Orrore e balene
«La prima scoperta che ho fatto sulle balene è che ne sappiamo ancora pochissimo. Nel 1850 il poco che se ne sapeva proveniva dal sezionamento dei loro cadaveri. Credo che la ragione principale per cui "Moby Dick" arriva fino ai giorni nostri è che si pone una domanda che ci assilla da sempre, e che torna in questi mesi ad assillarci più che mai: che forma ha – dove abita – il male? Achab sente tutta l’oscurità degli abissi addensarsi nel corpo di quella balena bianca. Quando un giorno mi ci trovai vicino, a una formazione di balene, mi resi conto che non era poi un’idea così assurda»
Da più di un anno, ormai, due specifiche correnti di notizie si incistano più delle altre nelle mie giornate. Il cervello le ha catalogate così: orrore e balene. L’orrore è la meno originale delle due: presumo sia simile all’orrore che buona parte di chi mi circonda prova, oggi più che mai, davanti alle immagini dei telegiornali. Ha però un carattere particolare, quest’orrore, come uno sbigottimento per delle forme di male che avevamo promesso di accantonare. Le balene hanno invece invaso i miei ultimi mesi attraverso scoperte di specie estinte duecento anni fa, podcast sui loro sistemi di comunicazione, notizie della ripresa della loro caccia, documentari, mostre in loro onore e il ricordo di quella volta in cui mi ci trovai in mezzo in Groenlandia. Queste correnti di notizie si appiccicavano talmente forte ai miei pensieri che ho finito per domandarmi il perché, e se fossero collegate. La risposta – con mia sorpresa – è stata spiccia, e di sole due parole: Moby Dick.
La prima scoperta che ho fatto sulle balene è che ne sappiamo ancora pochissimo. È, per esempio, da soli sessant’anni che conosciamo i loro suoni. Credo che ognuno, ormai, attraverso film o documentari, ne abbia un’idea. Il primo però a sentirli fu il tecnico sonar di un sommergibile americano. Tanto per ricordarci che la Storia si muove più lenta di quanto immaginiamo, o quantomeno procede per rotazioni, il tecnico stava cercando tracce di un sommergibile russo. Si imbatté in suoni che non sembravano di origine geologica, o appartenere a manufatti umani. Si disse dunque che dovevano appartenere a grandi animali, e contattò una coppia di biologi marini, Roger e Katy Payne. I due andarono alla ricerca di gruppi di balene, misero in acqua dei microfoni e confermarono la teoria dell’amico militare: erano i canti delle megattere. E fu proprio con questo titolo, Songs of the Humpback Whale, che nel 1970 Roger e Katy Payne incisero quello che ancora oggi, con centinaia di migliaia di copie, è il più venduto album naturale di tutti i tempi. Forse dovette essere la definitiva mazzata per Brian Wilson, fondatore e mente dei Beach Boys, in depressione da tre anni dopo aver sentito Sgt. Pepper dei Beatles e capito che avrebbe oscurato per sempre il suo capolavoro, Pet Sounds.
Cinquant’anni dopo, nel 2020, di nuovo Roger Payne e un altro gruppo di biologi si sono uniti a una squadra di informatici dell’MIT e hanno studiato non più i suoni delle megattere, ma dei capodogli dei Caraibi. A differenza delle megattere, i suoni che producono i capodogli assomigliano più a delle serie di ticchettii, che vengono chiamati “coda”. Una delle studentesse dell’MIT ha osservato, letteralmente, le onde sonore di questi coda da una prospettiva diversa e ha scoperto che i singoli esemplari giocavano, per così dire, con una stessa sequenza, allungandola e accorciandola, e infine di tanto in tanto attaccandoci in fondo una sequenza nuova.
I biologi e gli scienziati hanno finito per stabilire che ci sono oltre 150 diverse sequenze usate dai capodogli, e che queste particolari sequenze potrebbero corrispondere a una sorta di alfabeto. Che, quindi, le balene, esseri viventi con un cervello dieci volte più grande del nostro, potrebbero con queste sequenze formare parole, parlare.
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«Chissà, potrebbero pure essere più intelligenti di noi», ho detto in macchina ai miei figli più grandi, di dieci e otto anni, raccontando loro di questa ricerca.
«Nessuno è più intelligente di noi», hanno risposto, quasi offesi. «Mah, intanto non si ammazzano tra loro», ho detto d’impulso io. Non hanno trovato granché da ribattere.
Peraltro, se parlano, riescono a farlo a grandi distanze: i suoni delle balene, nell’acqua, viaggiano a migliaia di chilometri di distanza, e sono infine percepiti dai loro prodigiosi sistemi di ricezione, con cui centocinquanta anni fa noi umani facevamo le candele.
Già, ecco di cosa andavano a caccia un tempo i nostri antenati: spermaceti, un particolarissimo olio depositato nella testa dei capodogli, usato per saponi e candele, e che adesso sappiamo essere parte del loro sofisticatissimo sistema di comunicazione.
Nel 1850 il poco che si sapeva sulle balene proveniva dall’investigazione e il sezionamento dei loro cadaveri. Herman Melville era convinto di essere, in merito, uno dei massimi esperti del pianeta.
Melville ci dice tutto, sulle balene, in Moby Dick, e con una dovizia di particolari che rendono la sua parte centrale uno dei luoghi più estenuanti della letteratura di tutti i tempi. Delle balene ci descrive la struttura, la forma, il colore, le razze, le navi che le cacciano, le imbarcazioni e gli strumenti e i trucchi con cui vengono cacciate, gli olii che si estraggono dal loro grasso, i recipienti e i sistemi con cui quegli olii vengono stivati…
Sì, alla fine bisogna essere onesti: affrontare Moby Dick, da comuni lettori, è davvero un’impresa. Ma siccome io non sono un comune lettore, di recente mi ci sono messo di buzzo buono (come si dice dalle mie parti): l’ho letta con più attenzione che mai, tutta la parte sulla baleneria, mi sono fatto domande, ho cercato risposte, l’ho osservata da tutti i punti in cui riuscivo a pormi. E ho dovuto infine affrontare la domanda che martella chiunque si prenda la briga di provare a leggerlo da capo a piedi: che senso hanno quelle centinaia di pagine?
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Lo ammetto, in un primo momento mi sono dovuto arrendere: mi prendo qui l’imbarazzante responsabilità di dire che in buona parte di quelle pagine sulla baleneria, a Melville è scappata la frizione. Non bastano i momenti di ironia – o di poesia, o di eleganza – per giustificare la loro generale piattezza.
Eppure, eppure… eppure la letteratura ci dimostra continuamente come spesso sia più grande dei suoi autori.
Si fa per esempio un gran parlare in questi tempi di quanto riprovevole siano stati i comportamenti del padre di questo o quel capolavoro, fino a domandarsi se quei testi non vadano cancellati. E allora? Ancora non abbiamo capito che siamo persone complesse, che la letteratura è un’ancora di salvezza, o un sommergibile, con cui sprofondare, protetti, nel buio dell’esistenza, nel buio di noi stessi? Che, talvolta, è proprio la profondità degli abissi di un uomo a renderlo un grande autore? Non è questo che ci sta dicendo proprio Moby Dick da oltre centosettant’anni?
Senti d’un tratto bussare alla porta il Novecento, quando ti allontani da Moby Dick: quella estenuante parte sulle balene prende a parlarti, a ricordarti tutto ciò che è accaduto da quando il libro è uscito, quel sottosuolo di cui appena pochi anni dopo, e dall’altra parte del mondo, avrebbe parlato, a modo suo, Dostoevskij.
Non posso fare a meno di convincermi che – oltre alla sua straordinaria lingua, i suoi indimenticabili luoghi e personaggi – la ragione principale per cui Moby Dick arriva fino ai giorni nostri e ci accompagnerà probabilmente per qualche altro secolo è che si pone una domanda che ci assilla da sempre, che torna in questi mesi ad assillarci più che mai, e a cui probabilmente non troveremo mai una risposta: che forma ha – dove abita – il male?
Ecco cosa Melville, attraverso Ishmael e Achab, aveva intuito dell’America, dell’intero genere umano, e che oggi ci viene così violentemente risbattuto davanti agli occhi: che l’attrazione per il sangue, per l’odio, per l’orrore, è una delle più potenti energie che travolgono le nostre vite.
È, in America, una bava sanguinolenta che si srotola sulle generazioni attraverso i corpi maciullati dei nativi, le lacerazioni sulle schiene degli schiavi, gli oltre trenta milioni – sì, avete letto bene: trenta milioni – di bisonti massacrati tra il 1840 e il 1889, le budella esposte dei giovani nelle foreste del Vietnam, le membra disciolte a Hiroshima e Nagasaki, i bambini crivellati a Columbine e in tutte le decine di altre scuole, la fame per il possesso e l’uso delle armi, l’ossessione per la difesa dall’altro (in un paese dove tutti sono altri, perché chi pacificamente lo abitava è stato decimato e poi chiuso in campi di detenzione a cielo aperto, chiamati ridicolmente “riserve”). Fino, adesso, alle visioni xenofobe e suprematiste di una creatura dall’impossibile pettinatura e dalla posticcia pelle arancione. Appare incredibile come ancora noi umani non riusciamo a scorgere i contorni del male, il modo in cui torna continuamente ad ammaliarci.
Achab è convinto che il male sia Moby Dick, la balena albina che gli ha staccato la gamba a morsi. L’intero male del mondo, il male che alberga in lui e in ognuno di noi, si addensa tutto in questa creatura pallida e grinzosa. Il libro usa ogni trucco per dare alla balena le sembianze di un mostro, e Melville è talmente bravo da riuscirci quasi sempre, ma oggigiorno dobbiamo comunque sforzarci per non pensare alle immagini che abbiamo noi delle balene, alle scene dei documentari che abbiamo ammirato, al senso di colpa e di imbarazzo per il loro massacro.
Forse è stato questo a guidare la mano di Melville in quella faticosa distesa di pagine sulla baleneria: la voglia, con i mezzi che aveva a disposizione, di frugare in quell’orrore, dissezionarne e analizzarne ogni parte conosciuta, cercare asetticamente di scovarne il segreto. E mentre lo faceva – e mentre nel farlo falliva – anticipava di oltre settant’anni la fondamentale scoperta di Heisenberg e Planck e dell’intera fisica contemporanea: che più ti avvicini all’origine della vita, più ti cali negli abissi di ciò che ci costituisce, più perdi le coordinate. Che dobbiamo rassegnarci, insomma, a una certa quantità di ignoranza.
Achab sente tutta l’oscurità degli abissi addensarsi nel corpo di quella balena bianca. Be’, aveva ragione. Quando un giorno mi ci trovai vicino, a una formazione di balene, mi resi conto che non era poi un’idea così assurda. Ero su una barca, in un canale del nord del Canada, avevamo da poco traversato dalla Groenlandia. Stavo osservando lo sbuffo di qualche balena, poco lontano. Voltai lo sguardo verso il capitano, lì vicino a me. «Andiamo?», suggerii. Lui, di solito molto prudente, mi sorprese: sorrise e annuì. Montammo sul gommone, ci avvicinammo a un gruppo di sei o sette. Mentre vedevo quelle schiene apparire sul pelo dell’acqua, e di tanto in tanto qualche sbuffo, pensai proprio questo: erano come l’addensamento stesso del mare, di tutta la sua forza e la sua pace, e di tutto il suo mistero. Non ho fatto fatica, rileggendo Moby Dick, a immaginare che, roso da un’ossessione, un uomo potesse finire, quasi due secoli fa, per credere che fossero anche l’addensamento di tutti i suoi orrori, forse degli orrori dell’intero universo.
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