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  • Lunedì 11 novembre 2024

L’esemplare scavo di Civita Giuliana a Pompei

Che mostra metodi e successi dei tombaroli insieme a metodi e successi di chi li combatte

di Francesco Gaeta

Una sezione effettuata con laser scanner della casa che sorge sopra la villa di Civita Giuliana. È visibile il tracciato del primo dei tre cunicoli scavati clandestinamente.
Una sezione effettuata con laser scanner della casa che sorge sopra la villa di Civita Giuliana. È visibile il tracciato del primo dei tre cunicoli scavati clandestinamente.
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Lo scavo oggi più interessante del sito archeologico di Pompei si trova appena fuori dalle mura antiche, sulla collina a nord di fronte al Vesuvio. È uno scavo non ancora aperto al pubblico. La villa suburbana di Civita Giuliana – che ha una superficie stimata di circa duemila metri quadri divisi tra una zona padronale, un piccolo tempio, stalle, officine, alloggi degli schiavi – si trovava sepolta a 6 metri di profondità, in un terreno privato. A scavare per primi e per quasi 20 anni sono stati i cosiddetti tombaroli, trafugatori professionisti di reperti da vendere a mercanti o collezionisti privati. Nel 2017, seguendo le informazioni ottenute da un uomo intercettato nel corso di un’altra indagine, sono poi arrivati i carabinieri e i vigili del fuoco. Infine, una volta sequestrato il terreno, gli esperti del Parco: archeologi, architetti, vulcanologi, geologi, restauratori. Tutti sulle tracce di quel che aveva fatto chi era arrivato prima.

Civita Giuliana è dunque un caso singolare. Per il valore dei reperti, ma anche perché qui si comprende bene sia il metodo di chi a Pompei scava in modo clandestino per trafugarli che quello di chi – personale del Parco archeologico, magistrati e forze di polizia – cerca di evitarlo. A Civita Giuliana archeologi e investigatori hanno lavorato insieme e continuano a farlo, scambiandosi informazioni come in passato non era successo. Ecco perché il procuratore di Torre Annunziata Nunzio Fragliasso ha definito questo scavo «il primo caso di archeologia giudiziaria».

A distanza di sei anni dalla scoperta dello scavo clandestino, costituito da centinaia di metri di cunicoli sotterranei, restano una stima dei danni (circa due milioni di euro), una serie di espropri di case e terreni privati circostanti (altri due milioni di spese), un cantiere di scavo ancora in corso (tre milioni spesi fin qui) e alcune suggestive ipotesi su quel che resta da scavare (per cui sono subito disponibili dieci milioni). Resta anche da capire se questo modello di “intervento congiunto”, ufficializzato su un protocollo firmato da procura della Repubblica, direzione del Parco e forze di polizia, sia replicabile sull’intera area della Grande Pompei, quella che comprende anche i siti di Stabia, Boscoreale, Oplontis. Dove secondo la procura sono 24 gli scavi abusivi, di cui quattro sotto sequestro perché ritenuti ancora potenzialmente attivi.

Un po’ di dati
A Pompei si scava dalla seconda metà del ‘700. I primi a portare via reperti per uso privato, commercio o esibizione, furono i Borbone, che allora regnavano a Napoli. Il sito è dunque da sempre una miniera a cielo aperto: 44 ettari in luce più 22 ancora da scavare. Arriva da Pompei una parte rilevante dei quasi 68mila reperti archeologici recuperati nel 2023 dai carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale, il corpo specializzato che si occupa di tutela e salvaguardia dei beni culturali e archeologici. Ma data la vastità e la natura del territorio, non basta il circuito di telecamere di vigilanza approntato dal Parco. Né il drone che fotografa l’area una volta al mese producendo immagini tridimensionali, scandagliate alla ricerca di anomalie del terreno da un software creato con l’università di Salerno. Nell’area della Grande Pompei – ai tempi romani estesa per 130 chilometri quadrati – le abitazioni di oggi si affacciano sulle case antiche, i terreni agricoli confinano con le aree di scavo, e strade asfaltate coprono sezioni ancora da valorizzare. Tutte interferenze e sovrapposizioni che favoriscono i ladri di reperti. A marzo di quest’anno è stato abbattuto un ristorante abusivo che stava da anni accanto alla celebre “Villa dei Misteri”. Poco lontano è stata distrutta una casa da cui, secondo la procura, partivano alcuni cunicoli che conducevano direttamente alle stanze della servitù della villa.

Uno degli alloggi della schiavitù della villa di Civita Giuliana, appena fuori le mura antiche di Pompei. Nella foto si intravede il foro scavato nel muro antico della stanza dai tombaroli. La villa aveva un’estensione di circa 2000 metri quadri ed era divisa in una zona padronale e in una servile, collegate da un corridoio interno coperto. Nella zona servile sono stati ritrovati i resti di un carro cerimoniale a quattro ruote, di due letti, scaffali, anfore e strumenti di lavoro agricolo.

Civita Giuliana
I primi resti antichi della villa romana di Civita Giuliana furono scavati nel 1908 dall’allora proprietario del terreno, il marchese Giovanni Imperiali: che prese alcuni dei reperti ritrovati, cosa consentita dalle leggi dell’epoca, e poi ricoprì tutto. Dell’esistenza di una villa suburbana restò traccia nei diari di scavo ma se ne perse memoria fino alle intercettazioni del 2017 di un indagato (poi divenuto collaboratore di giustizia) e all’ispezione in una casa che oggi si trova in mezzo al cantiere di scavo. Dalla cantina, attraverso un foro, i proprietari hanno avuto accesso per anni alla cisterna romana dell’antica villa, perforata col martello pneumatico. Da qui, come accerta una sentenza di condanna emessa nel 2021 dal tribunale di Torre Annunziata, a partire dalla fine degli anni Novanta sono stati costruiti tre tunnel – in media 90 centimetri di altezza per 70 di larghezza – in direzioni opposte. I tombaroli hanno scavato fino a trovare i muri delle stanze romane, a 6 metri di profondità. E hanno continuato a scavare rasentando quei muri.

Il metodo di scavo
In uno scavo clandestino come questo si scava costeggiando gli antichi muri romani per tre motivi. Il primo è che così si individua e delimita il perimetro delle stanze e degli ambienti in cui trovare qualcosa.
Il secondo è che il muro è un sostegno per evitare crolli nel materiale vulcanico dell’eruzione del 79 dopo Cristo. A Pompei questo materiale è di due tipi: quello dei lapilli, che ha una grana più grossolana simile alla pomice, e quello molto più fine e compatto della cinerite, la cenere della cosiddetta nube ardente che si è sparsa e poi rappresa nella seconda fase eruttiva, a temperature superiori ai 300 gradi. La consistenza dei due strati varia a seconda della distanza dal vulcano.

Civita Giuliana è più a ridosso del Vesuvio rispetto al resto della città e qui lo strato di lapillo friabile è più profondo: tre metri. Per chi scava in un cunicolo a 6 metri di profondità – lo si fa massimo in tre, il primo ad aprire con piccozza e pala, gli altri a raccogliere e portare via i materiali – è dunque più elevato che altrove il rischio che il tunnel frani. Per evitarlo «nei punti in cui si è più lontani dal muro, i tombaroli spruzzano cemento a presa rapida sulla parte superiore del cunicolo», spiega Raffaele Martinelli, architetto del Parco archeologico che ci guida nei cunicoli. «Qui lo hanno fatto con un compressore, facendo passare i cavi dell’elettricità come in un normale cantiere. I residui del cemento sono ancora visibili in certi punti».

C’è poi un terzo motivo per cui si scava rasentando i muri: per trovare gli affreschi, che sono tra i reperti più profittevoli sul mercato nero. Nel caso di Civita Giuliana sono stati raggiunti così gli affreschi di un sacello, un tempietto coperto di forma rettangolare con un altare probabilmente dedicato a Ercole bambino. Oggi che l’ambiente è stato individuato a sei metri di profondità restano le cornici vuote di 12 pannelli affrescati su sfondo rosso e una serie di solchi profondi tre centimetri, simili ai tagli su una tela di intonaco. Un lavoro fatto a regola d’arte, secondo la direttrice dei lavori di Civita Giuliana Arianna Spinosa: «Hanno delimitato l’area da staccare con un seghetto molto tagliente. Poi hanno inserito delle lame con cui fare leva e procedere al distacco delle porzioni di muro affrescato». È una “tecnica di stacco” che è stata usata anche per altri affreschi celebri, come i cinque pannelli della villa romana di Numerius Popidius Florus a Boscoreale, a un quarto d’ora da qui, che oggi sono esposti al Paul Getty Museum di Malibu, in California.

Rogatorie e inchieste
Secondo quanto emerge dalle indagini giudiziarie, da Pompei i reperti trafugati percorrono una filiera tipica di ogni tratta di opere d’arte. Passano attraverso ricettatori locali, quasi sempre legati alla camorra, e poi a intermediari nazionali e trafficanti internazionali che si servono anche di esperti e restauratori compiacenti. L’ultima tappa sono le destinazioni finali: musei, case d’aste o direttamente privati collezionisti.

In un appunto trovato a fine anni Novanta nell’auto di un ex finanziere passato a lavorare con i tombaroli si traccia una mappa di questa filiera. I nomi che vi sono contenuti ricorrono ancora oggi nelle inchieste giudiziarie della procura di Torre Annunziata. Mercanti d’arte come Robert Hecht, Elie Borowski, Gianfranco Becchina, Giacomo Medici, Raffaele Monticelli. Sono i personaggi che compaiono nelle compravendite di alcuni dei capolavori di arte antica acquistati negli anni scorsi dai più importanti musei del mondo.

Spiega il procuratore Fragliasso: «Alcuni musei degli Stati Uniti hanno acquistato reperti archeologici esportati all’estero illecitamente, in qualche caso avendone piena consapevolezza». La procura ha diverse indagini in corso e tre rogatorie internazionali, cioè richieste di restituzioni. Una di queste riguarda appunto il Paul Getty Museum e gli affreschi della casa di Numerius Popidius Florus. È stata necessaria malgrado, dal settembre 2007, esista un accordo tra il ministero della Cultura e il museo statunitense: sancisce la restituzione di 40 opere d’arte all’Italia e finanzia progetti di ricerca e conservazione a titolo di restituzione. La rogatoria è però ancora senza esito.

Una sezione effettuata con laser scanner della casa che sorge sopra la villa di Civita Giuliana. È visibile il tracciato del primo dei tre cunicoli scavati clandestinamente. Nella zona di sinistra si vede la cisterna romana della villa a cui i proprietari della casa accedevano attraverso un foro aperto nella propria cantina. Il cunicolo misura circa 80 metri.

La procura di Torre Annunziata conta su un nucleo ristretto ma piuttosto attivo di polizia giudiziaria. Il comando di Napoli dei carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale è a circa un’ora da Pompei, e dunque non è presente quotidianamente su questo territorio. Tuttavia, alcuni risultati sono stati ottenuti. «Alcuni affreschi sottratti alla villa romana di Civita Giuliana sono stati già recuperati», spiega Fragliasso. «E nel 2021 sono stati restituiti al Parco archeologico di Pompei altri importanti affreschi, che erano stati sottratti dalla villa romana Arianna di Castellammare di Stabia».

Ma l’indagine più rilevante riguarda una statua in marmo, una preziosa copia romana del “Doriforo” oggi esposta al MIA, il Minneapolis Institute of Art. È considerata dagli esperti un capolavoro perché molto fedele all’originale greco, cioè al “portatore di lancia” in bronzo realizzato dallo scultore Policleto intorno al 450 avanti Cristo e andato perduto.

Nell’aprile del 1986 il museo l’acquistò per due milioni e mezzo di dollari, il prezzo più alto pagato per un’opera nella propria storia. L’allora capo curatore dell’istituto, Michael Conforti, disse che «la statua aumentava di dieci volte il valore della collezione d’arte antica». Contrariamente però a quanto allora aveva detto il mercante Elie Borowski che la vendette, la statua non sarebbe stata ritrovata in mare. In alcune lettere scambiate tra i curatori del museo, datate tra il 1976 e il 1984 e recuperate dalla procura, si parla di «macchie calcaree» riconducibili al tempo in cui la statua sarebbe stata sottoterra, e si consiglia di non insistere troppo sull’inverosimile storia del ritrovamento in mare per evitare che «il vecchio furto di Castellammare possa venire fuori». La procura conclude che la statua provenga da una villa romana di Stabia e che i responsabili del tempo del MIA «avessero contezza della provenienza del Doriforo da scavi clandestini».

La conclusione è «la provenienza illecita della statua del Doriforo, la sua appartenenza al patrimonio dello Stato italiano e la non estraneità al reato degli stessi acquirenti della statua». Il decreto di confisca è stato emesso oltre due anni e mezzo fa, ma è ancora senza conseguenze. Nel frattempo il ministero ha disposto che il MIA non riceva più prestiti e non ottenga più collaborazioni dai musei italiani finché il Doriforo non tornerà in Italia.

– Leggi anche: Chi erano questi tombaroli

Il carro cerimoniale
«A Civita Giuliana lo Stato è riuscito a bloccare il saccheggio clandestino del patrimonio mentre gli scavi erano ancora in corso», dice Gabriel Zuchtriegel, che ha studiato a Bonn e Berlino, ha doppia cittadinanza italiana e tedesca, e dal 2021 è direttore del Parco archeologico di Pompei.

Bloccare, non evitare: la direzione quantifica in due milioni di euro i danni di ciò che è stato sottratto o danneggiato in quasi vent’anni di scavo clandestino. Una delle cose che non sono andate perdute è uno splendido carro cerimoniale a quattro ruote, oggi esposto al museo di Villa Regina a Boscoreale, ritrovato a pochi centimetri di distanza da uno dei cunicoli. È un reperto di grande interesse per la raffinatezza e la cura delle decorazioni. E dal racconto del suo ritrovamento e restauro si misura tutta la distanza che c’è tra la violenza di chi scava spaccando e la cura di chi ricostruisce.

«Vi hanno lavorato a tempo pieno due restauratrici, una esperta in metallo e un’altra specializzata in legni», spiega Arianna Spinosa, la direttrice dei lavori di Civita. «Pensavamo di potere trasportare l’intero blocco di cinerite in cui il carro era inglobato e fare il restauro in laboratorio, ma era troppo rischioso muovere tutto. Abbiamo scelto di farlo qui, pezzo per pezzo: chiodi, frammenti di decorazioni, resti del telaio nei diversi tipi di legname usato. Ogni elemento è stato sottratto alla cinerite, pulito, inventariato, archiviato e rimontato in altra sede. Sono serviti quattro mesi di lavori, qui a cinque metri di profondità, in spazi ristretti».
Nelle telefonate intercettate che hanno portato alla scoperta degli scavi illegali a Civita Giuliana si parla anche di una biga, un carro a due ruote. Che fin qui non è stata trovata.

La possessione
Gabriel Zuchtriegel è un archeologo appassionato. Usa parole ispirate per descrivere il lavoro di chi deve tutelare un patrimonio costantemente sottoposto al rischio dell’usura ma anche dei furti. «Pompei è un contesto del tutto irripetibile. Qui è impossibile applicare il modello di ricerca archeologica classica, incentrato su questioni tecniche relative ai reperti (datazione, attribuzione, valorizzazione) che riguardano il direttore dello scavo e chi lo compie. Può essere valido in altri siti, ma non qui. La particolarità del contesto, l’essere questa una città a cielo aperto, richiede un approccio complesso, cioè la capacità di far dialogare il direttore degli scavi con il Comune se serve un esproprio, con la procura della Repubblica se serve accertare illeciti avvenuti prima dello scavo, con gli investigatori se serve monitorare il territorio e prevenire scavi clandestini».

La ricostruzione tridimensionale dei cunicoli sotterranei (in arancione) scavati clandestinamente dalla fine degli anni ‘90 al 2017 per accedere alla villa di Civita Giuliana. Lo strumento con cui è stato ricostruito questo tracciato è il laser scanner, che utilizza impulsi laser per rilevare la forma e le dimensioni di un oggetto o un ambiente. Gli impulsi colpiscono una superficie e ritornano al dispositivo: misurando il tempo impiegato dal raggio per questo rimbalzo, il laser scanner calcola le distanze e consente di realizzare questo tipo di immagini.

Zuchtriegel parla di «possessione» per definire la sindrome del collezionista che, magari da molto lontano, muove e paga chi scava cunicoli a Pompei: «Il valore materiale di ciò che viene sottratto è solo un debole riflesso del reale valore di cui si fa scempio. Chi ruba un reperto priva quell’oggetto della sua biografia, lo allontana dal suo contesto, lo rende incapace di restituire a tutti il frammento di vita quotidiana in cui era inserito».
La possessione, cioè la possibilità di appropriarsi di un bene archeologico che è proprietà pubblica, è stata vietata in Italia solo a partire dal 1939, dalla cosiddetta legge Bottai. Sono seguite ovviamente altre leggi: il codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004 ha stabilito restrizioni e controlli sull’esportazione di beni per prevenire la dispersione del patrimonio culturale all’estero. E la legge numero 22 del 2022 ha introdotto pene più severe per reati come furto, danneggiamento, esportazione e importazione illecita di beni culturali: fino a sedici anni di carcere e multe fino a 80mila euro per l’esportazione illecita.

Da un po’ di tempo a Pompei si assiste anche alla spontanea restituzione di piccoli frammenti sottratti dai visitatori. «Riceviamo circa 200 pacchetti all’anno», racconta Giuseppe Scarpati, il funzionario responsabile dell’archivio del Parco archeologico. Sono pezzi di mosaico, frammenti di tegole, semplici pezzi di pietra. «Impossibile accertarne la provenienza e risalire alla loro collocazione». I visitatori che li hanno sottratti li restituiscono con biglietti di accompagnamento in cui si parla di malattie arrivate dopo il furto, di lutti e insuccessi personali avvenuti a poca distanza dalla visita al sito. È un fenomeno che si basa sulla credenza che Pompei abbia anche un potere “punitivo” per chi ne approfitta. È una leggenda, un pensiero magico. «Di sicuro c’è anche un grande senso di colpa tra questi bigliettini», conclude Scarpati. «Come l’esigenza di compiere un piccolo risarcimento per ciò che a questo sito è stato sottratto negli anni da tante persone».