L’unica generazione che invecchiando rimane progressista
Quella dei nati negli anni Ottanta e Novanta si è spostata a destra meno della successiva, negli Stati Uniti, ma secondo dati da prendere con cautela
In un suo saggio del 1962, intitolato Cosa significa essere conservatori, il politologo e filosofo inglese Michael Oakeshott scrisse che una caratteristica fondamentale dell’essere conservatori è «la propensione a usare e a godere ciò che è disponibile piuttosto che desiderare e cercare qualcosa di diverso». Attribuì questa inclinazione soprattutto alle persone meno giovani, confermando il senso di un citato aforisma anglosassone: «Se non sei progressista a 25 anni, non hai cuore. Se non sei conservatore a 35 anni, non hai cervello».
Questo luogo comune sulla relazione tra l’età e l’orientamento politico delle persone, secondo alcune analisi delle tendenze del voto negli Stati Uniti e nel Regno Unito negli ultimi anni, sarebbe però contraddetto dalle scelte di una precisa fascia della popolazione: i millennial (la generazione dei nati tra il 1981 e il 1996, anche detta “generazione Y”). Dopo le elezioni presidenziali statunitensi diversi utenti sui social hanno condiviso un grafico tratto da un’analisi pubblicata a dicembre del 2022 dal Financial Times, secondo cui il sostegno ai partiti conservatori da parte dei millennial è notevolmente più basso in confronto a quello espresso dalle generazioni precedenti nei decenni passati, quando avevano la loro età.
Se davvero le persone diventano più conservatrici invecchiando, scrisse il Financial Times, allora anche i millennial a 35 anni dovrebbero mostrare – come le generazioni che li hanno preceduti – un’inclinazione a votare per partiti conservatori più bassa di circa cinque punti percentuali rispetto alla media nazionale, e dovrebbero anche loro diventare più conservatori con il passare del tempo. Invece la loro inclinazione a esserlo è molto più bassa della media nazionale: non di cinque ma di circa 15 punti percentuali. Sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti i millennial «sono di gran lunga i trentacinquenni meno conservatori nella storia registrata».
L’analisi del Financial Times è stata ripresa da alcuni utenti sui social negli Stati Uniti dopo la vittoria del candidato Repubblicano Donald Trump alle elezioni presidenziali, sostenuto tra gli altri da una cospicua parte di elettorato giovane. Secondo i dati di alcuni exit poll diffusi da NBC, Trump è stato votato da persone con meno di 30 anni (e quindi appartenenti alla generazione Z, quella successiva ai millennial) più di qualsiasi altro candidato repubblicano dal 2008.
Sebbene i dati di questo tipo presentino un ampio margine di errore, altri exit poll diffusi da CNN hanno mostrato anche che la perdita di consensi per i Democratici è stata più significativa tra gli elettori e le elettrici della generazione Z (nata tra il 1997 e il 2012) che tra i millennial.
In pratica, le analisi dei risultati delle presidenziali negli Stati Uniti sono state utilizzate da diverse persone per rafforzare una certa reputazione dei millennial come generazione irriducibilmente progressista, o se non altro meno incline a votare per i partiti conservatori, anche rispetto alla generazione successiva.
L’ipotesi proposta dal Financial Times nel 2022 per spiegare la riluttanza dei millennial a votare per i conservatori man mano che invecchiano è che abbiano sviluppato valori diversi rispetto alle generazioni precedenti, non condivisi dai partiti conservatori, e siano stati influenzati da esperienze vissute a una certa età unicamente da loro. John Burn-Murdoch, autore dell’analisi, citò un sondaggio condotto negli Stati Uniti secondo cui i millennial, avendo raggiunto in buona parte la maturità politica dopo la crisi finanziaria del 2008, erano più favorevoli a una redistribuzione delle ricchezze rispetto alle generazioni precedenti.
Citò poi altri fattori che potrebbero avere avuto un impatto sull’orientamento politico dei millennial, rendendo per loro più difficile avere esperienze condivise con le generazioni precedenti. La proprietà di una casa, per esempio, è il tipo di esperienza che avrebbe potuto avvicinarli a valori tipicamente difesi dai partiti conservatori, ma sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti è diventata più rara per loro rispetto a quanto lo fosse per le generazioni precedenti a quella stessa età. Un altro possibile fattore, citato anche in altre analisi, è che in entrambi i paesi i sistemi di assistenza all’infanzia si sono dimostrati carenti o poco accessibili.
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Le analisi come quella del Financial Times si concentrano sui cosiddetti «effetti di coorte», cioè i cambiamenti riscontrati in un insieme di individui che all’interno di una stessa popolazione predefinita sono accomunati da esperienze simili in un determinato periodo di tempo. Di solito, proprio perché cercano di individuare caratteristiche comuni in un gruppo molto eterogeneo, generano spesso risultati incerti che vanno presi in considerazione con grande cautela. Possono anche facilmente essere contraddetti da altre analisi dello stesso tipo.
I risultati delle presidenziali statunitensi, per esempio, confermano solo in parte l’idea che i millennial siano più progressisti di altre generazioni. Gli stessi dati degli exit poll di CNN, che mostrano una perdita di consensi dei Democratici più estesa nella generazione Z che tra i millennial, indicano anche che in termini assoluti la generazione Z è comunque la più incline a votare per i Democratici rispetto a tutte le altre, sebbene lo sia meno di quanto lo fosse alle precedenti elezioni.
Inoltre, secondo gli stessi dati, non la generazione Z e nemmeno i millennial bensì i baby boomers (i nati tra il 1946 e il 1964) sono l’unico gruppo generazionale in cui i Democratici a queste elezioni non hanno ridotto ma aumentato, seppur di poco, i loro consensi. E anche questo dovrebbe teoricamente contraddire il luogo comune secondo cui invecchiando si diventa più conservatori.
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L’analista politico Nate Cohn, in un articolo pubblicato a giugno del 2023 sul New York Times, confutò l’ipotesi sostenuta dal Financial Times e da altre analisi a sostegno dell’idea che i millennial fossero più progressisti. Scrisse che il recente spostamento a destra delle giovani generazioni statunitensi riscontrato nei sondaggi riguardava in generale ogni coorte di elettrici ed elettori sotto i 50 anni: le stesse che 15 anni prima avevano molto contribuito alla vittoria del candidato Democratico Barack Obama.
Cohn spiegò che le tendenze variano a seconda che si prenda in considerazione il comportamento di uno stesso insieme di individui nel tempo – i nati in un certo anno, per esempio – o quello di un’intera generazione con una composizione mutevole. E questo perché il gruppo di millennial considerato nel 2008, per esempio, sarà inevitabilmente diverso da quello del 2016: il secondo gruppo includerà tantissimi millennial che alle elezioni precedenti non potevano ancora votare. Il che rende i risultati delle analisi delle tendenze generazionali molto difficili da interpretare e spiegare.
I risultati sono ancora più eterogenei e ambigui estendendo ad altri paesi l’analisi delle correlazioni tra l’età e l’orientamento politico dell’elettorato. Alle elezioni europee di giugno del 2024, secondo diversi sondaggi, i partiti progressisti ottennero ottimi risultati nel gruppo di elettori ed elettrici più giovani in Italia, mentre in Germania una parte rilevante di quel gruppo si spostò verso l’estrema destra.
Commentando l’analisi pubblicata dal Financial Times il ricercatore Nicholas Beauchamp, professore di scienze politiche alla Northeastern University a Boston, disse che non è possibile sapere con certezza quale influenza abbia sulle preferenze di voto unicamente il fattore anagrafico: perché è difficile isolarlo e scorporarlo dall’influenza di altri fattori. Del resto, nella sua analisi, lo stesso Burn-Murdoch aveva citato come possibile fattore influente sull’orientamento progressista dei millennial del Regno Unito la loro reazione avversa agli effetti della Brexit: un fattore evidentemente valido solo per quel paese.
Secondo Beauchamp il fattore anagrafico ha un valore predittivo piuttosto piccolo se confrontato con altri indicatori come il reddito, l’istruzione e il gruppo etnico. «Una cosa è seguire i cambiamenti di atteggiamento nei ventenni man mano che invecchiano», disse, e «un’altra è cercare di capire cosa possa significare passare da bianchi a neri, o da poveri a ricchi, o dall’avere un’istruzione universitaria al non averla».
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