È un pessimo periodo per i festival musicali
Negli ultimi mesi ne sono stati cancellati molti, per una crisi generale causata dall'inflazione e dalle mutate abitudini d'ascolto delle persone
Lunedì la rivista musicale Pitchfork ha annunciato la cancellazione del Pitchfork Music Festival, il festival musicale estivo che organizzava da 19 anni all’Union Park di Chicago, nello stato americano dell’Illinois. La redazione ha imputato la decisione di annullare l’evento a una «rapida evoluzione» del «panorama dei festival musicali», e ha detto che nel 2025 continuerà comunque a organizzare altri concerti fuori da Chicago, senza dare ulteriori dettagli.
Probabilmente, la scelta è una conseguenza delle recenti traversie editoriali della rivista: a gennaio infatti Condé Nast, la società editoriale che la possiede, aveva licenziato circa metà della redazione nell’ambito di un processo di tagli che avrebbe dovuto portare all’assorbimento (finora non concretizzato) dei contenuti di Pitchfork da parte di GQ, un’altra rivista del gruppo.
Tuttavia, la cancellazione del Pitchfork Music Festival si inserisce in un momento particolarmente complicato per gli eventi musicali dal vivo: negli ultimi mesi molti festival sono stati cancellati o temporaneamente sospesi, e più in generale l’interesse verso queste forme di intrattenimento è visibilmente diminuito, nell’ambito di quella che diversi addetti ai lavori hanno descritto come una «crisi» del settore. Il giornalista Greg Rosalsky, uno degli autori della newsletter economica di NPR Planet Money, ha scritto a questo proposito che il 2024 sarà ricordato come «l’anno in cui i festival musicali sono morti».
Dall’inizio dell’anno sono stati cancellati eventi diversi per proposta musicale, area geografica e pubblico di riferimento, come il Desert Daze e il Sierra Nevada World Music Festival, due famosi festival californiani dedicati rispettivamente al rock psichedelico e alla musica reggae, il Kickoff Jam, un popolare festival di musica country della Florida, e il Blue Ridge Rock Festival, che veniva organizzato in Virginia. Sono stati annullati anche festival diretti a un pubblico più generalista, come il Sudden Little Thrills di Pittsburgh, in Pennsylvania, e il Float Fest di Austin, in Texas.
Altri festival non sono stati cancellati, ma hanno ottenuto risultati di vendita molto deludenti. Per esempio, negli scorsi mesi erano stati ampiamente discussi e commentati gli scarsi risultati commerciali di due tra i più conosciuti e partecipati festival statunitensi: il Coachella, che si svolge ogni anno a Indio, in California, e il Burning Man, il popolare evento per il quale decine di migliaia di persone si riuniscono ogni anno nel deserto del Black Rock, nel Nevada, in un raduno che nel tempo è diventato più un evento di pubbliche relazioni che artistico. Il primo ha avuto una diminuzione dei ricavi di circa il 15 per cento rispetto all’edizione dello scorso anno, mentre i biglietti per il secondo, che negli anni passati finivano pochi minuti dopo la messa in vendita, non sono stati esauriti per la prima volta in oltre dieci anni.
Questa tendenza non riguarda soltanto gli Stati Uniti. Ad agosto per esempio erano state cancellate le edizioni sudamericane del festival spagnolo Primavera Sound, uno dei più importanti d’Europa, che avrebbero dovuto tenersi tra novembre e dicembre in Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, e l’edizione parigina del Lollapalooza, il celebre festival musicale di Chicago ideato nel 1991 dal cantante dei Jane’s Addiction Perry Farrell, di cui però è programmata una nuova edizione per il prossimo anno. È stata annunciata anche la cancellazione del Sideways, un popolare festival di musica rock finlandese.
La situazione più critica, però, è quella in Regno Unito, un paese in cui la cultura dei festival musicali è molto radicata. Secondo la AIF (Association of Independent Festivals), l’associazione che rappresenta gli interessi di centinaia di organizzatori di festival britannici, da inizio anno ne sono stati cancellati più di 60.
Il presidente dell’AIF, John Rostron, ha detto all’Hollywood Reporter che una delle poche eccezioni è rappresentata dal festival di Glastonbury, che però va considerato «un’anomalia», dato che è l’evento musicale più famoso d’Europa, nonché uno dei più noti e seguiti al mondo: la domanda per questo festival è sempre e comunque altissima, a prescindere dalle oscillazioni del settore.
Rostron ha però sottolineato che il successo di Glastonbury è per molti versi legato a quello dei festival più piccoli. «Non cominci a suonare per 100mila persone dalla mattina alla sera: bisogna fare gavetta», ha detto, evidenziando come i festival più piccoli rappresentino ancora un’occasione di visibilità fondamentale per musicisti e gruppi emergenti. Rostron ha citato a questo proposito l’esempio di Ed Sheeran, che oggi è uno dei cantanti più famosi al mondo, ma che tenne il suo primo concerto da headliner (il musicista più atteso) al Barn on the Farm di Gloucester, un piccolo festival organizzato nel sudovest dell’Inghilterra, davanti a 5mila persone. Il Barn on the Farm di Gloucester è uno dei festival britannici cancellati quest’anno.
Le molte cancellazioni di festival del Regno Unito sono legate a vari fattori, come l’aumento dei prezzi innescato dalla crisi energetica iniziata con la guerra in Ucraina e alcune conseguenze economiche della pandemia di Covid. Secondo Rostron, inoltre, bisogna considerare anche l’impatto delle misure protezionistiche adottate dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, e in particolare delle cosiddette barriere non tariffarie, ossia restrizioni al commercio che non prevedono l’imposizione di dazi doganali ma rendono comunque più difficoltoso importare merci dall’estero, attraverso un appesantimento della burocrazia. Per porre rimedio alla situazione e stimolare la domanda, l’AIF ha chiesto al governo britannico di abbassare l’IVA (imposta sul valore aggiunto) sui biglietti dei concerti, portandola dal 20 al 5 per cento.
Secondo Rosalsky, il «colpevole più ovvio» di questo momento di grande difficoltà dei festival musicali è l’impatto della forte inflazione che ha interessato diverse economie occidentali, e che ha cominciato a normalizzarsi soltanto di recente. Dopo la pandemia i costi necessari per assicurarsi i beni e i servizi indispensabili per organizzare eventi di questo tipo, come l’affitto dei bagni chimici e delle attrezzature e le retribuzioni di musicisti, tecnici e addetti alla sicurezza, sono aumentati notevolmente, e molti organizzatori non sono riusciti a rientrare delle spese.
Rosalsky ha ricordato anche come, agli inizi degli anni Dieci del Duemila, i festival musicali vivessero un’epoca d’oro; la domanda era altissima, venivano fondati nuovi festival in continuazione e, per massimizzare i profitti, gli organizzatori scelsero la strategia più semplice, cioè aumentare i prezzi dei biglietti. Questo approccio ha pagato: secondo una ricerca condotta dalla società di analisi finanziarie FinanceBuzz e basata sull’analisi di 15 grandi festival statunitensi, negli ultimi dieci anni il prezzo medio dei biglietti è aumentato del 55 per cento, superando di gran lunga il tasso di inflazione complessivo dello stesso periodo.
La situazione è cambiata dopo la fine della pandemia, quando i frequentatori abituali di concerti hanno cambiato le loro abitudini di consumo e sono diventati molto più selettivi, diminuendo le loro partecipazioni e concentrando le loro risorse soltanto sui festival più importanti. A quel punto si è verificata quella che Will Page, economista scozzese che pubblica spesso studi molto approfonditi sull’industria musicale e che in passato ha lavorato con Spotify, ha definito una «sovrasaturazione»: la domanda per i moltissimi festival che erano stati fondati nella prima metà degli anni Dieci, il periodo del boom, è grandemente diminuita, creando una situazione in cui ci sono moltissimi eventi, ma non abbastanza persone disposte a spendere dei soldi per parteciparvi.
Per chiarire il concetto, Page ha descritto il comportamento dei consumatori «post pandemici» come una «corsa al vertice in cui le persone stabiliscono le priorità per tutte le loro spese (vacanze, gite in città, cene fuori, spettacoli e festival preferiti) e, dovendo tagliare, vince il più costoso. Questo vale sia per i festival che per i ristoranti».
Più di recente, ha spiegato Page, anche le strategie di molti organizzatori sono cambiate: oggi sono meno propensi ad aumentare il prezzo dei biglietti, perché temono che questa scelta possa determinare un’ulteriore diminuzione della domanda. Questo approccio, però, rende più difficoltoso coprire il grande aumento dei prezzi causato dall’inflazione. Insomma: la strategia che fino a una decina d’anni fa, quando la richiesta di festival musicali era molto alta, veniva adottata in maniera piuttosto indiscriminata per aumentare i profitti, oggi sarebbe da un certo punto di vista necessaria, ma è più difficile adottarla.
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Un altro motivo che potrebbe contribuire a spiegare la crisi dei festival musicali, e in particolare di quelli che Page definisce «multigenere» (ossia che prevedono la partecipazione di musicisti e gruppi che si differenziano dal punto di vista della proposta musicale) riguarda le modalità di fruizione della musica che si sono consolidate negli ultimi dieci anni.
Oggi gli utenti delle principali piattaforme di streaming, e in particolare di Spotify, scoprono nuova musica soprattutto attraverso playlist che vengono realizzate sfruttando un algoritmo che tiene conto delle esperienze di utenti con abitudini di ascolto simili. Secondo Page, questo meccanismo avrebbe portato a un sostanziale appiattimento dei gusti, suddividendo gli ascoltatori in bolle abitudinarie e poco aperte alle novità: nella maggior parte dei casi, infatti, le canzoni consigliate dalle piattaforme sono sostanzialmente identiche a quelle che gli utenti conoscono già.
Per questo motivo, sostiene Page, oggi molti consumatori considerano poco interessante partecipare a festival con musicisti e gruppi di generi poco affini ai loro gusti. «I festival funzionano perché ci riuniamo tutti attorno a un palco a tarda notte e cantiamo insieme le stesse canzoni. Se il nostro punto di contatto non sono più gli altri con le loro pulsazioni ma la nostra scelta algoritmica unica, allora i festival servono un insieme di nicchie che non è facile da intercettare», ha detto Page.
Questo parere è condiviso anche da Glenn McDonald, ex analista di dati di Spotify e autore del saggio You Have Not Yet Heard Your Favourite Song: How Streaming Changes Music, secondo cui, per come funziona la musica oggi, «la scaletta di un festival non focalizzato su un determinato genere viene percepita come una playlist personalizzata per qualcun altro».
Bisogna infine considerare che i festival, specialmente quelli indipendenti (ossia che non fanno parte del circuito della grande distribuzione), sono notoriamente attività economiche piuttosto rischiose, e per un motivo facile da immaginare: bisogna fare grossi investimenti in anticipo, e sperare che la vendita dei biglietti e le altre fonti di guadagno accessorie (cibo, parcheggi, merchandising) consentano di recuperare i costi e creare dei margini di profitto, che nella maggior parte dei casi (di nuovo, specialmente per i festival indipendenti) sono piuttosto esigui.
Ci sono poi diverse variabili che possono intaccare il successo di un festival, e che sono spesso imprevedibili: le condizioni meteorologiche, per esempio, o la rinuncia improvvisa da parte di uno dei musicisti che erano stati programmati nella scaletta per via di un qualsiasi problema personale. Spesso, il cattivo andamento di una singola edizione può portare alla cancellazione di festival che esistevano da anni.
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Soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, comunque, ci sono state difficoltà anche fuori dal settore dei festival, più in generale in quello della musica dal vivo, che pure è complessivamente in crescita, anche in Italia dove il giro d’affari è aumentato di circa un terzo tra il 2023 e il 2022, raggiungendo quasi un miliardo di euro.
Negli ultimi mesi vari musicisti e gruppi hanno avuto difficoltà a vendere i biglietti per i loro concerti per via delle condizioni imposte dalle società che li organizzano. In particolare è un discorso che riguarda la multinazionale dell’intrattenimento Live Nation, che viene accusata da anni di avere creato una situazione di sostanziale monopolio nel settore degli eventi dal vivo, imponendo prezzi sempre più alti per i concerti grazie al controllo di Ticketmaster, la principale società di vendita di biglietti online al mondo.
Live Nation tende a privilegiare i gestori di palazzetti con cui ha stipulato degli accordi di collaborazione, che nella maggior parte dei casi consentono alla società di guadagnare su tutta una serie di attività accessorie che ha in gestione, come i parcheggi e la vendita del cibo. Di conseguenza, capita spesso che musicisti e gruppi finiscano per organizzare concerti in palazzetti troppo grandi rispetto al loro pubblico, e proponendo i biglietti a prezzi più alti rispetto al solito: di recente era capitato per esempio ai Black Keys, un gruppo rock statunitense che ebbe un periodo di grande popolarità alcuni anni fa, e che ha dovuto annullare il suo tour autunnale negli Stati Uniti per evitare di suonare in palazzetti semivuoti o con interi settori completamente liberi.
Di recente si è parlato anche di un altro problema, che riguarda le band europee che vogliono andare in tournée negli Stati Uniti. Ad aprile l’USCIS (United States Citizenship and Immigration Services), l’agenzia federale statunitense che si occupa di gestire il sistema di naturalizzazione e immigrazione del paese, ha più che triplicato il costo dei visti che musicisti e band devono ottenere per potere andare in tournée negli Stati Uniti.
La decisione sta avendo delle conseguenze piuttosto concrete sulla vita lavorativa di migliaia di musicisti e gruppi emergenti non statunitensi, che a causa delle spese insostenibili rischiano di rimanere esclusi da un mercato enorme e fondamentale come quello degli Stati Uniti, il primo paese al mondo per il settore dei concerti.
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