Con una proboscide ci fai di tutto

Se sei un elefante, perlomeno: è uno degli organi più versatili del regno animale, e aspira, afferra, solleva, comunica, annusa, accarezza e fa da doccia

(REUTERS/Tobias Schwarz)
(REUTERS/Tobias Schwarz)
Caricamento player

Andrew Schulz è un ingegnere meccanico e biofisico al Max Planck Institute, una delle istituzioni scientifiche più importanti della Germania, e da qualche tempo si è appassionato agli elefanti, in particolare alle loro proboscidi. Osservandole in pachidermi di diverse età, si è chiesto come mai fossero già rugose alla nascita e da quella curiosità è nata una ricerca, che segnala come le rughe siano essenziali per rendere mobili e snodate le proboscidi, uno degli organi più versatili dell’intero regno animale.

Gli elefanti sono sicuramente i proboscidati per antonomasia, ma a ben guardare le proboscidi sono diffuse in molte altre specie, spesso minuscole. Le farfalle e le mosche hanno proboscidi (tecnicamente “spiritrombe”) per raggiungere il cibo e nutrirsi, mentre altri mammiferi hanno proboscidi più corte e tozze come quelle del tapiro e dell’elefante marino. La parola stessa deriva dal greco antico προβοσκίς, cioè “davanti” (προ-) e “nutrire” (βόσκω), che descrive efficacemente la funzione di avvicinare il cibo alla bocca.

Nel caso degli elefanti, la proboscide è un’estensione flessibile e a forma di tubo del naso e del labbro superiore della bocca. È un organo con alle spalle milioni di anni di evoluzione, si stima infatti che i primi animali proboscidati fossero comparsi in Africa durante il Paleocene superiore, quasi 60 milioni di anni fa. Erano animali piccoli se confrontati con gli elefanti dei giorni nostri ed erano probabilmente anfibi. Nel corso del Miocene inferiore, quindi circa 18 milioni di anni fa, i discendenti di quelle prime specie iniziarono a diffondersi nell’Eurasia e più tardi nel Nord America. In questo periodo sarebbero comparsi i primi mammut e i gomfoteri, che possiamo considerare come il ramo evolutivo da cui ebbero poi origine gli elefanti odierni.

Oggi ci sono solamente tre specie viventi di elefanti: l’elefante asiatico (Elephas maximus), l’elefante africano (Loxodonta africana) e l’elefante africano di foresta (Loxodonta cyclotis), questi ultimi due strettamente imparentati. Gli elefanti africani e indiani hanno avuto una storia evolutiva distinta per milioni di anni e questo spiega alcune delle loro diversità, dovute a mutazioni casuali e alle diverse condizioni ambientali in cui si sono diffusi nel corso del tempo. Le differenze, per quanto all’apparenza minime, riguardano anche le proboscidi.

Gli elefanti africani hanno due “dita” sulla punta della proboscide: sono un paio di protuberanze triangolari che permettono di pinzare e afferrare gli oggetti, anche di piccole dimensioni, con movimenti molto fini e precisi per animali che possono raggiungere un’altezza di quasi 4 metri e un peso intorno alle 10 tonnellate. A differenza dei loro colleghi africani, gli elefanti asiatici hanno un solo “dito” e questo si riflette sulla loro capacità di afferrare gli oggetti: invece di pinzarli, li raccolgono avvolgendoci intorno la proboscide. L’ipotesi più condivisa è che questa differenza sia derivata da condizioni ambientali per la diversa disponibilità di cibo: gli elefanti africani hanno una dieta più varia, mentre quelli asiatici si nutrono principalmente di erba, foglie e fronde che possono raccogliere facilmente avvolgendoci intorno la proboscide.

Le due “dita” sulla punta della proboscide di un elefante africano (Mark Kolbe/Getty Images)

Il peso di una proboscide di un individuo adulto è in media intorno ai 130 chilogrammi e può sollevare pesi fino a 250 chilogrammi. È una capacità notevole se si considera che la proboscide è priva di un’impalcatura rigida formata da ossa e che è per lo più formata da decine di migliaia di fasci muscolari, tenuti insieme dal tessuto connettivo: la pressione del sangue contribuisce a mantenerla tonica e al tempo stesso flessibile (per questo viene definita un “idrostato muscolare”). E proprio grazie alla flessibilità, gli elefanti possono usarla per una grande varietà di scopi, non solo per raccogliere il cibo ma anche per percepire l’ambiente che hanno intorno.

La proboscide è in primo luogo un naso e gli elefanti hanno un senso dell’olfatto estremamente spiccato, tanto da poter odorare a distanza di chilometri la presenza di una pozza d’acqua utile per abbeverarsi. Il modo in cui odorano è comune tra i mammiferi, esseri umani compresi, e comprende i recettori nel naso che rilevano la presenza di particolari molecole sospese nell’aria e il bulbo olfattivo, il principale centro nervoso per distinguere gli odori. Ma a differenza di altri animali, gli elefanti hanno più recettori e soprattutto il bulbo olfattivo più grande tra tutti i mammiferi, e lo sanno usare molto bene.

Qualche tempo fa, un gruppo di ricerca lo ha messo alla prova offrendo ad alcuni elefanti la scelta tra due bidoni, all’interno dei quali era rispettivamente nascosta una pianta di cui vanno ghiotti e una con un odore molto simile, ma che non incontra i loro gusti. Gli elefanti sono riusciti a distinguere facilmente la loro pianta preferita solo dall’odore e ci sono riusciti anche in un altro esperimento più elaborato, dove dovevano seguire un percorso a bivi, con una strada che portava verso il loro pasto preferito e un altro verso quello che odora quasi allo stesso modo, pur essendo meno appetitoso.

Avere un ottimo olfatto è utile anche per tenersi alla larga da eventuali predatori, percependone la presenza a grande distanza, e per riconoscere gli individui appartenenti al proprio gruppo. Gli elefanti vivono in strutture sociali complesse, organizzate in gruppi di femmine imparentate tra loro e che fanno poi riferimento a una matriarca che orienta e guida l’intero gruppo. È di solito la matriarca a produrre un verso molto forte, un barrito, aiutandosi con la proboscide per diffondere onde sonore che grazie alla propagazione anche nel suolo possono essere percepite a chilometri di distanza da altri gruppi di elefanti. Quando poi avviene un incontro, gli elefanti usano la proboscide per odorarsi e indagare la bocca degli altri individui, per riconoscersi e mantenere una certa gerarchia. Il ricongiungimento con i gruppi di maschi, che talvolta si allontanano per lungo tempo dal gruppo di femmine con i piccoli, è mediato da queste attività rese possibili dalla proboscide.

Avere un naso mobile lungo tra il metro e il metro e mezzo offre comunque molte altre opportunità, che ogni individuo interpreta a proprio modo, a ulteriore dimostrazione della versatilità della proboscide. Questa può essere usata per staccare delle fronde da usare per scacciare mosche e altri insetti volanti, oppure per raccogliere della sabbia da spruzzarsi addosso per raffreddarsi in una giornata particolarmente calda. E la proboscide serve naturalmente anche per bere, anche se non nel modo in cui immaginano in molti.

(Cameron Spencer/Getty Images)

Gli elefanti non usano la proboscide per bere direttamente l’acqua, cosa che sarebbe poco pratica e fastidiosa, come sa chi “beve” un po’ d’acqua col naso quando fa una nuotata. Durante una bevuta, un elefante aspira e raccoglie nella proboscide fino a 8-10 litri di acqua, poi la orienta verso la bocca e se li spruzza in gola per ingerirli. E a proposito di nuoto, specialmente gli individui più giovani usano la proboscide come una sorta di boccaglio per respirare quando sono sott’acqua, lasciando che la sua estremità affiori sopra il pelo dell’acqua.

Un elefante appena nato ha già una buona padronanza della propria proboscide ed è stata questa caratteristica a incuriosire Schulz, il ricercatore che ne ha studiato le rughe. Inizialmente pensava che le proboscidi diventassero rugose col tempo e con l’uso, un po’ come avviene con le rughe di espressione negli esseri umani. Schulz con il suo gruppo di ricerca ha studiato fotografie, individui conservati nei musei di storia naturale e altri vivi negli zoo, mettendo a confronto elefanti di diverse età e provenienze, sia africane sia asiatiche.

Lo studio ha permesso di identificare la presenza di rughe con caratteristiche simili in punti specifici delle proboscidi, in corrispondenza dei punti in cui sono maggiormente snodate. Ne hanno osservate in media 126 ricorrenti nelle proboscidi degli elefanti asiatici e 83 in quelli africani. La maggiore quantità di rughe negli elefanti asiatici potrebbe derivare dal fatto che le punte delle loro proboscidi sono meno prensili, avendo un solo “dito”, e che quindi debbano disporre di una maggiore flessibilità per compiere con l’intera proboscide alcuni movimenti per afferrare gli oggetti.

(Royal Society Open Science)

Il gruppo di ricerca ha poi studiato alcuni feti di elefante conservati nei musei di storia naturale e immagini da archivi e altri studi di feti in varie fasi del loro sviluppo. In questo modo ha potuto ricostruire lo sviluppo della proboscide e delle sue rughe. Queste fanno la loro comparsa circa 20 giorni dopo l’inizio della lunga gravidanza degli elefanti, che ha una durata di 22 mesi. Nei cinque mesi successivi la quantità di rughe aumenta enormemente, con una maggiore concentrazione nel punto di maggiore flessibilità della proboscide.

Con la crescita e il tempo, alle rughe presenti dalla nascita si aggiungono quelle dovute all’utilizzo, la cui disposizione varia da elefante a elefante. Ogni individuo ha infatti una direzione preferita per avvolgere la proboscide, verso destra o verso sinistra, un po’ come un essere umano è destrimane o mancino. Osservando la disposizione delle rughe è possibile capire da che parte preferisca girare la proboscide ogni individuo, perché si formano meno pieghe sulla parte che rimane verso l’esterno.

Il gruppo di ricerca ha notato che la disposizione dei peli sulla proboscide può essere un buon indicatore per capire come viene piegata da ogni individuo. I peli sono più radi sulla parte della proboscide che rimane esposta verso l’esterno, probabilmente perché striscia con maggiore frequenza contro il suolo mentre un elefante prova ad afferrare qualcosa.

Capire meglio come sono fatti e si comportano gli animali che condividono con noi il pianeta è interessante di per sé, ma Schulz da ingegnere meccanico vede nel proprio studio anche uno sbocco utilitaristico. Comprendere come funzionano le proboscidi potrebbe consentire di migliorare i robot che utilizzano parti molli e fluidi, sia per muoversi sia per svolgere alcuni compiti per esempio nella ricerca di persone disperse tra le macerie e i detriti di un edificio, attraversando passaggi troppo stretti e pericolosi per il personale di soccorso.