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  • Lunedì 11 novembre 2024

Trump rallenterà le politiche globali contro il cambiamento climatico

La transizione energetica negli Stati Uniti non si fermerà, ma il possibile ritiro dall’accordo di Parigi avrà conseguenze già alla COP di Baku

Un cartello per la campagna elettorale di Donald Trump a Des Moines, Iowa, gennaio 2024 (REUTERS/Cheney Orr)
Un cartello per la campagna elettorale di Donald Trump a Des Moines, Iowa, gennaio 2024 (REUTERS/Cheney Orr)
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Una delle prime conseguenze dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti si vedrà a Baku nelle prossime due settimane. La capitale dell’Azerbaijan ospita la 29esima conferenza delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico, più brevemente COP29, che è iniziata lunedì e da programmi durerà fino al 22 novembre. Gli Stati Uniti saranno ancora rappresentati dall’amministrazione Democratica di Joe Biden, ma le trattative internazionali saranno inevitabilmente condizionate dalla promessa di Trump di ritirare di nuovo il paese dall’accordo di Parigi del 2015, come aveva già fatto durante la sua prima presidenza.

Trump ha posizioni negazioniste sulle cause del cambiamento climatico, che definì notoriamente una «truffa della Cina», e tra il 2017 e il 2021 eliminò più di cento provvedimenti in favore dell’ambiente introdotti prima della sua presidenza. Durante la campagna elettorale aveva detto che avrebbe cancellato le politiche dell’amministrazione di Biden per ridurre le emissioni causate dai trasporti, dalla produzione di energia e dal settore dei combustibili fossili.

Ha anche detto di voler favorire un aumento della produzione statunitense di petrolio e gas naturale, che sono già ai massimi storici. «DRILL, BABY, DRILL», ovvero «TRIVELLA, BABY, TRIVELLA», in riferimento allo sfruttamento delle risorse petrolifere statunitensi, è stato uno dei motti elettorali di Trump. I Repubblicani peraltro hanno beneficiato della stragrande maggioranza dei fondi investiti dalle aziende petrolifere americane per queste elezioni: più di 180 milioni di dollari, secondo l’osservatorio OpenSecrets.

Trump inoltre è sempre stato contrario al processo di cooperazione internazionale per scongiurare gli effetti negativi del riscaldamento globale, quello che da 29 anni viene portato avanti con le conferenze dell’ONU. Ha descritto come «orrendamente ingiusto» l’accordo di Parigi su cui attualmente si basano gli impegni dei paesi del mondo (solo l’Iran, la Libia e lo Yemen non ne fanno parte) per ridurre le emissioni di gas serra e ha confermato che revocherà nuovamente la ratifica dell’accordo da parte degli Stati Uniti non appena si sarà insediato come presidente.

Una volta richiesta, l’uscita effettiva dall’accordo richiederà un anno. A quel punto gli Stati Uniti sarebbero liberi dall’impegno a presentare periodicamente dei piani per la riduzione delle proprie emissioni, i cosiddetti Nationally Determined Contributions (NDC), in italiano “Contributi determinati su base nazionale”, che i paesi firmatari di Parigi dovranno aggiornare entro febbraio per i prossimi dieci anni. Finora gli Stati Uniti si sono impegnati a dimezzare le proprie emissioni rispetto ai livelli del 2005 entro il 2030. È possibile che l’amministrazione di Biden presenti i nuovi NDC statunitensi prima dell’insediamento di Trump, ma uscendo dall’accordo di Parigi la nuova amministrazione potrà ignorarli e smantellare le politiche Democratiche che li avrebbero resi possibili.

Inoltre, in caso di ritiro dall’accordo di Parigi, gli Stati Uniti non dovrebbero più partecipare insieme agli altri paesi storicamente più ricchi e inquinanti all’impegno a prestare miliardi di dollari ai paesi in via di sviluppo per aiutarli a contrastare il cambiamento climatico nel proprio territorio, tema che peraltro sarà centrale durante la COP29 di Baku.

La foto di una scritta che dice "La crisi climatica non si fermerà per un negazionista", con un'illustrazione di Donald Trump, proiettata sul Tower Bridge a Londra, 7 novembre, in vista della COP29

Una scritta che dice “La crisi climatica non si fermerà per un negazionista”, con un’illustrazione di Donald Trump, proiettata sul Tower Bridge a Londra, 7 novembre, in vista della COP29 (REUTERS/Chris J. Ratcliffe)

C’è anche la possibilità che una volta diventato presidente Trump si spinga oltre e provi a ritirare gli Stati Uniti dalla “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (UNFCCC). È il trattato in base al quale ogni anno dal 1995 vengono organizzate le COP sul clima, quello con cui i paesi del mondo si sono impegnati a rendere stabile la concentrazione di gas serra e a fornire ogni anno una stima delle proprie emissioni nell’atmosfera.

Trump non ha mai detto di voler uscire dall’UNFCCC ma lo propongono alcuni gruppi politici reazionari che ne hanno sostenuto la campagna elettorale, come quello del Project 2025, il discusso programma di governo per un’amministrazione di destra curato dal centro studi conservatore Heritage Foundation. Prima dell’elezione Trump se ne era dissociato, ma fonti anonime di Bloomberg dicono che i sostenitori di questa idea hanno preparato delle bozze di ordini esecutivi con cui il presidente eletto potrebbe avviare l’uscita dal trattato: questo indicherebbe una certa mobilitazione dietro la proposta e forse la possibilità di influenzare seriamente Trump. Tuttavia se la procedura per ritirarsi dall’accordo di Parigi è piuttosto semplice, quella per uscire dalla Convenzione quadro sarebbe più complicata perché la Costituzione statunitense non dice se il presidente possa decidere autonomamente il recesso da un trattato del genere.

Anche se Trump dovesse ignorare le proposte riguardo al ritiro degli Stati Uniti dalla UNFCCC, il processo globale di contrasto al cambiamento climatico sarebbe comunque danneggiato dal ritiro dall’accordo di Parigi. Gli Stati Uniti sono la prima economia del mondo e il secondo paese per emissioni di gas serra annuali (dopo la Cina) e il loro eventuale contributo alla lotta al riscaldamento globale è molto rilevante. Non solo per l’impatto delle loro politiche nazionali sul bilancio delle emissioni, ma anche per la grande influenza che hanno sugli altri paesi del mondo e dunque per la loro capacità di convincerli ad adottare politiche di contrasto al cambiamento climatico.

Nell’ultima settimana gli esperti delle relazioni diplomatiche intorno al clima hanno parlato estesamente delle possibili conseguenze dell’elezione di Trump sul processo delle COP. Alcuni temono che l’abbandono della cooperazione internazionale sul clima da parte degli Stati Uniti escluda definitivamente la speranza che l’aumento della temperatura media terrestre si possa tenere sotto il limite di 1,5 °C rispetto all’epoca preindustriale, il più ambizioso degli obiettivi fissati con l’accordo di Parigi.

Altri hanno espresso opinioni meno negative. L’ottimismo deriva in parte dal fatto che il contesto internazionale del 2024 è diverso da quello del 2016, quando Trump fu eletto per la prima volta, e che da allora le industrie legate alle fonti di energia rinnovabili e ai veicoli elettrici sono molto cresciute: la cosiddetta “transizione energetica” si è affermata in gran parte del mondo e oggi ci sono forti interessi economici che la sostengono.

Un’altra ragione di ottimismo deriva dal fatto che dopo che Trump ritirò gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi nel 2019 nessun altro paese del mondo ne seguì l’esempio, nemmeno i principali esportatori di combustibili fossili. Nessuno esclude che l’uscita degli Stati Uniti dalla cooperazione internazionale sul clima non spinga altri paesi a presentare piani per la riduzione delle emissioni meno impegnativi. Si spera tuttavia che il resto del mondo continui a prendere sul serio il processo delle COP e in particolare che l’Unione Europea e la Cina, che con gli Stati Uniti sono i più grandi emettitori di gas serra, trovino un modo per far progredire le cose.

La COP29 «sarà il primo test per la capacità di resilienza del programma per il clima», ha detto Li Shuo, direttore dell’Asia Society Policy Institute a Bloomberg.

Nell’immediato l’elezione di Trump probabilmente influenzerà le trattative della conferenza di Baku, che riguardano in buona parte la cosiddetta “finanza climatica”, cioè i prestiti e le donazioni che i paesi sviluppati si sono impegnati a fornire ai paesi in via di sviluppo per ridurre le proprie emissioni di gas serra e adattarsi agli effetti negativi del cambiamento climatico.

«Ottenere una finanza climatica più ambiziosa sarà praticamente impossibile senza il sostegno statunitense e questo demotiverà i paesi in via di sviluppo a prendere seriamente le promesse dell’Occidente», ha commentato con Reuters Elisabetta Cornago del Centre for European Reform. «Le azioni di Trump rischiano di distruggere la fiducia in un sistema globale già messo alla prova dall’indifferenza e dall’inazione delle nazioni ricche», ha detto invece a Bloomberg Harjeet Singh, un attivista della Fossil Fuel Non-Proliferation Treaty Initiative.

Gli Stati Uniti sono peraltro i più grandi azionisti della Banca Mondiale, che ha un ruolo molto importante nella finanza climatica: gran parte dei fondi che finora sono arrivati ai paesi in via di sviluppo è stata distribuita proprio attraverso istituzioni per la crescita economica.

Al di là delle COP, le posizioni di Trump sul cambiamento climatico avranno degli effetti concreti nelle strategie economiche interne degli Stati Uniti. Trump ha già detto di voler cancellare l’Inflation Reduction Act (IRA), una legge introdotta dall’amministrazione Biden con cui sono stati stanziati 740 miliardi e che è stata la più ampia misura economica mai adottata nella storia degli Stati Uniti per combattere il cambiamento climatico. L’IRA prevede sgravi fiscali per la produzione di auto elettriche, per la produzione di energia da fonti rinnovabili e per le riconversioni di impianti inquinanti.

Secondo uno studio di BloombergNEF, una società del gruppo Bloomberg che fa ricerche di mercato, una revoca totale dell’Inflation Reduction Act avrebbe come effetto che tra il 2025 e il 2035 le quantità di energia eolica, fotovoltaica e immagazzinata nelle batterie sarebbe inferiore del 17 per cento rispetto a quanto potrebbe essere se fossero mantenuti i crediti d’imposta. In particolare ne risentirebbero i progetti per la costruzione di impianti eolici, peraltro particolarmente osteggiati da Trump.

Tuttavia non è detto che Trump provi a smantellare completamente l’IRA, dato che più di tre quarti dei nuovi progetti industriali annunciati nel primo anno dall’introduzione della legge riguardano zone degli Stati Uniti in cui governano i Repubblicani, ha stimato un’analisi del Financial Times. Non a caso ad agosto 18 deputati Repubblicani avevano scritto una lettera aperta allo speaker della Camera Mike Johnson, Repubblicano, per chiedere di non «ritirare prematuramente gli sgravi fiscali per l’energia» nel caso in cui alle elezioni di novembre il loro partito avesse ottenuto la maggioranza. Per revocare l’IRA infatti Trump avrebbe bisogno dell’appoggio del Congresso.

Tornando al contesto internazionale, anche se Trump procederà col ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, il paese continuerà a contribuire alle iniziative per la riduzione delle emissioni di gas serra almeno per una certa misura. Fin dal 2017, quando Trump si svincolò dall’accordo per la prima volta, esistono infatti delle organizzazioni di stati, istituzioni di vario genere e città statunitensi (si chiamano U.S. Climate Alliance, America Is All In e Climate Mayors) che hanno partecipato alle COP in rappresentanza di pezzi del paese. Complessivamente rappresentano quasi due terzi della popolazione statunitense e tre quarti del PIL del paese.

Secondo uno studio dell’Università del Maryland, anche se le politiche in favore dell’ambiente di Biden fossero revocate, gli stati e le città da soli potrebbero arrivare a una riduzione tra il 48 e il 60 per cento delle emissioni rispetto ai livelli del 2005 entro il 2035. Sarebbe un risultato inferiore rispetto all’NDC in vigore, ma vicino.