Un’amichevole tutt’altro che amichevole
90 anni fa si giocò un'Inghilterra-Italia che fu presentata come la partita di calcio internazionale più importante di sempre ed è ricordata come “la battaglia di Highbury”
Il 14 novembre del 1934, novant’anni fa, Italia e Inghilterra giocarono a Londra una partita amichevole di calcio. Non fu un’amichevole come siamo abituati a intenderle, nel senso che di amichevole ci fu ben poco: e infatti ancora oggi è ricordata come “la battaglia di Highbury”, dal nome del quartiere di Londra in cui si giocò. Era la seconda partita di sempre tra le due squadre – la prima, giocata a Roma nel 1933, era finita 1-1 – e arrivava pochi mesi dopo che l’Italia aveva vinto in casa la Coppa del Mondo, una competizione che allora si chiamava ancora Coppa Jules Rimet, dal nome del francese che l’aveva ideata. A quei Mondiali l’Inghilterra non aveva partecipato: un po’ perché era in disaccordo con la FIFA sul fatto che i calciatori fossero pagati per giocare; un po’ perché si riteneva superiore.
In un periodo di intensi e crescenti nazionalismi, in cui il calcio si stava sempre più affermando come sport di massa, la partita fu presentata come la vera finale tra la squadra che aveva vinto la Coppa del Mondo e quella che, dato che il calcio l’aveva inventato, si riteneva la più forte al mondo. Un po’ come nel pugilato, dove si diventa il campione battendo il campione, c’era insomma l’idea che quella fosse una resa dei conti, la vera finale. “Probabilmente la più importante partita internazionale di calcio che sia mai stata giocata”, secondo una cronaca britannica del tempo.
La partita arrivò alcuni mesi dopo che a Venezia c’era stato il primo incontro ufficiale tra Adolf Hitler e Benito Mussolini, quando la propaganda fascista ancora non aveva iniziato a riferirsi all’Inghilterra come alla “Perfida Albione”: lo avrebbe iniziato a fare circa un anno più tardi, in risposta all’opposizione britannica all’invasione dell’Etiopia da parte dell’Italia. Quando si giocò la partita i rapporti tra i due paesi erano già piuttosto tesi ma non ancora apertamente conflittuali. In quel periodo il re britannico era Giorgio V, il nonno di Elisabetta II, che aveva solo otto anni.
Quella Inghilterra-Italia si giocò nello stadio che ospitava le partite dell’Arsenal, nel quartiere di Highbury appunto, il cui nome sarebbe rimasto appiccicato al ricordo di quella partita. La squadra inglese era più giovane di quella italiana e aveva dalla sua il fatto di essere composta per sette undicesimi proprio da giocatori dell’Arsenal: quello era il campo in cui giocavano abitualmente, si conoscevano bene tra loro e potevano beneficiare di un pubblico evidentemente molto affezionato.
Così come le altre federazioni britanniche, la Football Association inglese era uscita dalla FIFA nel 1928 perché era favorevole al dilettantismo e contraria ai “broken time payments”, una forma di rimborso spese per i calciatori impegnati con le squadre Nazionali.
L’Italia era una squadra coesa e oggettivamente molto forte, ma con alcuni giocatori ormai a fine carriera, oltre che con un paio di nomi diversi rispetto a quelli della formazione che aveva vinto i Mondiali. Ma era pur sempre una squadra che aveva vinto i Mondiali con 12 gol segnati e solo 3 subìti. I giornali inglesi prospettavano un confronto equo, certi giornali italiani preannunciavano una schiacciante vittoria dell’Italia.
L’Inghilterra giocava un calcio piuttosto brioso ed elegante, con un modulo noto come WM, perché quelle erano le lettere che si creavano unendo i puntini corrispondenti alla posizione ideale che ognuno dei dieci giocatori di movimento avrebbe dovuto tenere in campo. Era un calcio in cui i giocatori, schierati in una sorta di 3-2-2-3, puntavano a dominare la partita mantenendo per più tempo possibile il pallone tra i piedi. Modulo e giocatori non erano stati scelti da un vero allenatore, bensì da una sorta di commissione nominata a sua volta dalla Football Association.
L’Italia era invece, prima di ogni altra cosa, l’Italia-di-Pozzo, cioè Vittorio Pozzo, che ne era allenatore dal 1929. Più che un semplice modulo o sistema di gioco, Pozzo aveva quello che era definito un metodo, nel suo caso “il Metodo”. Prevedeva che i giocatori fossero schierati in un ideale 2-3-2-3, dove era fondamentale il ruolo del giocatore in mezzo al campo, il centromediano metodista. Quel metodo si basava su una solida difesa e su quello che oggi verrebbe definito un calcio di contropiede, interessato all’efficacia più che alla componente estetica del bel gioco.
La partita si giocò in quello che i cronisti britannici definirono un «tipico clima londinese», davanti a 56mila spettatori, con lo svedese Otto Olsson a fare da arbitro. Gli inglesi avevano maglie bianche e pantaloncini blu, gli italiani pantaloncini bianchi e maglia azzurra.
Al primo minuto ci fu un rigore per l’Inghilterra, che fu parato dal portiere italiano Carlo Ceresoli. Al secondo minuto un duro scontro di gioco con l’attaccante inglese Ted Drake causò l’infortunio di Luis Monti, che si fratturò l’alluce. In quegli anni ancora non erano previste le sostituzioni: per Monti la scelta era tra uscire e lasciare i compagni in 10 o restare in campo, cosa che fece per alcuni minuti, pur non potendo ovviamente fare granché.
Soprannominato “doble ancho” (armadio a due ante) per la sua imponenza fisica, così come alcuni altri in quella Nazionale dell’Italia fascista, Monti era un oriundo: un calciatore straniero, nel suo caso argentino, che giocava per l’Italia perché aveva i genitori italiani (lui però visse e giocò in Argentina per trent’anni, prima di trasferirsi alla Juventus in Italia). Prima di diventare italiano e vincere i Mondiali con l’Italia aveva giocato con l’Argentina una finale mondiale vinta dall’Uruguay. A livello tattico, Monti era fondamentale per l’Italia: era il centromediano metodista, colui che doveva gestire i tempi di gioco e fare da perno tra difesa e attacco.
Dopo l’infortunio di Monti l’Inghilterra segnò tre gol in nove minuti. Monti si rassegnò a dover uscire dal campo, con Pozzo che dovette ridisegnare il suo modulo metodista. A quanto pare ci riuscì, oppure fu merito dell’intervallo e di qualche discorso motivazionale (su cui girano un po’ di aneddoti, tutti difficili da confermare).
Di certo l’Italia, pur giocando in 10 contro 11, non subì altri gol e nel secondo tempo arrivò al 3-2 grazie a due gol segnati da Giuseppe Meazza, attaccante dell’Ambrosiana-Inter a cui nel 1980 fu intitolato lo stadio milanese di San Siro. In un paio di occasioni Meazza andò vicinissimo a segnare il gol del pareggio, colpendo anche una traversa.
Soprattutto, dopo l’infortunio di Monti e i tre gol inglesi, la partita si era fatta fisica, addirittura violenta, con gli italiani convinti che Drake avesse volutamente fatto male a Monti, e quindi intenzionati a vendicarsi.
L’inglese Eddie Hapgood ne uscì con il naso rotto, altri inglesi lamentarono diversi interventi scorretti, calci e pugni. Gli italiani fecero più o meno lo stesso. Fu senz’altro una partita avvincente, tra quelle che probabilmente erano davvero le due migliori squadre di quel momento, con una grande seppur incompleta rimonta italiana. Ma fu anche una partita cruda e ruvida, perfino per gli standard di allora. Già in un articolo di resoconto della partita, il Guardian riportò questa frase di uno dei calciatori inglesi che erano scesi in campo: «Non è stata una partita di calcio, è stata una battaglia». Fu probabilmente da lì che la partita iniziò a essere ricordata, in Inghilterra così come in Italia, come “la battaglia di Highbury”.
Nella sua autobiografia pubblicata negli anni Quaranta, Hapgood ricordò quell’Inghilterra-Italia come «la partita più scorretta» della sua carriera e scrisse che nel riportare i fatti della partita un giornalista si era definito “corrispondente di guerra”.
In Inghilterra, dopo quella partita, ci furono apprezzamenti alla “valorosa” prestazione italiana ma anche molte critiche al gioco ritenuto troppo rude fatto dagli italiani. E ci fu perfino chi chiese che la Nazionale inglese non giocasse più partite, perché era troppo pericoloso per i calciatori.
Il Guardian parlò della contrapposizione tra la volontà di organizzare «confronti sportivi internazionali che contribuiscano alla pace e all’amicizia» e «gli stupidi discorsi sul prestigio nazionale conseguente al risultato di una partita».
In Italia, più che sulla violenza dello scontro, la propaganda fascista si focalizzò sulla rimonta italiana. “Il risultato è per gli inglesi, ma il successo per gl’italiani” titolò Il Littoriale, l’attuale Corriere dello Sport. Fu invece il radiocronista Nicolò Carosio a parlare degli italiani come dei “Leoni di Highbury”, un’altra definizione che avrebbe avuto grande successo.
Anni dopo quella partita il giornalista Gianni Brera scrisse: «L’incontro di Highbury viene ricordato da tutti gli italiani in termini di retorica delirante». Parlò tuttavia degli inglesi come di «orgogliosi professionisti della pedata», di «calcioni sesquipedali» e «scene di gladiatoria e persino cinica violenza». Brera aggiunse poi: «Qualcuno che è stato ad Highbury nel 1934 mi racconterà di aver visto tutto fuorché calcio da parte italiana: calcioni, spintoni, cravatte, sputi in faccia».