La crisi del governo tedesco è una crisi economica
Il licenziamento del ministro delle Finanze Lindner è stato provocato dai disaccordi su come affrontare la recessione: una storia di come siamo arrivati fin qui
di Mariasole Lisciandro
La crisi di governo in Germania, che potrebbe portare a elezioni anticipate all’inizio del prossimo anno, ha molto a che vedere con idee divergenti dei partiti al governo su come reagire alla crisi economica che ha colpito il paese negli ultimi anni. La crisi è nata quando il cancelliere Socialdemocratico Olaf Scholz ha licenziato il suo ministro delle Finanze Christian Lindner, leader dei Liberali e uno dei partner della coalizione di governo. E la ragione principale del licenziamento è stata precisamente l’impossibilità di mettersi d’accordo su come affrontare la profonda crisi economica del paese.
Mentre dopo la pandemia l’economia del resto dei paesi avanzati ha goduto di un certo slancio, quella tedesca ha a stento recuperato quanto perso nel 2020, mostrando un’evidente crisi del modello di sviluppo che negli ultimi 30 anni aveva reso la Germania la cosiddetta «locomotiva d’Europa», cioè il paese che dava impulso a tutta l’economia europea: al contrario oggi sempre più spesso se ne sente parlare come «la zavorra» dell’Unione Europea, il paese che va peggio di tutti e che rappresenta un rischio per l’intera area.
Delle difficoltà dell’economia tedesca si parla da tempo, ed è un tema che preoccupa la quasi totalità degli economisti perché oltre a essere uno dei paesi più influenti dell’Unione Europea, la Germania è anche la prima economia europea per dimensioni del PIL e la terza al mondo, con un’industria molto integrata con quelle degli altri paesi: quasi due terzi delle importazioni tedesche arrivano dai paesi europei, e il PIL tedesco conta quasi un quarto di quello dell’Unione Europea. Una recessione tedesca rischia di avere conseguenze anche nel resto dell’Unione.
Il Prodotto Interno Lordo del paese, l’indicatore che sintetizza più efficacemente l’andamento generale dell’economia, non mostra una crescita significativa dal 2021, e anzi nel 2024 si ridurrà per il secondo anno di fila. Nell’ultimo anno e mezzo gli investimenti delle aziende si sono ridotti del 12 per cento, e sono tornati ai livelli del primo periodo della pandemia, dunque quando l’incertezza aveva bloccato qualsiasi decisione di investimento. Sono in calo anche gli investimenti provenienti dall’estero, segno che dunque c’è un certo disinteresse per la Germania come paese in cui far nascere nuove aziende e fare affari.
Rispetto all’ultimo trimestre del 2019, dunque poco prima della pandemia, l’economia tedesca è cresciuta solo di qualche decimo di punto: al contrario negli Stati Uniti il PIL risulta superiore del 10 per cento, quello italiano di quasi il 6, in Francia di quasi il 4. Tra i paesi avanzati la Germania è l’unico in recessione. L’economista tedesca Isabel Schnabel, componente del comitato direttivo della Banca Centrale Europea, ha detto recentemente che la crescita dei paesi dell’Eurozona, se si esclude la Germania, dal 2021 si è rivelata «straordinariamente resiliente» e più rapida di quella di molte altre grandi economie: ma parlare dell’economia dell’Eurozona senza la Germania è come parlare dell’economia americana senza la California e il Texas.
Il che significa che la crisi tedesca ha ragioni interne, che le impediscono di fronteggiare come gli altri paesi un contesto economico e internazionale sempre più complicato. Questo ha a che fare soprattutto con l’incapacità dei governi di spendere e investire denaro nello sviluppo dell’economia, e con ragioni culturali per cui il rigore dei conti è in assoluto il primo valore da perseguire per una corretta politica economica.
La Germania è stata colpita come tutti prima dalla pandemia, e dunque dal fermo completo delle attività di produzione e consumo, e poi da tutte le ripercussioni che ne sono derivate: l’intasamento dei porti e la crisi dei commerci, la conseguente rottura delle catene di produzione internazionali a causa dell’impossibilità di trasportare materie prime e semilavorati, la scarsità di componenti essenziali come i chip, e via così. Tutto questo ha avuto conseguenze enormi per un paese industriale ed esportatore come la Germania, che si affidava al commercio con l’estero per vendere le sue merci ma anche per approvvigionarsi di tutto ciò di cui aveva bisogno per produrle.
Il tutto è stato poi peggiorato dalla guerra in Ucraina, iniziata nel 2022, che ha provocato una crisi energetica di una gravità che non si vedeva dagli anni Ottanta. L’industria tedesca è fatta perlopiù di industria cosiddetta “pesante”, di fabbriche di auto e acciaierie, di stabilimenti chimici e di cartiere: sono dunque settori altamente “energivori”, nel senso che hanno bisogno di molta energia per produrre. All’industria energivora si deve il 16 per cento di tutta la produzione dell’industria nazionale, a fronte dell’80 per cento del consumo energetico a livello industriale. Per questi settori la fine dell’approvvigionamento di gas a basso costo proveniente dalla Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, ha avuto dunque un enorme impatto sui costi, e in certi casi le aziende hanno anche preferito fermarsi invece di produrre e pagare bollette elevate: esattamente com’è successo in Italia, per esempio.
Ancora oggi l’industria tedesca non ha recuperato i livelli di prima della pandemia, e anzi continua a ridursi. Aziende importantissime sono entrate in crisi: Volkswagen, la più importante società automobilistica europea, ha annunciato la chiusura di alcuni stabilimenti per la prima volta nella sua storia; l’acciaieria Thyssenkrupp, con oltre 200 anni di storia e tra i simboli della potenza industriale tedesca, sta licenziando migliaia di dipendenti; il produttore di pneumatici Continental sta cercando di fare cassa vendendo la sua divisione per i prodotti auto; il famoso cantiere navale Meyer Werft, anch’esso in attività da più di 200 anni, ha evitato per poco la bancarotta solo grazie a un piano di salvataggio pubblico.
In Germania la crisi energetica ha poi avuto un doppio canale di trasmissione all’intera economia. Il primo è legato al fatto che il paese dipendeva molto di più degli altri paesi europei dalla Russia, e ha avuto dunque ripercussioni più serie per la decisione dell’Unione Europea di smettere di comprare gas russo come sanzione economica: non è un caso che la Germania sia stato uno dei paesi più riluttanti a imporre sanzioni. Il secondo dipende dal modello energetico tedesco, ancora largamente dipendente dalle fonti fossili e dal gas, e relativamente poco dalle fonti rinnovabili.
La crisi energetica ha messo dunque in luce una serie di debolezze strutturali nelle basi economiche del paese, che per la verità erano note già da tempo e che il governo di coalizione nato dopo la fine dell’era politica di Angela Merkel ha faticato a correggere.
La questione più importante e cruciale è sicuramente quella della transizione energetica. Il sistema tedesco è inadatto a soddisfare in modo sostenibile il fabbisogno energetico dell’industria: già prima della guerra in Ucraina l’energia tedesca era tra le più costose delle economie avanzate. Una delle questioni più rilevanti oggi per la Germania è di riuscire a garantire alle imprese energia più economica, come quella da fonti rinnovabili, in modo da preservare la loro competitività sui mercati internazionali.
In più la sua industria è ancora troppo legata a vecchi modelli e non si è mai davvero innovata e trasformata. Tutto il settore tedesco delle auto è ancora troppo legato al motore a combustione e sta ritardando le innovazioni che dovrebbero portare allo sviluppo di una produzione interamente elettrica, restando di fatto indietro a livello tecnologico e industriale soprattutto rispetto alla Cina. Questo è un problema per tutto il settore europeo delle auto, ma ancora più grave per quello tedesco: non a caso la Germania è stato uno dei paesi che più si sono opposti al divieto europeo di vendita di veicoli a benzina e diesel dal 2035.
Un’altra grande debolezza strutturale è l’enorme dipendenza del paese dalla Cina, uno dei mercati più importanti per prodotti tedeschi oltre che la principale fonte di approvvigionamento delle materie prime per l’industria. Un esempio è il modello di business di Volkswagen: non solo in Cina è concentrato il 40 per cento delle vendite, ma dalla Cina proviene buona parte dei suoi componenti: per questo la Germania è stato il paese più contrario all’imposizione di dazi europei sulle auto elettriche cinesi.
Secondo la più importante associazione dell’industria automobilistica tedesca, la VDA, nel 2023 la produzione di veicoli in Germania è stata di poco più di 4 milioni di unità, un quarto in meno rispetto al picco del 2016. Dal 2018 nel settore sono stati persi 64mila posti di lavoro – quasi l’8 per cento della forza lavoro automobilistica del paese – e altre decine di migliaia sono a rischio.
L’eccessiva dipendenza dalla Cina non è un rischio solo per il settore delle auto e per Volkswagen, azienda peraltro in gravissima crisi, ma per tutta l’industria: sia per il rallentamento dell’economia cinese, che fa calare di conseguenza le esportazioni tedesche, sia per la crescente ostilità commerciale e tecnologica dell’Occidente verso il paese, che in risposta ai dazi imposti potrebbe prima o poi decidere di interrompere le forniture industriali più strategiche.
Tutte queste difficoltà – la pandemia, la transizione energetica, la concorrenza cinese – sono le stesse che sta affrontando tutto il mondo occidentale, e che per la Germania si stanno rivelando più gravi perché ci si è trovata davanti con un sistema economico vecchio e incapace di reagire alle sfide moderne. Gran parte della responsabilità di questo ce l’ha la politica: mentre il resto del mondo fa grandi piani di investimento e spesa pubblica, anche a costo di indebitarsi, la Germania è incartata in una serie di vincoli costituzionali, politici e culturali che le impediscono sostanzialmente di fare nuovo debito.
La più importante associazione degli industriali in Germania, l’equivalente della Confindustria italiana, ha stimato che servirebbero nuovi investimenti per 1.400 miliardi di euro entro il 2030 per stimolare la competitività del sistema tedesco e far ripartire l’economia. Una soluzione simile – cioè quella di enormi investimenti per restare al passo con le grandi tendenze del mondo – è anche stata auspicata per tutta l’economia dell’Unione Europea dal recente rapporto sulla competitività elaborato da Mario Draghi, accolto con grande entusiasmo da gran parte degli esperti e dalla politica europea.
Questo la Germania non può farlo, a causa del cosiddetto “freno al debito”, un vincolo di sostanziale pareggio di bilancio inserito in Costituzione: tranne per rare eccezioni, lo stato può spendere di fatto solo quello che incassa con le tasse, e può avere un deficit, cioè un maggiore indebitamento, che ogni anno può arrivare allo 0,35 per cento del PIL, circa 15 miliardi di euro sulla base dei valori del 2023 (in Italia nel 2023 era del 7,4 per cento).
Questo vincolo diventò legge nel 2009, quando al governo c’era Angela Merkel, ed è stato sempre rispettato, sebbene con una certa flessibilità durante la pandemia: non solo è un principio ampiamente condiviso da gran parte dei partiti, ma anche dalla popolazione. Il pareggio di bilancio e un generale rigore sono principi seguiti da tutta la classe politica tedesca, e hanno condizionato decenni di politica e di ricerca economica. Hanno radici culturali molto profonde, che risiedono in un generale atteggiamento di disciplina e prudenza nella gestione finanziaria, richiamate per esempio dallo stereotipo della Schwäbische Hausfrau, la virtuosa casalinga della regione della Svevia che gestiva il bilancio di casa con parsimonia e austerità: l’espressione fu resa famosa da Merkel, che nel 2008 al congresso del suo partito disse di ispirarsi a questi princìpi nella gestione dei conti pubblici. Sono gli stessi princìpi che per anni hanno influenzato le riforme economiche dell’Unione Europea.
È una mentalità che risente anche di tutte le conseguenze negative della spesa pubblica per il riarmo della prima metà nel Novecento: la Prima guerra mondiale costò alla Germania anni di iperinflazione e povertà, ancora molto vivi nella memoria collettiva; col regime nazista poi le grosse politiche di spesa hanno assunto una connotazione evidentemente negativa, essendo servite a finanziare la guerra e l’Olocausto.
Oggi però la crisi del modello tedesco sta facendo emergere nuove sensibilità, anche nei partiti al governo. Attualmente il governo tedesco è governato da Olaf Scholz, leader dei Socialdemocratici (SPD), in coalizione con il Partito Liberale Democratico (FDP) e i Verdi. Da tempo, anche a causa di una grossa impopolarità del governo dovuta in parte alla sua incapacità di reagire alla crisi economica, i Socialdemocratici e i Verdi hanno dimostrato una certa apertura verso un maggiore indebitamento. Al contrario il Partito Liberale Democratico ha un atteggiamento molto rigido e ortodosso sulla gestione dei conti pubblici. Queste divergenze sono emerse in maniera marcata negli ultimi giorni, nell’ambito della discussione sulla prossima legge di bilancio per il 2025: il ministro delle Finanze Christian Lindner, leader dei Liberali, è stato licenziato, e probabilmente il governo perderà una parte consistente dell’appoggio parlamentare.
Non si sa fino a che punto le difficoltà tedesche condizioneranno le economie degli altri paesi europei. La Germania è il più importante partner commerciale per più della metà dei paesi membri. Per l’Italia è il primo mercato di destinazione delle esportazioni e primo paese fornitore: nel 2023 le ha venduto merci per circa 74 miliardi di euro e ne ha importate per quasi 90 miliardi. Un calo persistente dei consumi in Germania potrebbe quindi nuocere molto alle aziende esportatrici italiane: nel 2023 i consumi tedeschi si sono ridotti dello 0,8 per cento rispetto all’anno prima e sono ancora inferiori dell’1,5 per cento rispetto al 2019, prima della pandemia da coronavirus. Nel 2023 le esportazioni italiane in Germania sono calate del 3,6 per cento, e nei primi sette mesi del 2024 di un ulteriore 5,6 per cento.
Oltre che dai consumi, l’integrazione economica tra i paesi europei e la Germania passa anche per l’industria. Questi legami sono particolarmente evidenti nel settore delle auto: l’Italia fornisce alla Germania ogni anno tra i 4 e i 5 miliardi di euro di componenti per il settore delle auto, cioè un quinto di tutte le esportazioni italiane di componentistica nel mondo.
Un calo persistente della produzione industriale tedesca significherebbe per le aziende europee consistenti cali di ordini. Una tendenza del genere si è già osservata in parte già sui dati sulla produzione industriale europea, molto più bassa dei livelli di inizio 2023. La produzione industriale italiana allo stesso modo non se la sta passando bene ed è ai minimi dalla pandemia: parte del problema è proprio la Germania.
– Ascolta Globo: La Germania non vuole spendere, con Tonia Mastrobuoni