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  • Venerdì 8 novembre 2024

Lo studio che smentisce molte delle cose che pensavamo dei calchi di Pompei

Per esempio due individui che si pensa siano morti abbracciati non sono parenti, stando all’esame del DNA

Uno dei calchi del Parco Archeologico di Pompei (ANSA/CESARE ABBATE)
Uno dei calchi del Parco Archeologico di Pompei (ANSA/CESARE ABBATE)
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Sulla rivista scientifica Current Biology sono stati pubblicati i risultati di uno studio eseguito su alcuni frammenti di scheletro che si trovavano nel sito archeologico di Pompei. Lo studio ha portato al sequenziamento del DNA di 14 persone morte nell’eruzione del 79 dopo Cristo che sommerse l’intera città romana e la distrusse. Sostiene che le interpretazioni, spesso romantiche, date finora ad alcuni di questi resti soprattutto in base alla posizione in cui erano stati ritrovati o agli accessori che avevano addosso sono sbagliate.

Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori e scienziati di varie università tra cui l’Università di Firenze, l’Università di Harvard e il Max Planck Institute di Lipsia. Ha preso in esame il DNA estratto dai frammenti ossei della dimensione di granelli di 14 calchi quando erano in fase di restauro. Quando si parla di Pompei non è esatto parlare di corpi, ma di calchi. Nello strato di lapilli e cenere indurita che seppellì la città si sono infatti creati dei vuoti, causati dalla decomposizione di sostanze organiche: di elementi in legno, come mobili, ma anche di corpi. All’inizio del XIX secolo ci si rese conto dell’importanza di questi “vuoti”. Giuseppe Fiorelli, primo direttore ad aprire al pubblico nel 1861 il sito archeologico di Pompei, perfezionò infatti la tecnica dei calchi versando nei vuoti, come fossero stampi, una miscela di gesso e acqua. L’impronta di gesso solidificato ha riprodotto in modo esatto volume, fattezze, posizione, forma dei corpi o degli oggetti rimasti nella cenere. In alcuni casi questi calchi includono piccolissime parti che non si sono decomposte, come ad esempio frammenti ossei o oggetti in metallo che quel corpo aveva addosso o stava portando con sé.

Lo studio ha ricavato il DNA dal materiale scheletrico incorporato in 14 calchi, ma solo per cinque di questi è stato possibile ricavare informazioni sufficienti su relazioni genetiche, sesso e ascendenza.

La prima scoperta è che nella maggior parte dei casi studiati il sesso e le relazioni familiari di alcuni individui sepolti a Pompei non corrispondono all’interpretazione che se ne era data finora, e che era basata soprattutto sulla posizione in cui sono stati trovati.

Ad esempio, nella Casa del Bracciale d’Oro sono stati trovati quattro individui spesso raccontati come una famiglia. Uno di loro è una persona adulta che indossa un bracciale d’oro ed è stata tradizionalmente interpretata come la madre del bambino che ha seduto sulla pancia. Dallo studio del suo DNA è risultato però che si tratta di un maschio adulto, che aveva capelli e pelle nera, e che non aveva alcun legame biologico con il bambino.

Calchi n.50-51-52 dalla Casa del Bracciale d’Oro di Pompei (Foto Parco Archeologico di Pompei)

Dei due individui che si pensava fossero morti in un abbraccio e che spesso sono stati interpretati come due sorelle o come una madre e una figlia, almeno uno è un maschio e tra loro non c’è alcuna relazione genetica.

Calchi n.21 e n.22 dalla Casa del Criptoportico di Pompei (Foto Parco Archeologico di Pompei)

L’analisi ha invece confermato altre interpretazioni: l’individuo trovato da solo in una stanza all’interno di un grande edificio noto come Villa dei Misteri era effettivamente di sesso maschile, come si pensava in precedenza.

David Caramelli, docente di Antropologia all’Università di Firenze, ha detto che lo studio «dimostra quanto l’analisi genetica possa arricchire notevolmente narrazioni elaborate sulla base di dati archeologici. Queste scoperte sfidano interpretazioni di lunga data, come l’associazione dei gioielli alla femminilità o l’interpretazione della vicinanza fisica come indicatore di relazioni biologiche. Ugualmente i dati genetici complicano le semplici narrazioni di parentela: nella Casa del Bracciale d’Oro, che è l’unico sito per il quale abbiamo dati genetici di più individui, i quattro individui comunemente interpretati come genitori e i loro due figli in realtà non sono geneticamente imparentati». Lo studio dimostra insomma «che i sessi e le relazioni familiari degli individui non corrispondono alle interpretazioni tradizionali, confermando come le ipotesi moderne sui comportamenti di genere potrebbero non essere lenti affidabili attraverso cui guardare i dati del passato».

Alissa Mittnik, del Max Planck di Lipsia, ha a sua volta detto che i risultati dello studio «hanno implicazioni significative per l’interpretazione dei dati archeologici e la comprensione delle società antiche. Evidenziano l’importanza di integrare i dati genetici con le informazioni archeologiche e storiche per evitare interpretazioni errate basate su ipotesi moderne».

Lo studio rappresenta anche un primo importante passo per ricostruire il patrimonio genetico della popolazione pompeiana dell’epoca. I dati ottenuti finora suggeriscono ad esempio che le persone studiate discendevano principalmente da recenti immigrati dal Mediterraneo Orientale e che a Pompei, nel I secolo, ci fossero dunque abitanti provenienti da tutte le province dell’Impero romano. La ricerca, ha spiegato l’archeologo Phil Perkins, «dimostra che l’analisi scientifica può fornire una nuova visione delle vite delle vittime di Pompei e ulteriori prove della mobilità umana nel Mediterraneo nel periodo romano».

Nello studio si cita anche l’ipotesi che in passato «lo sfruttamento dei calchi come veicoli per la narrazione» abbia portato i restauratori a manipolare le loro pose e il loro posizionamento.