L’influenza di Joe Rogan sulle elezioni statunitensi
È il conduttore del podcast più seguito nel paese, che ha ospitato e sostenuto Donald Trump, e che i Democratici criticano e snobbano da anni
Negli Stati Uniti diverse analisi e riflessioni sulle elezioni presidenziali, alcune delle quali precedenti il voto, si sono concentrate sull’apparente spostamento verso destra di una parte dell’elettorato più giovane, soprattutto quello maschile. Un’ipotesi condivisa da molti analisti è che in quella fascia della popolazione i contenuti diffusi attraverso piattaforme di podcast e social media, anche senza il sostegno di grandi gruppi editoriali, abbiano avuto molta più influenza dell’informazione diffusa dai media tradizionali.
Di conseguenza, più del discusso sostegno di questo o di quel giornale a uno dei due candidati, è possibile che abbia avuto un ruolo rilevante il sostegno al candidato Repubblicano Donald Trump espresso da Joe Rogan, creatore e conduttore del podcast più popolare negli Stati Uniti: The Joe Rogan Experience. Su Spotify ha 14,5 milioni di follower e su YouTube 18,4 milioni di iscritti. Il 25 ottobre, prima del suo endorsement, Rogan aveva ospitato Trump in una puntata del programma durata tre ore, che aveva poi ricevuto oltre trenta milioni di visualizzazioni in meno di due giorni.
L’intervista è stata solo una delle tante conversazioni informali tenute da Trump e organizzate da suo figlio Barron con diversi podcaster e youtuber durante la campagna elettorale. Ma è stata probabilmente la più importante, considerato il larghissimo seguito di Rogan, che ha 57 anni e conduce il suo podcast dal 2009. Diventato un passaggio obbligatorio per comici, imprenditori, attori e politici statunitensi, The Joe Rogan Experience è da anni anche la principale piattaforma del cosiddetto intellectual dark web: un gruppo eterogeneo di accademici e studiosi di vari orientamenti politici, accomunati da un’opposizione al presunto dominio del politicamente corretto, della cultura “woke” e della identity politics nelle istituzioni e nel dibattito pubblico statunitensi.
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Si parla di Rogan da diversi giorni anche tra i Democratici, perlopiù in termini di occasione persa. Durante la diretta streaming del sito The Free Press per la notte elettorale l’imprenditore Andrew Yang, nel 2020 candidato dei Democratici alla presidenza, ha criticato la vicepresidente e candidata alla presidenza Kamala Harris per non essersi accordata con Rogan per partecipare al suo podcast. C’era stata la possibilità, a fine ottobre, ma Rogan aveva fatto sapere che non avrebbe accettato le condizioni poste dal comitato elettorale di Harris di limitare a un’ora l’intervista – di solito durano tre ore, a volte anche di più – e di svolgerla, per maggiore comodità di Harris, in un luogo diverso dallo studio del programma a Austin, in Texas.
«È stato un autogol», ha detto Yang, le cui parole sono state riportate dalla giornalista Kaitlyn Tiffany in un articolo sull’Atlantic. L’intervista da Rogan, a suo avviso, avrebbe generato soltanto vantaggi perché il suo podcast ha un pubblico prevalentemente composto da elettori maschi poco inclini a votare per i Democratici: «Non c’era niente da perdere», ha detto.
L’imprenditore Elon Musk, peraltro ospite da Rogan pochi giorni dopo Trump (e altre volte in passato), aveva espresso opinioni in parte simili durante una diretta streaming dalla villa Mar-a-Lago di Trump con l’ex presentatore della rete Fox News Tucker Carlson. A fine serata, quando ormai era chiaro che Trump avrebbe vinto, Musk aveva attribuito parte del successo alle partecipazioni di Trump e del candidato alla vicepresidenza J.D. Vance a lunghi podcast online. «Per una persona ragionevole e sveglia, che non sia estremista in un senso o nell’altro, ascoltare semplicemente qualcuno parlare per qualche ora è un modo per capire se sei una brava persona, se le piaci», ha detto Musk.
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L’idea che tra i fan del podcast di Rogan ci siano non soltanto estremisti di destra ma anche conservatori e moderati ha a che fare con una certa evoluzione dell’immagine che lo stesso Rogan ha dato di sé nel corso degli anni. All’inizio della sua carriera, prima di diventare l’autore del podcast più ascoltato negli Stati Uniti, fu uno stand up comedian e poi un commentatore di incontri della UFC, la principale organizzazione statunitense di arti marziali miste, di cui è tuttora uno dei volti più conosciuti (è anche pratico di jiu-jitsu brasiliano).
Fin dai primi anni di The Joe Rogan Experience l’approccio di Rogan al podcasting, secondo un modello poi imitato anche da altri conduttori e in altri paesi, si è sempre basato su un’inclinazione a ospitare interlocutori di ogni tipo: dall’imprenditore più famoso al mondo, Musk, all’amico terrapiattista, dall’intellettuale più amato dalla destra americana, Jordan Peterson, all’idolo dei no vax.
Durante la pandemia lo stesso Rogan sostenne nel podcast che i giovani «in salute» non avessero bisogno del vaccino, e promosse un utilizzo improprio e molto pericoloso di un farmaco vermifugo come forma di cura domiciliare del Covid. Nel 2020 intervistò, tra gli altri, il fondatore del gruppo di estrema destra Proud Boys e il conduttore televisivo e radiofonico complottista e di estrema destra Alex Jones.
In diverse occasioni le cose dette dagli ospiti di Rogan o da lui stesso nel podcast hanno generato grandi polemiche, oltre che imbarazzo per Spotify, la piattaforma con cui Rogan si accordò nel 2020 per cominciare a pubblicare le puntate in esclusiva, firmando un contratto dal valore stimato di oltre 100 milioni di dollari (circa 87,5 milioni di euro). Più volte i dirigenti si trovarono nella posizione di dover chiarire che l’azienda non produce il podcast di Rogan, non approva gli ospiti né gli argomenti, e non conosce in anticipo i contenuti delle puntate prima della pubblicazione.
Prima del 2020 Rogan si era spesso descritto come un progressista di centrosinistra, deluso da alcune posizioni assunte dai Democratici durante e dopo il primo mandato di Trump, nell’ambito della nota polarizzazione del dibattito intorno ai concetti di intersezionalismo, antirazzismo e politicamente corretto. Il suo podcast aveva ospitato più volte, tra gli altri, intellettuali e accademici che avevano accusato il Partito Democratico di estremismo, marxismo culturale e terzomondismo, denunciandone uno spostamento verso la corrente più di sinistra, e che sostenevano di essere stati ostracizzati per questo.
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L’autodescrizione di Rogan come ex centrista deluso diventò via via più sfumata e meno frequente, man mano che emergevano nel suo programma tendenze politiche che lo avvicinavano all’ala reazionaria dei Repubblicani. E questa di Rogan potrebbe essere la stessa traiettoria politica seguita da molti giovani maschi statunitensi diventati nel frattempo parte dell’elettorato di Trump, ha scritto Slate, definendo il The Joe Rogan Experience «un podcast di destra a tutti gli effetti, che a volte intervista anche persone tipo Adam Sandler».
Ciò che accomuna non solo molti ospiti del programma di Rogan ma lo stesso Trump, secondo Slate, è «il disprezzo per le nostre principali istituzioni culturali e accademiche, denigrate come centri di indottrinamento in cui commissari d’élite cospirano per impedire agli uomini bianchi di ottenere una giusta opportunità». La comicità di altri ospiti e l’umorismo di Rogan servono più che altro a «coprire» questa radicata ispirazione reazionaria del programma, difeso e descritto dal suo conduttore come un programma in cui si cerca solo di porre domande, ma senza aggiungere «che le domande poste sono molto, molto stupide», ha scritto Slate.
L’assenza di domande sgradite agli ospiti è un tratto che accomuna il podcast di Rogan ad altri podcast e programmi distribuiti su canali YouTube, tra cui il Lex Fridman Podcast, considerati spazi sicuri da imprenditori, investitori e fondatori di startup o grandi aziende che accettano volentieri di essere intervistati in questo modo.
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La recente intervista di Rogan a Trump è avvenuta due anni dopo che Rogan aveva detto di non essere «in alcun modo, forma o aspetto un sostenitore di Trump», e di essersi rifiutato di invitarlo nel suo programma definendolo «una minaccia esistenziale per la democrazia». Nella recente puntata del podcast ha detto di aver riconsiderato la sua posizione dopo il tentato assassinio a Trump a luglio durante un comizio in Pennsylvania.
Al netto dei molti dubbi sulla qualità giornalistica del programma di Rogan, diversi commentatori si sono chiesti se il rifiuto del comitato elettorale di Harris di assecondare le sue richieste impedendo di fatto alla vicepresidente di partecipare al podcast sia stata una mossa controproducente. In un articolo sul New York Times il giornalista Ezra Klein ha criticato la tendenza dei Democratici a snobbare piattaforme straordinariamente popolari, e ha citato come esempio opposto il senatore ed ex candidato dei Democratici alle primarie Bernie Sanders, che accettò l’invito di Rogan a partecipare al podcast nel 2019.
Rogan sostenne poi Sanders, ma «invece di festeggiare, i progressisti online si infuriarono con lui per essere andato da Rogan come prima cosa», ha scritto Klein, che all’epoca difese la scelta di Sanders e fu a sua volta molto criticato per questo. «Rogan era un transfobo, un islamofobo, un sessista, un razzista, il tipo di persona che vorresti emarginare, non con cui vorresti chiacchierare. Ma se gli ultimi anni hanno dimostrato qualcosa, è che i progressisti non possono scegliere chi viene emarginato», ha scritto Klein, sostenendo che i Democratici avrebbero dovuto andare da Rogan stabilmente.
Il rifiuto di Harris potrebbe anche essere stato motivato dalla volontà di evitare il rischio di fare una gaffe al microfono, ha scritto l’Atlantic. In quel caso sarebbe stata tuttavia una preoccupazione del tutto superflua, visto chi ha vinto le elezioni: «Avrebbe fatto la differenza? Sicuramente no. Ma era una differenza».