di molti siti di stoccaggio, giornalieri, settimanali o stagionali a seconda della tecnologia utilizzata. «Il potenziale dell’Italia non è sfruttato appieno», dice Bergamaschi, «e non è sfruttato appieno il loro potenziale di sostituirsi al gas nel settore elettrico».

Oggi la rete elettrica italiana è strutturata sulla base di una produzione energetica ancora molto legata al gas naturale, da cui deriva il 43 per cento dell’energia prodotta. Secondo una simulazione di ECCO del 2023, nel 2035 la domanda di energia elettrica italiana (sono esclusi gli usi industriali, in particolare quelli più energivori) potrebbe essere completamente soddisfatta dalle fonti di energia rinnovabili se fossero realizzati i necessari impianti per la produzione e l’accumulo di energia. «È la soluzione più economica per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione», aggiunge Bergamaschi, sottolineando che tutte le tecnologie necessarie sono già disponibili.

Per ora alle rinnovabili si deve il 46 per cento dell’energia prodotta in Italia, ma ci sono ancora grossi margini di sviluppo per il solare e l’eolico, sia terrestre che in mare. Quest’ultimo finora è stato poco sfruttato: il primo impianto eolico offshore in Italia è stato inaugurato solo nel 2022. «Nel 2030 si prevede che comincerà a dare un contributo importante», dice Bergamaschi, «e permetterà di rilanciare l’industrializzazione dei porti italiani, in particolare al Sud, perché per il trasporto dell’energia dal mare servono infrastrutture importanti sulla costa».

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Il PNIEC però non è fatto in modo da prevedere l’abbandono dell’uso dei combustibili fossili per il sistema elettrico al 2035. Prevede una crescita del contributo delle fonti rinnovabili di 70 gigawatt in otto anni: nel 2022 era stato pari a 61 gigawatt, si punta a 131 nel 2030. Nel 2023 l’aumento è stato di soli 5,8 gigawatt e nei primi otto mesi del 2024 di altri 4,8: nei prossimi cinque anni dovranno essere aggiunti circa 60 gigawatt, quindi le cose dovranno accelerare. Su questo fronte però ci potrebbero essere problemi con le autorizzazioni per la realizzazione di nuovi impianti perché non sono ancora state semplificate come richiesto dalla Commissione Europea (che ha avviato una procedura d’infrazione).

Inoltre, ha notato ECCO, il decreto-legge sulle aree idonee per la realizzazione di nuovi impianti dello scorso giugno lascia molta discrezionalità alle regioni, cosa che rischia di limitare molte possibilità: dalle prime stime sembra che la Sardegna, che ha grande potenziale per lo sfruttamento dell’energia eolica, potrebbe catalogare il 99 per cento del proprio territorio come non idoneo.

In tutto ciò è invece prevista una crescita delle infrastrutture per l’uso del gas naturale.

L’Italia inoltre continua a spendere denaro pubblico per i sussidi ai combustibili fossili. Nel 2021, alla COP di Glasgow, l’Italia era stata tra i paesi che si erano impegnati a eliminarli, se giudicati «inefficienti», entro il 2022: le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina hanno cambiato la situazione. Nel 2022, un anno eccezionale per via della crisi energetica, sono stati quasi 60 miliardi di euro, il 2,8 per cento del PIL. «Non sono ancora disponibili i numeri del 2023», dice Bergamaschi, «ma può essere che la situazione sia peggiorata. I sussidi per mitigare il prezzo dell’energia per i consumatori sono giustificati, ma mostrano la vulnerabilità di un paese in cui negli ultimi trent’anni si è fatto molto poco per l’indipendenza dal gas di altri paesi».

Secondo Bergamaschi la scelta di puntare ancora molto sul gas, che viene importato dall’estero, è poco conveniente anche per i singoli cittadini: «Il gas è il combustibile che fissa il prezzo dell’elettricità, che è alto ancora oggi, nonostante si stia superando la crisi, e quindi è un fattore che limita la competitività delle imprese che usano l’elettricità ed è un peso molto alto per le bollette. Più si sostituisce il gas con le rinnovabili, il cui costo di produzione è zero una volta fatto l’investimento iniziale, più si può abbassare».

Al contempo, una revisione delle tariffe pensata per agevolare l’uso dell’elettricità anche per la mobilità elettrica e il riscaldamento favorirebbe la transizione, anche in vista dell’introduzione delle nuove regole europee sulle quote di emissioni di gas serra (il cosiddetto ETS2) per cui anche per gli edifici residenziali serviranno delle autorizzazioni per la produzione di emissioni. Questa settimana alcune organizzazioni ambientaliste tra cui Legambiente e WWF hanno chiesto al governo di eliminare gli incentivi per l’installazione di nuove caldaie a gas, ancora previsti all’interno del disegno legge di bilancio per il 2025 nel cosiddetto Ecobonus.

Il contrasto al cambiamento climatico comunque non è fatto solo di impegni limitati al contesto nazionale e infatti il tema principale della COP di quest’anno è la cosiddetta finanza climatica, cioè i prestiti e le sovvenzioni con cui i paesi più ricchi e storicamente responsabili per le emissioni di gas serra si sono impegnati a sostenere quelli meno sviluppati dal punto di vista economico.

Da questo punto di vista l’Italia si era distinta durante la COP28 del 2023 per aver promesso 100 milioni di euro per rimediare alle perdite e ai danni causati dal cambiamento climatico nei paesi in via di sviluppo, destinati a un fondo apposito creato dalle COP. Anche sotto questo aspetto però c’è una contraddizione: dal 2015 a oggi l’Italia ha impegnato 71 milioni di euro, una cifra inferiore, per i progetti che invece riguardano l’adattamento ai cambiamenti climatici, dunque preventivi rispetto alle perdite e ai danni.