Tutto quello che non funziona coi medici “gettonisti”
Per tanti ospedali sono indispensabili, ma costano molto più dei medici dipendenti, che sono quindi incentivati a licenziarsi per fare i gettonisti: è un circolo vizioso
La morte di una ragazza di 14 anni a Sant’Angelo di Piove di Sacco, in provincia di Padova, ha provocato nuove discussioni sul problema dei medici cosiddetti “gettonisti”: cioè i medici che lavorano nelle strutture pubbliche a chiamata, pagati a ore, attraverso cooperative o aziende a cui fanno ricorso i molti ospedali pubblici a cui mancano medici e infermieri.
La 14enne morta a Sant’Angelo di Piove di Sacco si chiamava Eleonora Chinello ed era stata investita da un’automobile mentre andava a prendere l’autobus in bicicletta lo scorso 28 ottobre. Per la sua morte, avvenuta poco dopo in ospedale, è indagata la medica che ha risposto alla chiamata d’emergenza, che secondo due infermiere presenti nel momento del soccorso non avrebbe effettuato le manovre di rianimazione necessarie a salvare la vita di Chinello.
La medica in questione non era una dipendente dell’ospedale, ma dell’azienda CMP Global Medical Division, una società che fornisce medici agli ospedali di varie regioni italiane che hanno carenza di personale: era, appunto, una medica “gettonista”. Secondo le informazioni disponibili, la medica non era specializzata in medicina d’urgenza ma in nefrologia (la branca della medicina che si occupa dei reni), e non sarebbe stata quindi preparata per gestire il caso.
L’accaduto è ancora da indagare, ma l’ipotesi dell’impreparazione della medica sembrerebbe rafforzata dalla testimonianza delle due infermiere, secondo cui la medica avrebbe avuto una sorta di “blocco” e avrebbe detto di non riuscire a eseguire le procedure di rianimazione. È indagata con le accuse di rifiuto di atti d’ufficio, interruzione di servizio di pubblica necessità e cooperazione nell’omicidio colposo.
Al di là della storia specifica, quello dei medici “gettonisti” è un problema di cui in Italia si discute ciclicamente da tempo. I tagli alla sanità e l’impoverimento della medicina territoriale hanno provocato una sempre più estesa mancanza di medici e infermieri nelle strutture pubbliche, e incoraggiato il ricorso a soluzioni più o meno creative per affrontarla: ci sono ospedali che hanno chiamato medici dall’estero, come la Calabria coi medici cubani, e altri, soprattutto al nord, che hanno utilizzato i medici gettonisti forniti da aziende private o cooperative esterne.
Negli ultimi anni, e soprattutto dopo la pandemia, il ricorso a questo tipo di medici si è fatto sempre più massiccio. Il loro lavoro è ormai integrato nella quotidianità degli ospedali pubblici, al punto che sembra difficile poter tornare indietro: anche perché lavorare come “gettonisti” permette ai medici guadagni molto maggiori rispetto a chi lavora negli ospedali pubblici, che lo fa in condizioni sempre più faticose.
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Ci sono diversi motivi per cui il ricorso ai medici “gettonisti” da parte di ospedali e strutture pubbliche è considerato un problema.
Il primo riguarda la loro preparazione e formazione. Possono capitare medici abili e capaci, ma nelle aziende e cooperative che li “prestano” al servizio sanitario non è previsto lo stesso sistema di verifica delle competenze del concorso con cui si diventa medici nel pubblico, dove si compete con altri sulla base dei propri titoli, affrontando più prove. «Basta che ci sia un camice bianco e uno che si chiama “medico” perché ha una laurea in medicina ed è iscritto all’albo perché lo si ritenga idoneo a lavorare in un ospedale, anche se non ha le competenze e la specializzazione che servono», dice Guido Quici, presidente del sindacato dei medici CIMO.
Nell’autunno del 2022 i Nuclei Antisofisticazioni e Sanità (NAS) dei Carabinieri hanno svolto un’indagine in collaborazione col ministero della Salute facendo verifiche su oltre 1.500 medici di cooperative che lavoravano in strutture pubbliche: vari medici nei pronto soccorso non erano specializzati in medicina d’urgenza, e altri impiegati nei reparti di ostetricia non avevano nessuna formazione per eseguire un parto cesareo. «Può capitare benissimo di trovare un dentista in pronto soccorso o uno pneumologo in cardiologia, coi medici gettonisti», dice Giulia Cavalcanti di CIMO.
Quello della mancanza di specializzazione rispetto al reparto in cui si lavora è un problema che si verifica anche negli ospedali che non assumono medici “gettonisti”, ma che per via della carenza di personale devono suddividere i medici in più reparti, indipendentemente dalla specializzazione: «Il ricorso ai “gettonisti” però acuisce ancora di più il problema, soprattutto nei pronto soccorso», dice Cavalcanti.
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Un altro problema riguarda le ore di lavoro. Un medico che lavora come dipendente in un ospedale per contratto non può farne più di 48 a settimana, secondo la direttiva europea sull’orario lavorativo dei medici. Sono regole che servono a tutelare i medici come lavoratori, ma anche a farli rendere al meglio in un lavoro spesso molto delicato. Un medico che lavora “a gettone” è libero di accostare più turni, magari per accumulare molti soldi in pochi giorni: «Chi controlla quante ore ha già lavorato un medico che arriva alle sei di sera per fare un turno al pronto soccorso in cui potrebbe dover gestire casi difficili e impegnativi, magari senza essere lucido e riposato?», chiede Quici di CIMO.
L’accumulo di turni può essere particolarmente redditizio per un medico a gettone, che guadagna molto di più di un medico nel pubblico: si parla di diverse centinaia di euro al giorno, per cui lavorando intensamente per due o tre giorni, con pochissime pause, si può arrivare a guadagnare migliaia di euro in un solo fine settimana.
Una medica che lavora a gettone e ha preferito non dare dettagli sulla sua identità dice di guadagnare 90 o 100 euro all’ora, quello che guadagnava in un giorno quando lavorava nel pubblico. Anche un primario intervistato in forma anonima dalla Stampa ha fatto una stima simile, parlando di contratti di collaborazione da 8-900 euro al giorno, una somma di oltre tre volte superiore a quella ottenuta da un medico ospedaliero assunto da oltre 15 anni. Un’altra stima fatta dalla rubrica “Dataroom” di Milena Gabanelli sul Corriere della Sera ha calcolato che a un medico a gettone bastino 84 turni di lavoro da 12 ore per guadagnare quello che un medico dipendente guadagna in un anno lavorativo.
L’indagine dei NAS del 2022 ha scoperto medici che accumulavano doppi turni per conto della loro cooperativa e medici ultrasettantenni che lavoravano oltre i limiti di età consentiti dalla legge, tra le altre cose.
Un altro problema riguarda la mancanza di continuità con i pazienti, il loro percorso di cura, la programmazione delle terapie personalizzate, la conoscenza e il rispetto dei protocolli dell’ospedale in cui si lavora solo per qualche ora, potenzialmente senza tornarci.
Nel caso in cui qualcosa vada storto, le conseguenze di eventuali danni rischiano inoltre di ricadere sulle stesse strutture pubbliche. Il contratto con cui viene impiegato il medico “gettonista” infatti viene stipulato tra la struttura pubblica e l’azienda privata: eventuali risarcimenti ai pazienti sono a carico della struttura pubblica che lo ha ingaggiato, con grosse conseguenze economiche che pesano su strutture già senza fondi.
Non ci sono dati precisi su quanti siano i medici “gettonisti” in Italia, dal momento che il fenomeno non è ben regolamentato. «Possiamo ottenere qualche dato in maniera indiretta», dice Pierino Di Silverio del sindacato dei medici Anaao-Assomed. Si può per esempio guardare le dimissioni di medici in età non pensionabile, 8.500 in quattro anni secondo le stime del suo sindacato: «È un numero che è aumentato vertiginosamente rispetto a quattro anni fa», dice Di Saverio, secondo cui molte di queste dimissioni verrebbero proprio da medici che sono passati a fare i gettonisti.
In un recente sondaggio del sindacato dei medici CIMO di due anni fa, il 37,6 per cento dei medici diceva di essere pronto ad abbandonare il proprio posto di lavoro nel pubblico, sottopagato e faticoso, per farsi assumere in aziende e cooperative private, lavorando meno e guadagnando molto di più.
Nel pubblico, i tagli alla sanità e la riduzione della medicina territoriale creano da tempo condizioni di lavoro che molti medici considerano insostenibili: il personale scarseggia, i pronto soccorso sono sempre pieni (anche per via delle difficoltà che hanno i medici di famiglia), gli ospedali sono sempre più affollati e sempre meno attrezzati. Il tutto alimenta la percezione di molte persone di un servizio sanitario inadeguato, con conseguenti aumenti di tensioni tra pazienti e medici: negli ultimi anni si sono intensificate le aggressioni fisiche ai medici, con episodi a volte anche molto violenti che minano la serenità con cui il medico dovrebbe svolgere il proprio lavoro.
«Negli ospedali pubblici è anche sempre più difficile fare carriera, e spesso ci si riesce solo avendo contatti politici», dice Di Saverio di Anaao-Assomed. «I giovani medici non vedono nel pubblico molte prospettive: a queste condizioni, e a fronte di un impegno minore in termini di energie e incredibilmente più remunerativo, chi glielo fa fare di lavorare nel pubblico?», dice.
La medica gettonista contattata per questo articolo, per esempio, ha detto di aver lavorato per anni come dipendente in un ospedale pubblico lombardo: formalmente doveva lavorare 40 a settimana, in pratica c’erano periodi in cui arrivava a 80 o 90 ore. «Non avevo una vita, non erano ritmi umani», dice.
Le difficoltà la spinsero a mandare il proprio curriculum a un ospedale svizzero, per cui iniziò a lavorare: dice di aver avuto condizioni molto migliori per qualche anno, pur facendo la pendolare da Monza: «Poi io e il mio compagno abbiamo avuto un bambino, fare la pendolare era molto meno praticabile e così mi sono iscritta a una cooperativa, quella per cui lavoro ora», dice. Aggiunge che al di là delle condizioni economiche lavorare a gettone le permette di gestire il proprio tempo in maniera molto più autonoma.
Il ricorso ai medici “gettonisti” sembra essere diffuso soprattutto nel nord Italia, e in particolar modo negli ospedali più piccoli e periferici, meno attrattivi di quelli che si trovano nei grandi centri.
Sindacati e associazioni di categoria ritengono che nelle conseguenze negative del ricorso ai medici a gettone ci sia anche una corresponsabilità da parte degli ospedali che li ingaggiano, che dovrebbero pretendere nei contratti con le aziende da cui li chiamano più sicurezze e tutele, magari facendo inserire specifiche clausole.
Nel frattempo il ricorso ai medici gettonisti sembra essere sempre più frequente: una recente relazione al parlamento della Corte dei Conti ha stimato che tra il 2019 e il 2022 consulenze, collaborazioni temporanee e altre prestazioni di lavoro sanitarie stipulate coi privati siano aumentate del 47 per cento.
«Ci sono regioni che fanno bandi in cui programmano la gestione dei pronto soccorso con medici a gettone per i prossimi due o tre anni: è evidente che ormai il ricorso a questi medici è diventato la norma», dice Giuseppe Milanese, presidente di Confcooperative Sanità.
Alcune regioni hanno provato ad arginare questa pratica. Nel 2023, per esempio, la regione Lombardia ha vietato con una delibera il ricorso a questo tipo di medici nelle strutture pubbliche, e ha impedito che venissero rinnovati i contratti che erano in vigore in quel momento dopo la scadenza. La delibera è stata però in parte sospesa a marzo di quest’anno da una sentenza del Tribunale amministrativo regionale (il TAR, competente per la pubblica amministrazione), dopo un ricorso da parte di Gapmed, una delle società private che impiegano medici “gettonisti”.
Quest’estate, inoltre, il ministro della Salute Orazio Schillaci ha annunciato che a partire dal 2025 verrà abolito il tetto di spesa per l’assunzione di personale medico. Era in vigore dal 2004 ed è sempre stato molto contestato per via dei limiti che poneva nell’espansione dell’organico degli ospedali. Lo stesso ricorso a medici e infermieri tramite cooperative o aziende esterne è facilitato dall’esistenza del tetto di spesa: «I medici ingaggiati in questa maniera rientrano sotto la voce “beni e servizi”, diversa da quella del personale medico e priva di tetti di spesa», dice Guido Quici di CIMO.
Sia Quici che altri ritengono però che l’abolizione del tetto di spesa non risolva il problema: sia perché non comporta automaticamente fondi per la sanità o la diminuzione di tagli, sia perché ritengono che il problema non si esaurisca in una questione economica.
«C’è una diffusa e generalizzata disaffezione di molti medici nei confronti del pubblico, per via delle condizioni lavorative che comporta, per cui una scelta speculativa diventa un’ovvia conseguenza», dice Giuseppe Milanese di Confcooperative Sanità. Secondo lui, il punto di partenza è rafforzare la medicina territoriale: «a catena arriverebbero una serie di conseguenze positive: pronto soccorso che non sono stracolmi di persone e anziani soli che potrebbero essere assistiti vicino a casa o a domicilio», insieme a ritmi di lavoro più gestibili e di conseguenza «un sistema in cui si può aspirare a lavorare senza considerarlo un inferno».
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