Il dibattito sul potere dei giornali dopo la vittoria di Trump
È sempre minore, le persone si informano altrove e considerano i media tradizionali parziali o inutili: è un problema per far funzionare la democrazia
L’ultima campagna elettorale statunitense e l’elezione alla presidenza di Donald Trump hanno aperto un dibattito nei media americani intorno al fatto che il cosiddetto “potere del giornalismo” non esista più, o almeno sia molto diminuito. Le testate tradizionali, dai grandi quotidiani alle riviste più autorevoli alle maggiori televisioni, avevano tenuto in grande maggioranza posizioni critiche contro Trump o di vera opposizione, ma malgrado alcune raggiungano ancora quote rilevanti di lettori, sembra che oggi riescano a influenzarne ben pochi, rispetto ad altre fonti di informazione. Giornali e media “di qualità” si presentano tuttora come garanti della democrazia e costruiscono su questo anche le loro comunicazioni commerciali: la creazione di un elettorato informato correttamente, dicono, dovrebbe limitare l’attrattiva delle peggiori derive politiche e sociali. Ma questa funzione rischia di perdere di efficacia e senso in un contesto dell’informazione sempre più frammentato.
Le persone oggi si informano attraverso moltissimi canali diversi, e spesso questi canali formano le loro opinioni con maggiore efficacia pur garantendo meno rigore e attenzione ai fatti e alle priorità giornalistiche: nella campagna elettorale del 2024 i candidati – e soprattutto Trump – hanno cercato l’attenzione degli elettori attraverso interviste con podcaster, youtuber e influencer sui social network, capaci di parlare a comunità più o meno grandi. Questa nuova intermediazione non prevede il rispetto di alti standard giornalistici, ma si presenta come più diretta e più trasparente, e quindi più credibile, anche nel suo essere schierata e a volte proprio per quello, in un tempo di polarizzazioni sempre più estese tra gli elettori.
Molti esperti di media ritengono che questa nuova realtà obbligherà i grandi giornali e le televisioni non a qualche aggiustamento, ma a un totale ripensamento, se vogliono restare rilevanti: rilevanza a cui non è più sufficiente nemmeno un relativamente alto numero di lettori. Ha spiegato nella sua newsletter Matt Pearce, già al Los Angeles Times e oggi a capo di un importante sindacato di giornalisti: «Il New York Times ha oggi probabilmente sia più lettori, che più giornalisti, che meno rilevanza che mai rispetto a informare gli elettori su quale candidato presidente scegliere. Solo una minoranza davvero piccola di elettori si imbatterà mai nei contenuti scritti accuratamente e prodotti da molti giornalisti professionisti in qualunque redazione».
Le risposte a quest’esigenza di cambiamento però al momento sono tutt’altro che chiare.
Nel 2016, dopo la prima vittoria elettorale di Trump, la riflessione intorno ai media (e interna ai media) riguardò soprattutto una presunta sottovalutazione del candidato e del suo elettorato. I grandi giornali si chiesero se avevano sottolineato abbastanza i rischi di una sua presidenza, CNN fu anche accusata di averne favorito l’ascesa, per il grande spazio dato alle sue polemiche e ai suoi eccessi, sin dalla fase delle primarie Repubblicane. Otto anni dopo, i media non si sono fatti trovare impreparati al ritorno di Trump: tutti i più autorevoli e diffusi quotidiani e periodici americani avevano assolutamente messo in conto una sua vittoria (anche se i sondaggisti non ne avevano indovinato la misura) e hanno fatto opposizione a Trump documentando con puntualità problemi, criticità, rischi e timori. Dei quattro quotidiani “nazionali” statunitensi – New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, USA Today -, tutte testate ritenute autorevoli e di qualità, i primi due hanno apertamente e continuamente contestato il rischio di una presidenza Trump, il terzo ha posizioni più conservatrici ma che sono sempre rimaste scettiche e critiche verso Trump, e il quarto, più generalista e meno “politico”, è rimasto complessivamente neutrale. Contro Trump sono intervenute con frequenza alcune delle riviste più stimate e importanti del paese, il New Yorker, l’Atlantic, Vanity Fair.
«Sembra che nessuno di questi messaggi sia arrivato a destinazione, a quanto pare stiamo parlando da soli», ha scritto Sharon Waxman, fondatrice di TheWrap, sito che si occupa di business dello spettacolo e dei media. E il direttore del settimanale New Yorker David Remnick ha detto al sito di news Semafor: «Non credo che i giornalisti di ogni tipo di giornale abbiano più l’illusione di parlare alla maggioranza dell’elettorato o della popolazione».
I motivi di questa perdita di rilevanza sono in parte legati all’ormai lunga e raccontata crisi dei giornali tradizionali, che hanno mezzi economici più limitati, enormi problemi nell’inserirsi in un mercato pubblicitario dominato dalle grandi aziende tecnologiche e maggiore concorrenza nella ricerca dell’attenzione dei lettori. Minori mezzi economici implicano minori investimenti tecnologici e molte più difficoltà e timori a sperimentare nuovi modi per raggiungere nuovi lettori, dopo che le modifiche degli algoritmi di Facebook e Google hanno reso meno rilevanti le quote di traffico provenienti dai social media e dai motori di ricerca.
Nel caso dei giornali locali, la stessa crisi ha portato spesso alla chiusura definitiva: 127 giornali statunitensi hanno chiuso nell’ultimo anno e di quelli presenti nel 2005 oltre un terzo non esiste più. Questo ha lasciato più della metà delle oltre 3mila contee del paese con un solo giornale locale, e 208 senza nessun giornale locale.
Anche i grandi network televisivi, con i loro canali all news, hanno mostrato segni di una perdita progressiva e consistente di rilevanza, anche nella fase delle campagne elettorali e delle elezioni, storicamente il momento in cui attirano le maggiori attenzioni e i più consistenti investimenti pubblicitari. Continuano ad avere grandi audience nei momenti più importanti della campagna, come i confronti televisivi fra i candidati, ma in generale il loro pubblico è in calo. L’audience complessiva dei tre maggiori (nell’ordine Fox News, MSNBC e CNN), è diminuita del 32 per cento rispetto al 2020, scendendo intorno ai 21 milioni nel giorno medio, con cali più consistenti per CNN, che ha perso oltre la metà dei suoi spettatori. Per tutte e tre le televisioni si tratta poi di spettatori particolarmente anziani, con un’età mediana fra i 67 e i 70 anni.
Mark Thompson, da agosto 2023 amministratore delegato di CNN, ha scritto in uno dei documenti destinati alla redazione citato da Semafor: «Per avere successo, dobbiamo abbandonare i nostri preconcetti sui limiti di ciò che CNN può essere e seguire il pubblico dove si trova ora e dove si troverà negli anni a venire». L’idea di base dei vertici della televisione è che i media tradizionali siano destinati a “morire” se non si trasformano per intercettare il pubblico.
Ma per i giornali e televisioni il problema non è solo la minor capacità di raggiungere le persone, problema che dura da tempo: c’è anche quello di essere percepiti come affidabili, e di perdere credibilità a favore di una estesissima varietà di “nuovi media” attraverso i quali le persone oggi ricevono informazioni. Una parte importante del pubblico statunitense, quella di tendenze più conservatrici, ritiene che i media tradizionali siano parziali, favorendo una visione vicina ai Democratici e ostile ai Repubblicani. Questa convinzione è quasi sempre esagerata e semplicistica, ma ha anche una quota di fondamento che deriva dalla tradizionale capacità del pensiero progressista di costruire progetti ed elaborazioni culturali di maggior successo, e quindi di governare gli indirizzi delle testate più importanti. E il recente caso del mancato endorsement del Washington Post per le elezioni presidenziali ha confermato come spesso i quotidiani rischino di essere condizionati dalle aspettative dei loro lettori abituali: la decisione di non sostenere apertamente Kamala Harris ha causato oltre 250mila disdette di abbonamento in pochi giorni.
Durante il primo mandato di Trump alcuni dei più autorevoli media statunitensi hanno consolidato le proprie posizioni (e i numeri degli abbonamenti) proprio sottolineando la loro funzione di «salvaguardia della democrazia», in opposizione a Trump stesso. Oggi l’equilibrio fra quelle posizioni e la volontà di non essere percepiti come “di parte” appare particolarmente complesso.
Sempre più persone considerano i giornali non affidabili anche per una lunga e fruttuosa campagna di discredito e demonizzazione condotta dalla destra americana, soprattutto sui social e con maggiore successo dopo l’acquisizione di Twitter (poi X) da parte di Elon Musk. Subito dopo le elezioni lo stesso Musk ha postato quello che sarebbe diventato uno slogan ricorrente: «You are the media now» («Sei tu i media, adesso»). James O’Keefe, attivista e influencer di destra, ha ampliato il concetto: «I media tradizionali sono morti. Hollywood è finita. È il tempo della verità. Basta lamentarsi dei media, ora sei tu i media».
Questi inviti a creare il proprio personale universo informativo sono molto strumentali ad alimentare una narrazione politica che si basa spesso su notizie false, disinformazione e adesione totale al progetto conservatore. Invitando le persone a non credere ai media tradizionali e a “fare le proprie ricerche”, li si spinge verso fonti meno attente alla verifica dei fatti e più allineate politicamente alla destra. Ma il concetto «Sei tu i media» d’altra parte fotografa una situazione già presente, in cui la frammentazione informativa è tale che non esiste più qualcosa che tutto il pubblico vede e ascolta. Come ha riassunto lo storico mensile Atlantic, i media tradizionali devono competere con una realtà in cui «ognuno può scegliere la propria avventura». E ancora Matt Pearce ha spiegato che il giornalismo di qualità, basato sui fatti, è diventato una specie di lusso minoritario, costoso per chi lo produce e meno attraente per chi lo riceve rispetto alla “produzione di stronzate”, facile, economica, accessibile.
Durante la campagna elettorale questa crescente importanza di altri canali informativi – la cui qualità non è necessariamente sempre peggiore, anche quando ha approcci più liberi e meno rigorosi rispetto a quelli del giornalismo – è diventata evidente perché Trump e Harris hanno partecipato a programmi e frequentato media che in passato non avrebbero considerato. Trump si è fatto intervistare in venti differenti podcast, alcuni molto specifici come quello sul wrestling condotto da Mark Calaway, noto come The Undertaker (il becchino), altri particolarmente popolari come il programma di Joe Rogan, comico e commentatore di arti marziali miste, molto criticato per le sue posizioni scettiche sui vaccini e per aver promosso teorie del complotto, ma seguitissimo. Quella puntata della Joe Rogan Experience ha avuto 45 milioni di visualizzazioni su YouTube e 25 milioni di ascolti fra Spotify e altre piattaforme.
I podcast sono stati uno strumento utilizzato dai candidati per raggiungere particolari settori demografici: Trump ha puntato sui giovani uomini fra i 18 e i 29 anni (con buoni riscontri al voto), Harris sulle donne, ad esempio con la partecipazione a Call Her Daddy.
Se i podcast hanno guadagnato rilevanza, secondo un’inchiesta del Pew Research Center più della metà degli utenti di TikTok ha detto di informarsi abitualmente sulla piattaforma. Secondo un’analisi del Wall Street Journal dei post che hanno più di 25mila visualizzazioni su TikTok, i cosiddetti “news influencer”, persone comuni che offrono una loro opinione sulle notizie o le raccontano, riescono a far diventare virali più post di quanto non succeda a grandi media come CNN, CBS o NBC.
Gli youtuber e i creatori di contenuti indipendenti non si devono preoccupare di fact-checking, imparzialità, ricerca di notizie originali e correzioni di errori: la procedura principale consiste nel produrre un notevole volume di contenuti (siano essi brevi video molto editati o lunghi streaming audio e video) e di creare un rapporto il più possibile diretto con i propri follower, che tendono così a considerare autentico il prodotto, a perdonare imprecisioni e a ritenere gli autori affidabili.
Questo costituisce un vantaggio competitivo non indifferente nei confronti dei media tradizionali, a cui potrebbe non bastare più contare sulla “qualità” della propria produzione. In una realtà informativa così frammentata vedere riconosciuta la qualità e denunciare la disinformazione può essere complesso, così come coltivare la domanda di accurato giornalismo tradizionale mentre le nostre attenzioni sono sempre più dirottate verso forme nuove di messaggi e contenuti. In quasi tutte le analisi pubblicate in questi giorni sui media statunitensi si sottolinea la necessità di trovare una via per riconnettersi con il pubblico, superarne lo scetticismo, adattarsi alle sue nuove abitudini e affermare un modello credibile di giornalismo, che contribuisca all’ambizioso e complesso obiettivo di “proteggere la democrazia” come è richiesto dalle nostre società a un buon servizio di informazione. Nessuno tra gli esperti e addetti ai lavori sembra però avere idee chiare o nuove proposte su come farlo, soprattutto perché lo scenario economico del settore non sembra destinato a cambiare.