I bar in cui si ascolta la musica come si deve

I “jazz kissa”, locali con grandi collezioni di vinili e costosi impianti hi-fi, sono tipici della cultura giapponese: comincia a vedersi qualcosa di simile anche qui

(Adrian Wilson/The New York Times/contrasto)
(Adrian Wilson/The New York Times/contrasto)
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Nei romanzi di Haruki Murakami, lo scrittore giapponese più celebre al mondo, capita spesso che i personaggi trascorrano del tempo in bar molto piccoli e con pochi posti a sedere, caratterizzati dalla presenza di un impianto stereo professionale e di una vastissima selezione di vinili, soprattutto jazz. In Giappone, e in particolare nelle grandi città, è piuttosto frequente imbattersi in posti di questo tipo: vengono definiti jazz kissa (ジャズ喫茶, jazz caffè), ma in Occidente sono conosciuti come listening bar.

Si tratta di locali molto intimi e spesso arredati con un certo gusto minimalista, che includono quasi sempre una parete piena di vinili. A volte la selezione riflette i gusti del proprietario del locale, che li mette sul piatto tra un drink e l’altro, mentre in altri casi i dischi appartengono a dj assunti appositamente per creare una particolare atmosfera. Non sono posti pensati per ballare: a frequentarli sono soprattutto persone che parlano poco e che danno molta importanza all’esperienza dell’ascolto, per le quali è piuttosto comune prendersi il tempo necessario per godersi un vinile per intero, bevendo una birra o un whisky.

Un’altra comunità che frequenta questi locali è quella dei cosiddetti audiofili: il Giappone è notoriamente un paese caratterizzato da una grande passione per gli impianti hi-fi, e solitamente i proprietari dei jazz kissa dedicano molta attenzione a questo aspetto. Frequentarne uno significa poter ascoltare musica da componenti di alta qualità, dalle imponenti casse solitamente posizionate dietro al bancone ai costosissimi amplificatori, passando per un giradischi di alta gamma.

Da una decina d’anni locali che propongono una formula simile hanno cominciato a diffondersi anche in Europa e negli Stati Uniti. Fuori dal Giappone, uno dei più famosi è il Bambino di Parigi, un apprezzato bar del XI arrondissement conosciuto proprio per la sua vasta selezione di vinili e per la presenza di un impianto audio di ultima generazione. Recentemente i listening bar hanno generato un certo interesse anche nelle principali città statunitensi, come New York e Los Angeles.

Anche qualche locale italiano ha provato a proporre qualcosa di simile: uno di questi è Futura, un listening bar di Milano che secondo Leonardo Verga, uno dei proprietari, prova a riprendere le caratteristiche e le atmosfere tipiche dei jazz kissa giapponesi. «Siamo venuti a conoscenza di questi bar frequentando posti come il Bambino a Parigi o il Bar Ton a Bucarest, ma abbiamo scoperto le radici giapponesi di questo format soltanto quando abbiamo deciso di aprirne uno a Milano», dice. «In Italia siamo spesso orientati verso la socialità e il divertimento, e Futura è anche questo, ma non solo. Non vogliamo limitarci a essere un locale notturno, ma offrire un luogo dove rilassarsi e dare valore al proprio tempo».

(Futura)

Verga racconta che sta lavorando soprattutto su questo secondo aspetto: «finora sta funzionando: molti dei nostri ospiti vengono qui da soli, specialmente durante i momenti più tranquilli della giornata: ordinano da bere, sfogliano una rivista e si lasciano accompagnare dalla musica», dice. Seguendo l’ispirazione dei locali giapponesi, continua Verga, «vogliamo ampliare la nostra collezione di vinili, ovviamente nei limiti dello spazio a disposizione, per rendere l’ambiente ancora più scenografico e invitante. Il nostro catalogo di dischi è in costante aggiornamento: chi passa può ascoltare, scoprire e acquistare vinili di ogni tipo».

(Futura)

I jazz kissa cominciarono a diffondersi in Giappone già alla fine degli anni Venti, quando il jazz divenne popolare nel paese grazie all’interesse generato dalle prime tournée delle big band provenienti dagli Stati Uniti e dalle Filippine, dove questa musica era stata introdotta dalle forze d’occupazione.

Nello stesso decennio gli studenti delle principali scuole di musica del paese, come per esempio l’Università musicale di Tokyo, formarono i primi gruppi jazz: l’esempio più famoso è quello della Hatano Jazz Band, una delle prime a ispirarsi alle formazioni tipiche delle grandi big band americane, e quindi composta da una dozzina di musicisti suddivisi in una sezione ritmica e in una di fiati.

Ai tempi il jazz era ancora percepito come una novità assoluta: lo stesso Fukutarō Hatano, il fondatore della band, raccontò che all’inizio lui e gli altri membri del gruppo non sapevano bene come muoversi. Non esisteva ancora una produzione autoctona, e il repertorio che veniva proposto nelle prime sale da ballo giapponese era principalmente statunitense. «Suonavamo spartiti che avevo comprato in America, così com’erano. Nessuno sapeva ancora niente di improvvisazione».

In breve tempo questa musica divenne un consumo culturale comune a fasce sempre più ampie della popolazione, e la scena jazzistica giapponese si affermò come una delle più dinamiche e importanti del tempo, al punto che la critica musicale la definì con un neologismo specifico: japazz. In quel contesto, i primi jazz kissa svolsero un ruolo fondamentale per la diffusione del genere: procurarsi i vinili era infatti piuttosto costoso, e trascorrere del tempo in questi locali era un modo per scoprire nuova musica senza sobbarcarsi spese eccessive.

Spesso questi locali venivano aperti da appassionati che avevano viaggiato negli Stati Uniti, e che quindi possedevano una collezione di vinili d’importazione piuttosto ampia. I jazz kissa ebbero il loro picco di popolarità tra gli anni Settanta e Ottanta (in quel periodo, lo stesso Murakami lavorò in uno di questi locali: il Peter Cat), ma continuano ad appassionare molte persone ancora oggi: quelli più famosi sono diventati una tappa obbligata per gli appassionati di musica che visitano città come Tokyo o Osaka.

Se Verga ha provato a riprendere gli ambienti e le atmosfere tipiche dei jazz kissa giapponesi, altri hanno preso spunto da questi locali soltanto per alcuni elementi, come la centralità dell’impianto hi-fi e l’abitudine di mettere in mostra una selezione di vinili molto curata.

Uno di questi è Andrea Gherra, uno dei proprietari di Banco Vini, un locale di Torino che si definisce «hi-fi listening bar». Gherra racconta di aver scoperto i listening bar in Francia, «dove non è raro trovare posti in cui le persone fanno suonare i vinili che portano con sé». Ha deciso così di proporre qualcosa di simile anche a Torino, e di farlo assecondando in parte i propri gusti personali. «Possedevo già un impianto Technics di alta qualità e anche una grande collezione di vinili, soprattutto di jazz e musica elettronica; è stata un’evoluzione piuttosto naturale», racconta.

(Banco Vini)

Prendendo spunto dall’esempio francese, una delle particolarità con cui Gherra ha scelto di caratterizzare il locale è quella della condivisione: «non è un posto per dj specializzati e addetti ai lavori, chiunque può portare con sé i propri vinili e farli suonare, anche se è un principiante. Un altro obiettivo è coniugare l’ascolto di musica in alta fedeltà a una proposta di vino naturale sofisticata, che è un po’ l’altra anima del locale». Una volta a settimana, Banco Vini invita a suonare Alessandro Gambo, un dj piuttosto conosciuto nella nicchia torinese del jazz e della musica colta, organizzatore del festival Jazz is Dead!. «È un collezionista di vinili quasi patologico, ovviamente in senso buono, e ha un gran gusto: mi fido della sua selezione, non sbaglia quasi mai».

(Banco Vini)

Gherra dice che «i jazz bar giapponesi sono caratterizzati, come dice il nome, da una proposta incentrata soprattutto sul jazz, ma noi abbiamo scelto di fare una selezione più ampia». Questo perché «Torino è una città in cui la musica, specialmente quella cosiddetta underground, ha sempre avuto un’importanza centrale, e di conseguenza i gusti delle persone che frequentano il bar sono molto vari: si va dall’elettronica all’acid jazz, dal reggae al pop italiano più colto», dice.

Secondo Gherra, un altro elemento che rende difficile far funzionare un classico jazz kissa in Italia è quello della convivialità: «adoro l’identità così sobria e intima che questi posti hanno in Giappone, ma qui c’è una cultura diversa dello stare insieme: le persone a un certo punto vogliono ballare, muoversi e divertirsi, insomma».

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