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  • Giovedì 14 novembre 2024

Chi decide sulla storia dei migranti mandati dal governo in Albania

Il diritto internazionale ed europeo, e non quello italiano come vorrebbe il governo di Giorgia Meloni

una bandiera italiana e una bandiera europea sventolano con sotto delle persone che indossano dei gilet arancioni, vicino a loro c'è anche un agente di polizia
L'attracco nel porto di Shengjin, in Albania, della nave Libra della Marina militare italiana con a bordo un gruppo di richiedenti asilo che sarebbero dovuti rimanere nel centro per migranti appena aperto (REUTERS/Florion Goga)
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Lunedì il tribunale di Roma non ha convalidato per la seconda volta in un mese il trattenimento di un gruppo di migranti nei centri per richiedenti asilo realizzati dal governo italiano in Albania, e ha disposto che gli stessi migranti fossero riportati in Italia. L’ha fatto sulla base di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea dello scorso 4 ottobre, che nelle ultime settimane diversi tribunali hanno citato per bloccare delle decisioni del governo in materia di immigrazione.

Come era già successo, diversi membri del governo italiano hanno criticato questa sentenza, accusando il tribunale di Roma di essere guidato da ragioni politiche. Martedì anche il miliardario Elon Musk ha criticato i magistrati italiani, spingendo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a rispondergli pubblicamente.

Le discusse sentenze dei tribunali sulla questione dei richiedenti asilo mandati in Albania dal governo di Meloni si basano però su norme dell’Unione Europea che hanno la precedenza su quelle italiane: questo è un principio costituzionale che non è aggirabile, diversamente da quanto sta facendo credere il governo. 

Facciamo un po’ di chiarezza.

Da marzo del 2023, con l’approvazione del cosiddetto “decreto Cutro”, i richiedenti asilo provenienti da «paesi di origine sicuri» possono essere detenuti appena mettono piede in territorio italiano e incanalati verso una «procedura accelerata», cioè sommaria, di esame della loro richiesta di asilo. Mentre avviene la procedura, è previsto che queste persone (quasi sempre uomini maggiorenni) vengano detenute in alcuni centri appositi, fra cui quello costruito in Albania. La sua costruzione è stata molto pubblicizzata dal governo perché permette di tenere lontane dal territorio italiano persone che si presume non abbiano il diritto di rimanerci.

Quella dei “paesi di origine sicuri” è una definizione precisa prevista in una direttiva europea del 2013, che indica paesi la cui situazione interna non giustifica l’approvazione della richiesta di asilo all’estero. Ciascun governo può stilare la sua lista di paesi di origine sicuri a cui fare riferimento, quindi ampliarla o restringerla in maniera in parte arbitraria per motivi politici: nella lista italiana si trovano anche Egitto e Bangladesh, paesi di provenienza di molti che fanno richiesta di asilo in Italia, e anche degli uomini migranti che il governo aveva destinato al centro in Albania.

Nell’ultimo anno i ricorsi sul sistema delle procedure accelerate sono stati decine: fino a ottobre, quando il tribunale di Roma non aveva convalidato il trattenimento del primo gruppo di migranti portati in Albania, erano rimaste però sconosciute all’opinione pubblica. Il governo aveva criticato la decisione, ma il tribunale aveva spiegato di essersi adeguato a una sentenza emessa il 4 ottobre dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il principale tribunale dell’Unione, che era in contrasto con quanto deciso dal governo.

Il tribunale di Roma non contestava tanto il trasferimento dei migranti in un centro fuori dall’Italia, quanto il fatto che queste persone fossero state mandate in Albania perché incanalate nella procedura accelerata di esame delle loro richieste d’asilo. Sulla base della sentenza della Corte di Giustizia, il tribunale di Roma aveva infatti stabilito che Egitto e Bangladesh non potevano essere definiti paesi sicuri. Non solo, quindi, le richieste fatte da cittadini di questi due paesi non potevano essere analizzate attraverso la procedura accelerata, ma queste stesse persone non avrebbero dovuto nemmeno essere detenute.

In queste settimane altri tribunali, fra cui quello di Catania, si sono appoggiati alla stessa sentenza. Le critiche dei partiti al governo si sono però concentrate sulle sentenze del tribunale di Roma perché riguardavano i migranti destinati al centro in Albania, un simbolo delle politiche migratorie del governo Meloni che, proprio a causa di queste sentenze, rimane vuoto ma continua a costare parecchio.

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In breve, la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea spiega come valutare se un richiedente asilo provenga, o no, da un paese davvero sicuro, rifacendosi alla direttiva del 2013: nel paragrafo 52 la Corte spiega che un paese sicuro è un paese dove «in generale e in maniera uniforme, non si ricorre alla persecuzione […], alla tortura o a trattamenti o pene inumani o degradanti»: un’espressione che è stata interpretata nel senso che per essere definito “sicuro” un paese deve esserlo in tutto il suo territorio in modo omogeneo, e per tutte le persone che ci vivono.

Sempre secondo la sentenza, la qualifica di paese sicuro deve inoltre essere verificata e riesaminata da un giudice al momento di ciascuna decisione.

Quella sentenza non riguardava l’Italia, bensì il caso di un cittadino moldavo che chiedeva asilo in Repubblica Ceca. Come tutte le sentenze di questo tipo, però, conteneva dei principi generali che possono essere applicati in altri casi simili.

Sulla base di questi pronunciamenti, il tribunale di Roma aveva quindi stabilito che il Bangladesh e l’Egitto non erano paesi sicuri, dato che il rispetto dei diritti non viene garantito in tutto il territorio e verso ogni categoria di persone. Tra le altre cose, in entrambi i paesi gli attivisti politici di opposizione vengono spesso perseguitati e ci sono leggi molto severe contro chi appartiene alla comunità LGBTQ+.

Questo non significa che una richiesta d’asilo di una persona che proviene da Egitto e Bangladesh non possa essere respinta; significa però che non può essere esaminata attraverso la procedura accelerata.

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Pochi giorni dopo l’emanazione della prima sentenza del tribunale di Roma sul caso, il Consiglio dei ministri italiano aveva risposto approvando un decreto-legge che conteneva una lista aggiornata dei paesi di origine cosiddetti “sicuri”, molto simile in realtà a quella approvata a maggio 2024 attraverso un decreto interministeriale.

Durante la conferenza stampa, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva detto che il decreto-legge offriva «ai giudici di tutta Italia […] un parametro che sia l’applicazione di una legge rispetto a qualche ondivaga interpretazione». Questa frase, insieme ad altre parti del suo discorso e di quello del ministro della Giustizia Carlo Nordio, suggerivano che, secondo il governo, i tribunali italiani avessero interpretato in modo troppo libero la sentenza della Corte di Giustizia e che lo strumento del decreto-legge rappresentasse una norma più chiara a cui dare la precedenza, rispetto all’applicazione della sentenza europea.

Come ha spiegato al Post la professoressa di diritto dell’Unione Europea Caterina Fratea, l’interpretazione della sentenza della Corte di Giustizia data dal tribunale di Roma è piuttosto condivisa dagli esperti, mentre quella del governo, che si limita a definire “sicuro” un paese che non ha problemi di sicurezza a livello territoriale, è meno accettata, anche perché non sembra tenere conto di parti della sentenza stessa.

Inoltre, ha ricordato anche Fratea, il diritto dell’Unione Europea ha preminenza su quello italiano ed è quindi irrealistico pensare di aggirare una norma europea con una norma italiana. Questo principio è contenuto anche negli articoli 11 e 117 della Costituzione italiana.

Per questo, anche dopo l’emanazione del decreto-legge,  lunedì il tribunale di Roma ha deciso comunque di bloccare il trasferimento di alcuni richiedenti asilo provenienti da Egitto e Bangladesh nel centro in Albania. In quest’ultima sentenza il tribunale di Roma ha chiesto anche che il caso specifico dell’Italia venga analizzato dalla Corte di Giustizia, e che venga trattato con carattere «d’urgenza»: una prima decisione della Corte dovrebbe arrivare entro pochi mesi.

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È però molto probabile che questa base legale per bloccare le procedure accelerate di esame non durerà ancora per molto: a giugno del 2026 entrerà infatti in vigore il cosiddetto Regolamento sulla procedura d’asilo, uno strumento all’interno del più ampio nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo che modifica le procedure per gestire i richiedenti asilo nel momento in cui si presentano alle frontiere dell’Unione.

Fra le altre cose, il nuovo regolamento ridefinisce il concetto di paese sicuro, da cui verrà per esempio eliminata la necessità che un paese sia considerabile tale in tutte le sue regioni e per tutte le categorie di persone.

Ormai da mesi si discute della legittimità di vari punti di questo regolamento, fra cui un passaggio che rende legale incanalare una richiesta di asilo nella procedura accelerata se la persona interessata proviene da un paese il cui tasso di accoglimento delle richieste d’asilo precedenti è inferiore al 20 per cento. È possibile che alla Corte di Giustizia verrà chiesto di esprimersi anche su questo in futuro.

Il governo dice che con il “decreto Cutro” e con il più recente decreto-legge sui paesi sicuri sta solo anticipando l’applicazione del nuovo Patto. È un’affermazione che al momento va presa per quella che è, solo un’espressione di intenzioni: ma è probabile che quello che oggi il tribunale di Roma reputa in contrasto con le normative europee potrebbe smettere di esserlo fra appena un anno e mezzo.

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