Le criticate nuove regole sui finanziamenti a film e serie

Negli ultimi anni il cinema in Italia è diventato un’industria enorme: con la sua ultima riforma il ministero della Cultura la controlla un po’ di più

(Citadel: Diana/Prime Video)
(Citadel: Diana/Prime Video)
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Il ministero della Cultura ha rivisto ad agosto le modalità attraverso cui finanzia o sostiene la produzione di film e serie tv italiane. Questa riforma è arrivata dopo molte discussioni, proteste, dichiarazioni minacciose e un periodo, che ha occupato la maggior parte del 2024, durante il quale le attività utili all’erogazione di fondi statali sono state bloccate, bloccando di conseguenza tutta la produzione in Italia (sia nazionale che straniera). Si parla di una serie di modifiche alla legge Franceschini del 2017 che erano auspicate da tempo: a seguito dei lockdown del 2020 e del 2021, infatti, era stato reso più semplice accedere ai fondi pubblici, ma una volta che il settore era tornato alla normalità non si erano riportate le norme alla situazione precedente. Questo aveva causato un eccesso di film prodotti, di domande di finanziamento e quindi di potenziale esborso dello Stato.

Le nuove modalità di assegnazione di fondi pubblici annunciate ad agosto non sono state ben accolte dai produttori, cioè i soggetti che ne beneficiano direttamente e che erano stati i primi a chiedere delle modifiche che impedissero alle produzioni meno serie di prendere fondi. La direzione presa è stata quella di dividere le produzioni in due categorie: quelle dei film con budget superiore a 3,5 milioni di euro, cioè le grandi, e quelle con budget inferiore a 3,5 milioni di euro, cioè medie e piccole. Per le prime non cambia molto e il sistema di finanziamento rimane obiettivo e bilanciato. Per le seconde, invece, una serie di nuove regole rende secondo i produttori difficile accedere ai contributi automatici (che hanno cioè a che vedere con lo storico delle produzioni e i loro risultati precedenti o i loro investimenti) forzando verso i selettivi (che dipendono da una commissione nominata dal governo e quindi sono discrezionali). In pratica, lo Stato ha in questo modo un grande potere decisionale sui film più piccoli, su chi viene finanziato e chi no.

Il successo del finanziamento pubblico all’audiovisivo
Il sistema di finanziamento statale al cinema per molti anni ha funzionato o attraverso meccanismi “a pioggia”, che finanziavano con poca discrezione un po’ tutti, o attraverso commissioni, ossia con gruppi di persone incaricate di scegliere chi potesse ricevere più fondi e chi meno. Quando la legge Franceschini cambiò questo meccanismo nel 2017 i produttori furono i primi a esserne felici. In quel momento furono introdotti due meccanismi di finanziamento (oltre a più fondi e a un sistema vantaggioso di sgravio fiscale chiamato tax credit): un sistema automatico che garantisce a tutti un sostegno in proporzione ai risultati commerciali, festivalieri o internazionali, e uno selettivo più ristretto, destinato alle opere prime e seconde o a quelle più difficili, cioè quelle che lo Stato vuole produrre anche se sa che non hanno grandi possibilità commerciali (come per esempio un film su Dante Alighieri). Questo ha portato dal 2017 a oggi a una grandissima crescita del settore audiovisivo, fino a raggiungere la piena occupazione.

Il fondo per l’audiovisivo, inoltre, è pensato per alimentarsi, anno dopo anno, con parte dei soldi delle tasse pagate dalle società che beneficiano di fondi statali, quasi una forma di autofinanziamento. Questo, come detto, è stato un meccanismo che ha funzionato molto e ha trasformato il cinema in un settore importante per l’economia italiana. Il produttore di Lucky Red Andrea Occhipinti ha spiegato che «secondo una valutazione di Cassa depositi e prestiti, ogni euro investito nell’audiovisivo in Italia ne porta tre e mezzo nelle casse dello Stato. Mentre secondo una valutazione dello stesso ministero, la crescita della produzione in Italia ha aumentato i fatturati delle aziende e creato occupazione, ma non solo. La capacità attrattiva che abbiamo in Italia, anche grazie al nostro sistema fiscale vantaggioso per le produzioni straniere, ha portato molte serie e film internazionali da noi. La serie White Lotus, che ha girato in Sicilia la seconda stagione, ha portato 40 milioni di indotto e cambiato il turismo dell’isola […] In questo momento due serie italiane su Prime Video e Netflix sono tra le più viste in tutto il mondo [fa riferimento a Citadel: Diana e Inganno, ma a queste può essere aggiunta anche La legge di Lidia Poët ndr]».

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Spesso si approccia la questione del finanziamento cinematografico dal punto di vista artistico e si discute della bontà dei film o di quanto gli spettatori li vedano. Una gran parte del discorso intorno alla produzione invece è solamente economica, come spiega sempre Occhipinti: «Se usi il tax credit non importa quanto il film poi incasserà, perché se lo stato concede una certa cifra deve averne messa una equivalente un privato, ed è un successo. Se poi il film o la serie andranno male dovrà essere scontento il produttore, non lo Stato che ha evitato che quel film fosse girato invece che qui in Ungheria, e quindi che fossero spesi lì quei soldi».

Cosa è andato storto
Infatti, per ogni euro di tax credit che viene erogato (cioè il meccanismo di finanziamento che si basa su agevolazioni fiscali e che in Italia è stato molto importante negli ultimi sette anni) è richiesto che venga spesa una cifra equivalente. Si viene insomma incentivati a spendere, cosa che porta a film più grandi e importanti e più persone che lavorano. Anche per questo, raggiunta la piena occupazione, i salari di tutte le persone che lavorano nel cinema in Italia sono aumentati, aumentando di conseguenza i budget. Inoltre, la combinazione di maestranze esperte e capacità attrattiva dell’Italia ha causato, sempre secondo Occhipinti, il problema dell’eccesso di spesa: «La spesa è andata fuori controllo per il troppo successo. Il tax credit rivolto alle imprese straniere è quello che ha pesato di più nell’eccesso». Occorre precisare che per le imprese straniere è stanziato un fondo a parte, non in concorrenza con quello per le opere italiane, ma che chiaramente attinge sempre alle medesime casse.

Di fatto, le richieste di finanziamento sono passate da 170 nel 2019 a più di 600 nel 2023, e quindi il credito richiesto è passato da 126 milioni di euro a 623 milioni, 400 milioni in più rispetto alle risorse disponibili. Il già citato blocco dell’erogazione di fondi statali del 2024, che di fatto è stato un taglio netto all’attività produttiva, è stata una misura per evitare l’intervento della clausola di salvaguardia finanziaria che scatta in caso di esubero, la quale potrebbe poi portare alla sospensione dell’erogazione del tax credit per i tre anni successivi. Il rimedio quindi è stato bloccare tutto il settore non emanando i consueti bandi per nuovi fondi, con grandi perdite per tutte le società e un danno alla capacità attrattiva dell’Italia per le produzioni straniere: «Io ne ho perse due di produzioni straniere con cui avremmo dovuto lavorare», spiega Occhipinti. «Il nuovo film di Luc Besson, che doveva essere girato a Cinecittà, per non aspettare che si sbloccasse la situazione in Italia è andato a farlo altrove, e il prossimo di Ruben Ostlund [vincitore di due Palme d’Oro, l’ultima per Triangle of Sadness ndr] che invece lo farà in Ungheria. Parliamo di film dai 10 ai 15 milioni di euro».

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Secondo la Direzione Cinema, cioè la divisione del ministero della Cultura che si occupa direttamente delle questioni relative all’audiovisivo, dei 1.354 lungometraggi di finzione che hanno fatto richiesta nel 2023 per un credito d’imposta, 598 non sono ancora usciti in sala e non sembra usciranno a breve. Quindi sono invisibili e non hanno avuto un riscontro commerciale di nessun tipo. Lo scopo dichiarato delle modifiche alla legge è stato quello di ridurre, anche radicalmente, il numero dei film che possono accedere a qualche forma di finanziamento pubblico, in modo che non siano più una cifra vicina a 600 ma tornino a essere come nel 2019, ovvero una vicina a 190. Dunque, benché un intervento tempestivo fosse necessario, questa è stata l’occasione per una riforma, che da subito è stata fonte di ansie e preoccupazione per i produttori, anche visto l’atteggiamento battagliero e minaccioso del ministro della Cultura, fino a qualche mese fa, Gennaro Sangiuliano.

Le nuove modifiche alla legge
In una conferenza stampa indetta alla Mostra del cinema di Venezia, a inizio settembre, la Direzione Cinema ha spiegato a una platea di produttori e lavoratori del cinema le modifiche in questione, cercando di fermare la circolazione di voci e bozze di documenti ministeriali.

È stata una conferenza agitata e nervosa, anche vista la situazione di totale blocco e quindi mancanza di lavoro durata ormai mesi, in cui alcune paure sono state dissipate ma altre confermate. Proprio in quei giorni, premiato alla Mostra del cinema di Venezia per il restauro di Ecce bombo (fatto con il Centro Sperimentale di Cinematografia), Nanni Moretti aveva invitato i produttori a «essere più reattivi nei confronti della nuova, pessima legge sul cinema». Il fatto che poche settimane dopo quell’evento il ministro Sangiuliano si sia dimesso e il suo posto sia stato preso da Giuli, proprio quando dalle modifiche approvate occorreva trarre dei decreti attuativi che le rendessero operative, ha aperto degli spiragli di contrattazione.

Le novità prevedono che, come detto, i contributi statali rimangano sempre di due nature sia per i film sopra i 3,5 milioni di euro che per quelli sotto i 3,5 milioni di euro di budget: automatici e selettivi. I primi spettano a tutte le produzioni che rientrino in certi standard e garantiscano certi requisiti, i secondi sono elargiti a un numero limitato di produzioni selezionate da un’apposita commissione (che era stata nominata dal ministro Sangiuliano in gran fretta e che il nuovo ministro ha rivisto quasi completamente).

I finanziamenti automatici sono i più grossi. Come prima, le produzioni medio-alte, per ottenerli, devono dimostrare che il 40 per cento del loro budget viene da fondi privati (le proprie casse quindi, ma anche altre produzioni, fondi di investimento o persone fisiche che vogliono investire). La novità è che mentre in precedenza a questa quota concorrevano anche i fondi regionali, benché pubblici, ora nel conteggio rientrano solo quelli effettivamente privati. Inoltre, occorre dimostrare di avere già un accordo vincolante con una delle prime 20 società di distribuzione italiane (elenco che verrà aggiornato in caso di ingresso nel mercato di nuovi soggetti). Per evitare il problema dei film prodotti con fondi statali e poi non distribuiti o distribuiti male, il contratto con la distribuzione deve garantire una quota minima (stabilita dalla legge) di investimento in promozione e di proiezioni garantite. Pre-vendere il proprio film a una distribuzione è una pratica molto frequente, la legge la rende indispensabile.

Per i film medio-bassi i requisiti sono gli stessi, ma l’investimento in promozione e il numero di spettacoli richiesti sono inferiori. Qui c’è un primo problema. I film sotto i 3,5 milioni di euro sono di molti tipi diversi. Un film che costa 3 milioni è molto diverso da uno che costa meno di un milione, ha possibilità diverse ed esigenze diverse. Quindi i requisiti per questa categoria, secondo i produttori, possono andare bene ad alcuni di questi film ma non ai più piccoli. Non solo, per un film dal budget piccolo è spesso difficile avere un contratto di distribuzione in fase di produzione (più facile che lo trovino quando il film è finito o magari dopo un passaggio ai festival), e in certi casi è anche capitato che si autodistribuissero. Con le nuove regole non possono più farlo. Ci sarebbe poi un’ultima categoria, quella dei film molto piccoli, che costano meno di 1 milione e mezzo di euro, che non è tenuta a presentare contratti di distribuzione nei cinema e per cui basta un contratto di distribuzione televisiva o su una piattaforma streaming.

Marina Marzotto, produttrice di Propaganda Film, una società piccola che realizza film spesso selezionati a festival (per esempio Monica di Andrea Pallaoro era due anni fa a Venezia), spiega che «se fai un’opera prima di un perfetto sconosciuto con un cast non molto conosciuto è complicato mettere insieme il budget prevendendo il film ai distributori o alle televisioni, quello lo fai se hai un film di Garrone con Toni Servillo. Per questo spesso i film dei nuovi talenti sono più difficili da finanziare: è proprio difficile arrivare a quel 40% di fondi privati già oggi, figuriamoci con questa nuova legge».

Cosa è favorito dalle nuove regole
I film che queste modifiche mettono a rischio quindi non sono quelli del tipo che fa Alice Rohrwacher, una regista italiana molto importante, molto premiata, molto conosciuta e apprezzata nel mondo ma di scarso successo in Italia, che con le nuove regole non ha problemi. I suoi film, nonostante gli scarsi incassi italiani, hanno budget alti (l’ultimo, intitolato La chimera, è costato 10 milioni di euro). E non è nemmeno il caso di un film come Vermiglio, candidato italiano agli Oscar di quest’anno, che è costato più di 4 milioni di euro, ha vinto il Gran Premio della Giuria a Venezia e ha incassato più di quanto ci si potesse aspettare. I problemi arrivano per film molto più piccoli di questi. La legge, nel cercare di fermare e arginare il fenomeno dei film che incassano i fondi pubblici ma poi non vengono mai distribuiti o vengono distribuiti male, finisce per penalizzare i piccolissimi, che di solito sono anche il bacino da cui escono i nuovi autori. Maura Delpero, sceneggiatrice e regista di Vermiglio, per esempio, aveva esordito con Maternal, un film costato 1 milione di euro, il quale potrebbe essere complicato da realizzare oggi se non dovesse piacere alla commissione dei contributi selettivi.

Il timore di molti produttori è che in questa maniera i partiti di governo vogliano controllare ciò che viene prodotto, almeno sotto i 3,5 milioni di budget. In questo contesto infatti essendo più difficile per i piccoli accedere ai fondi automatici che hanno dei requisiti per loro complicati, acquistano maggiore importanza i fondi selettivi, quelli assegnati da una commissione. La cifra a loro disposizione è stata anche aumentata: «Se metti circa 50 milioni di euro sui film con storie nazionalistiche, e su tutti gli altri ne metti 30 di milioni, divisi su tutti gli altri tipi di film, è chiaro che c’è una sperequazione» dice Marina Marzotto. Si riferisce a una parte dei contributi selettivi che, con le modifiche, sono destinati a opere che secondo il sito del ministero devono raccontare «personaggi, avvenimenti e luoghi rappresentativi dell’identità nazionale e della varietà culturale delle diverse tradizioni e storie dell’Italia» per «valorizzare, promuovere e diffondere l’identità culturale della Nazione».

Si tratta di un fondo specifico destinato a incoraggiare non una categoria produttiva ma un tipo preciso di storie con budget inferiori a 15 milioni di euro (che è un grande budget). Un tipo che in precedenza non esisteva. Con queste modifiche un tipo preciso di storie non solo ha un contributo selettivo a sé dedicato ma diventa anche il tipo di storia che “fa più punteggio” ai fini dell’ottenimento di qualsiasi contributo selettivo. In un servizio sulla questione andato in onda nella trasmissione Piazzapulita, Michele Lo Foco del Consiglio superiore dell’audiovisivo (un organo che fa da consulente dello Stato per gli interventi sulle regolamentazioni del settore) ha detto che gli è stato chiesto di «approvare senza discutere il decreto».

La commissione che deve valutare i progetti a cui assegnare i fondi selettivi non lo fa solo sulla base della sceneggiatura, ma anche di quelle che vengono chiamate “le carte”, cioè una documentazione che va dal piano di produzione ai sistemi di finanziamento. Le due componenti (sceneggiatura e “carte”) devono avere un senso insieme: una certa storia, con certe ambizioni, ambientazioni, costumi e esigenze, deve accompagnarsi a un piano economico adeguato. Una sceneggiatura con caratteristiche costose non può essere associata a un piano di spesa molto economico e viceversa. Non è semplice valutarlo, servono competenze sia di cinema (inteso come conoscenza di come funzionano i film e come si raccontano le storie) sia di produzione (intesa come il meccanismo con cui si spendono i soldi), e, secondo Lo Foco e non solo, la commissione nominata non comprende molti membri che le possiedano. I 15 esperti nominati dal ministro Giuli sono: Valerio Caprara (critico cinematografico), Tiziana Carpinteri (avvocata), Giacomo Ciammaglichella (avvocato esperto di proprietà intellettuale), Benedetta Cicogna (produttrice), Pasqualino Damiani (docente e collaboratore del ministero per la valutazione di progetti), Selma Jean Dell’Olio (critica cinematografica), Benedetta Fiorini (deputata con esperienza in comunicazione), Massimo Galimberti (docente), Giorgio Gandola (direttore di L’Eco di Bergamo), Mariarosa Cristina Beatrice Mancuso (critica cinematografica), Pier Luigi Manieri (comunicazione istituzionale), Fabio Melelli (docente di cinema nell’Università per stranieri di Perugia), Paolo Guido Carlo Mereghetti (critico cinematografico), Ginella Vocca (fondatrice MedFilm Festival) e Stefano Zecchi (filosofo).

L’avvicendamento del ministro della Cultura sembra però aver aperto degli spiragli di speranza per i produttori. Sempre Andrea Occhipinti ha detto che «da quando c’è Giuli c’è tutto un altro atteggiamento, c’è più ascolto. I pozzi sono ancora avvelenati ma speriamo di poter risolvere il problema. L’anno prossimo potremo correggere il fatto che molti soldi sono stati spostati dal tax credit al selettivo».