Cosa succede adesso all’autonomia differenziata
La conseguenza più grossa della sentenza della Corte costituzionale è che la legge dovrà essere in buona parte riscritta
La sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittima la riforma dell’autonomia differenziata produce delle conseguenze, dirette e indirette, sull’attuazione del provvedimento che dovrebbe consentire di trasferire alle regioni che lo richiedono competenze finora gestite prioritariamente dallo Stato. Il pronunciamento della Corte evidenzia i grossi limiti e anche qualche stortura dell’operato del governo su questa materia, ma probabilmente impone anche ai partiti di opposizione di rivedere un po’ i piani con cui erano intenzionati a contestare la riforma.
Il primo più che verosimile effetto della sentenza dei giudici della Consulta (che è un altro modo di chiamare la Corte costituzionale) è una sospensione del processo con cui alcune regioni stavano già cercando di ottenere dal governo il trasferimento di alcuni poteri. La sentenza modifica alcune parti consistenti della riforma, ne sopprime altre, vincola infine altri passaggi a una ben determinata interpretazione: ne resta una legge per cosi dire monca, su cui il parlamento dovrà intervenire per «colmare i vuoti», ha stabilito la stessa Corte. Questo comporta che alcuni dei presidenti di regione del nord che speravano in un trasferimento rapido di una parte delle competenze dovranno quasi certamente accettare tempi molto più lunghi.
L’altro effetto riguarda, o può riguardare, lo svolgimento del referendum promosso dai partiti di opposizione e da varie associazioni di centrosinistra per abrogare in tutto o in parte la riforma: i quesiti referendari su cui sono state raccolte le firme necessarie per indire la consultazione riguardavano il testo della riforma approvato in parlamento, e non è ancora chiaro se a seguito delle modifiche che la Corte apporta a quel testo quei quesiti verranno considerati ancora validi dalla Corte di Cassazione, che per legge deve giudicarli per stabilirne la validità.
Per ora queste conseguenze possono essere per lo più dedotte, con una certa approssimazione, dallo scarno comunicato con cui la Corte ha reso nota la decisione presa dai giudici sul ricorso contro la riforma dell’autonomia presentata da quattro regioni governate da giunte di centrosinistra (Toscana, Puglia, Campania e Sardegna). Molte più certezze sulle ricadute concrete si avranno quando verranno pubblicate integralmente le motivazioni della sentenza, cosa che dovrebbe accadere entro il 10 dicembre.
La Corte non ha giudicato incostituzionale l’intera legge, ma ha segnalato che risultano incostituzionali sette suoi aspetti specifici, e ha stabilito che altri cinque passaggi del provvedimento vadano interpretati in una certa maniera per renderli compatibili con la Costituzione (e per scongiurare il rischio, evidenziato dalla Corte come già da Banca d’Italia e dall’Ufficio parlamentare di Bilancio, che l’attuazione della riforma produca degli squilibri nel bilancio dello Stato). I sette rilievi di incostituzionalità parziale, in particolare, toccano punti fondamentali della riforma, e la Corte chiede che il parlamento intervenga per modificarli, chiedendo dunque una riscrittura profonda della legge. La bocciatura della legge, anche se è apparentemente circoscritta ad alcune sue singole componenti, è dunque sostanziale.
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Con la pubblicazione delle motivazioni si capirà in che termini e forse anche con quali tempi il parlamento è sollecitato a intervenire, e sarà più chiaro anche se secondo la Corte, nell’attesa di queste correzioni, la legge vada considerata parzialmente applicabile nelle poche e marginali parti che non vengono toccate dalla sentenza, che del resto tocca aspetti centrali. Anzitutto quello della definizione dei LEP, i livelli essenziali delle prestazioni, ovvero dei servizi minimi che lo Stato deve garantire e che vengono erogati ai cittadini in tutto il suo territorio.
La riforma promossa dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli, della Lega, prevedeva che fosse il governo, tramite una delega piuttosto vaga ricevuta dal parlamento, a provvedere affinché si individuassero i LEP, e che poi procedesse con un decreto del presidente del Consiglio, cioè un provvedimento fatto direttamente dal capo del governo, ad aggiornarli. Significa per esempio stabilire, in base a studi e ricerche di grande complessità, quanti posti letto d’ospedale ogni 100mila abitanti devono esserci in ciascuna provincia, con quale frequenza devono passare gli autobus nei comuni di montagna, che percentuale di posti negli asili nido deve essere garantita in rapporto ai nuovi nati nelle varie regioni, e così via. Tutto ciò, dice la Corte, va definito coinvolgendo in maniera più diretta il parlamento, e non sulla base di procedure transitorie – demandate a comitati di tecnici nominati dal governo – previste dalla legge di bilancio approvata alla fine del 2022.
La Corte dice inoltre che lo Stato non può trasferire alle regioni intere materie, ma solo «specifiche funzioni legislative e amministrative»; dice inoltre che questa devoluzione di poteri deve «essere giustificata, in relazione alla singola regione, alla luce del richiamo del principio di sussidiarietà». Quindi, in sostanza, le regioni non potranno ottenere la titolarità sulle materie nel loro complesso indicate all’articolo 117 della Costituzione (istruzione, energia, eccetera), come stabiliva la legge sull’autonomia differenziata. Potranno farlo solo su alcuni particolari aspetti di quelle materie, più o meno rilevanti (la gestione del personale scolastico, le tariffe di alcuni servizi energetici, solo per fare degli esempi).
Questo è stato deciso proprio per garantire il rispetto del principio di sussidiarietà, ovvero il fatto che questa ripartizione delle competenze deve «avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione»: un eccessivo spezzettamento delle materie legislative potrebbe rendere meno efficiente il paese nel suo complesso e potrebbe anche mettere a rischio il diritto dei cittadini a ricevere servizi dignitosi in ogni regione.
Tutto ciò ha un effetto piuttosto scontato: rallentare il processo che avrebbe dovuto portare il governo a definire delle intese con le regioni, ovvero il primo passo di un lungo e complesso iter che, nel giro di molti mesi o più verosimilmente di qualche anno, avrebbe poi concretamente consentito il trasferimento delle competenze. La sentenza della Corte peraltro ha stabilito che quando il governo si accorda con una regione per concederle l’autonomia differenziata, il voto del parlamento previsto su quell’accordo non può essere inteso come «di mera approvazione dell’intesa», quindi come un «prendere o lasciare» (sono le parole della stessa sentenza). Per la Corte bisogna invece consentire a deputati e senatori di modificare l’accordo, cosa che poi prevedrebbe una nuova negoziazione dell’intesa. Insomma, il già complesso iter diventa ancora più complesso. Anche perché la Corte ha specificato che vigilerà sulle singole intese che il governo e le regioni definiranno, e lo farà appunto sulla base dei rilievi avanzati in questa sentenza.
Tutto questo rende più inconsistente l’ambizione di alcuni presidenti di regione leghisti, e su tutti il veneto Luca Zaia e il lombardo Attilio Fontana, quelli cioè più determinati nel rivendicare maggiore autonomia, che hanno già iniziato a far pressione sul governo perché si avvii questo processo. Zaia e Fontana, tra l’altro, hanno chiesto quantomeno il trasferimento delle deleghe su quelle materie (9 sulle 23 totali indicate nell’articolo 117 della Costituzione) su cui un comitato di esperti nominato dal governo nel marzo del 2023 ha ritenuto che non vadano prioritariamente individuati i LEP.
È evidente che la sentenza rende impossibile procedere con questi accordi tra Stato e singole giunte regionali, in attesa che si modifichino le procedure normative attraverso cui trasferire le competenze; e la stessa distinzione tra le 14 materie su cui bisogna individuare i LEP e le altre 9 viene a questo punto rimessa in discussione, insieme all’intero lavoro del comitato di esperti (che peraltro dovrebbe concludere il suo mandato a dicembre). La Corte dice infatti che, per quel che riguarda le «materie no-LEP» (quelle cioè per cui non è necessario stabilirli), i relativi trasferimenti di competenze «non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali»: in sostanza, questa soluzione viene fortemente depotenziata.
D’altro canto, da questo punto di vista le conseguenze della sentenza non sono solo legislative, ma anche politiche. All’interno della maggioranza di destra il solo partito che insiste per un’attuazione rapida dell’autonomia è la Lega di Matteo Salvini. Forza Italia ha espresso in più occasioni le sue grosse perplessità, e dopo il pronunciamento della Corte costituzionale alcuni suoi dirigenti meridionali (come il vicesegretario Roberto Occhiuto, che è presidente della Calabria; o Fulvio Martusciello, capogruppo al Parlamento Europeo e probabile futuro candidato del centrodestra in Campania) sono tornati a criticare la fretta della Lega e a chiedere una moratoria sull’attuazione della legge, così da rinviare il tutto.
Anche dentro Fratelli d’Italia, e all’interno della cerchia dei collaboratori più stretti di Giorgia Meloni, ci sono dubbi sulla bontà della riforma: se già prima di giovedì la presidente del Consiglio non aveva mostrato alcuna intenzione di accelerare i tempi per definire le prime intese del governo con Veneto e Lombardia, dopo la sentenza adotterà verosimilmente ancora più cautela. In questo senso, dunque, se da un lato le ambizioni di riforma dello Stato portate avanti dal governo escono ridimensionate, dall’altro la Corte rende più facile per Meloni ritardare l’attuazione di una riforma che aveva in una certa misura subìto da Salvini.
Anche per le opposizioni, però, la sentenza della Corte ha effetti duplici. Evidentemente le sostanziali obiezioni mosse alla legge leghista legittimano le critiche e gli attacchi mossi in questi mesi dal Partito Democratico, dal Movimento 5 Stelle e dai partiti centristi alla riforma. Ma pone anche delle incognite sull’efficacia dello strumento con cui il centrosinistra aveva deciso di contrastare compattamente l’operato del governo sull’autonomia, e cioè il referendum abrogativo.
Il 26 settembre scorso i comitati promotori del referendum, insieme ai leader di tutti i partiti di opposizione che hanno aderito all’iniziativa, hanno depositato alla Corte di Cassazione le oltre 500mila firme raccolte per indire due referendum contro l’autonomia: uno che abroga solo alcuni punti della legge, di fatto rimuovendo alcune componenti fondamentali della riforma; un altro che abroga la legge per intero. Ora, come previsto, uno specifico ufficio della Cassazione dovrà certificare, con una sentenza che è prevista tra il 10 e il 15 dicembre, che i quesiti che si intendono sottoporre al referendum, quelli su cui i cittadini saranno quindi chiamati a votare, siano conformi alla legge oppure no.
Nell’effettuare questa verifica la Cassazione dovrà valutare se da quando sono state raccolte le firme la legge è stata modificata in maniera tale che il quesito su cui si andrebbe a votare risulta ormai superato, o comunque inadeguato. Da questo punto di vista, i sostanziosi interventi di correzione che la Corte costituzionale opererà sul testo della riforma approvato dal parlamento tramite la sentenza, e quelli che il parlamento potrebbe poi fare a sua volta rispondendo al sollecito della Consulta, potrebbero rendere in tutto o in parte vani i quesiti su cui sono state raccolte le firme: proprio perché la legge che attraverso quei quesiti referendari si vorrebbe abrogare non c’è più, o quantomeno non è più quella che si intendeva sopprimere.
Su questo aspetto, dopo la pubblicazione parziale della sentenza si è sviluppato un dibattito tra costituzionalisti piuttosto acceso, con posizioni variegate e anche discordanti. Per alcuni è evidente che l’intervento della Corte rende impraticabile il referendum; per altri non è così, soprattutto per quel che riguarda il quesito che chiede l’abrogazione totale della riforma. Per avere maggiori certezze al riguardo, bisognerà comunque attendere la pubblicazione integrale della sentenza con le sue motivazioni, a inizio dicembre.