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  • Venerdì 8 novembre 2024

Cosa ha sbagliato Kamala Harris

Non si è allontanata abbastanza da Biden, non ha avuto tempo per la campagna elettorale e ha fatto alcuni errori comunicativi, tra le altre cose

Kamala Harris prima di un comizio a Philadelphia, in Pennsylvania (AP Photo/Jacquelyn Martin)
Kamala Harris prima di un comizio a Philadelphia, in Pennsylvania (AP Photo/Jacquelyn Martin)
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In seguito al risultato delle elezioni presidenziali statunitensi di martedì, nel Partito Democratico ci si è iniziati a chiedere dove abbia sbagliato Kamala Harris. Non c’è una risposta certa e nemmeno una sola risposta possibile: si possono fare alcune considerazioni sulla base di quello che è successo durante la campagna elettorale, dei risultati e delle analisi proposte finora sul voto.

Una prima risposta ha a che fare con il presidente in carica Joe Biden, che ha 81 anni ed è parecchio impopolare. Harris, che è la vicepresidente, era diventata la candidata del Partito Democratico solo dopo il ritiro di Biden, lo scorso 21 luglio: durante la sua breve campagna elettorale non è riuscita a discostarsi in modo convincente da quella che è anche la sua amministrazione, finendo per essere associata ad alcune scelte politiche deludenti di Biden.

In un’intervista con il programma televisivo The View di inizio ottobre, quando le è stato chiesto se c’era qualcosa su cui avrebbe preso decisioni diverse rispetto a quelle di Biden, ha risposto: «Non mi viene in mente nulla». Lo scambio è stato molto sfruttato dal Partito Repubblicano, che l’ha usato in diversi spot elettorali per presentare Harris come completamente allineata all’impopolare Biden.

L’associazione a Biden è stata controproducente per Harris soprattutto su due temi che sono stati al centro dell’intera campagna elettorale: l’economia e l’immigrazione. Durante il mandato di Biden l’economia statunitense ha ottenuto risultati eccellenti in termini di crescita del PIL, ma ha anche attraversato un periodo di forte inflazione, ossia un aumento generale dei prezzi che è stato percepito molto negativamente dagli americani. Negli ultimi mesi la situazione è molto migliorata, ma il presidente non è mai riuscito a comunicare questo messaggio e a sfruttare a suo favore i dati positivi sulla riduzione dell’inflazione e sull’aumento dei posti di lavoro: nella percezione di moltissime persone Biden è rimasto associato a una cattiva gestione dell’economia, e di conseguenza anche Harris.

Joe Biden e Kamala Harris (AP Photo/Jacquelyn Martin)

Durante i primi mesi del suo mandato inoltre Biden dovette fare i conti con una crisi causata dall’aumento dei flussi migratori: negli ultimi anni (e anche di recente) ha adottato misure più restrittive, ma non è mai riuscito a presentarsi come sufficientemente deciso su questo tema. Tra l’altro, nel marzo del 2021 Biden incaricò proprio Harris di occuparsi delle cause che spingono le persone migranti a partire dai paesi dell’America Centrale, come l’Honduras ed El Salvador, per andare negli Stati Uniti. Era un incarico molto delicato e sul quale era difficile ottenere risultati soddisfacenti, dato che è impossibile risolvere i problemi dell’America Centrale nel giro di quattro anni.

Harris non doveva occuparsi direttamente di gestire gli arrivi di migranti irregolari negli Stati Uniti, ma i Repubblicani hanno sfruttato questa diffusa incomprensione a loro vantaggio per definire Harris come “czar del confine”, un titolo informale che deriva dalla parola russa zar e nel gergo politico americano indica il funzionario che ha il controllo su una certa questione.

Harris, insomma, non è riuscita a presentarsi come la candidata del cambiamento politico in una competizione che per mesi era stata tra due uomini bianchi, entrambi ben oltre i 70 anni e con un mandato già alle spalle. «Abbiamo fatto la campagna migliore che potessimo, considerato che Joe Biden era presidente», ha dettoPolitico una persona del comitato elettorale di Harris rimasta anonima. «Joe Biden è la singola ragione per la quale Harris e i Democratici hanno perso».

Come ha notato l’opinionista del New York Times Ezra Klein, in generale Harris era in una posizione particolarmente scomoda: non era la presidente uscente, e quindi non aveva una serie di decisioni e misure di successo da presentare agli elettori; ma non era nemmeno una candidata esterna all’amministrazione, cosa che le ha impedito di promettere grandi cambiamenti o almeno una netta discontinuità con il passato.

Harris ha anche dovuto fare una campagna elettorale molto breve: ha avuto a disposizione poco più di 100 giorni, da fine luglio a inizio novembre, mentre normalmente i candidati alla presidenza iniziano a organizzarsi e farsi conoscere anni prima del giorno delle elezioni. Per questo ha dovuto crearsi un team in grande fretta, ereditando in buona parte quello di Biden, e non ha avuto tempo di studiare una strategia comunicativa né di produrre un insieme coerente di proposte.

Il volto di Harris sulla “Sphere” di Las Vegas (Ethan Miller/Getty Images)

Anche in questo caso c’entra Biden, che secondo molti osservatori avrebbe dovuto ritirarsi prima per lasciare spazio a un o una candidata più giovane e con più possibilità di vincere. La vicenda della candidatura e poi del ritiro di Biden hanno mostrato inoltre come il Partito Democratico, benché i suoi membri fossero ben consapevoli della fragilità politica di Biden, fino all’ultimo non abbia avuto la forza di contraddirlo. Quando Biden annunciò l’intenzione di ricandidarsi, ad aprile del 2023, nessun esponente del partito provò davvero a contestare la sua decisione: vinse agilmente le primarie, alle quali non si candidò alcun oppositore con qualche speranza di vittoria. Dopo il suo ritiro si parlò brevemente della possibilità di tenere delle specie di brevi primarie o almeno di avviare una discussione su chi dovesse essere il suo successore: Biden però indicò subito Harris, bloccando sul nascere la questione.

Nonostante le varie difficoltà dovute anche ai tempi stretti, la campagna elettorale di Harris era partita bene: nelle prime settimane c’era entusiasmo per il ritiro di Biden e Harris era inizialmente riuscita a impostare uno stile comunicativo basato sull’ottimismo, usando bene i social media. Aveva anche colto impreparato il Partito Repubblicano e Trump, che fino a quel momento aveva impostato tutta la sua campagna elettorale intorno ai punti deboli di Biden.

Dopo lo slancio iniziale, alcune strategie adottate da Harris e dai suoi collaboratori sono state criticate. Tra le altre cose, per circa un mese Harris non ha dato interviste, e anche dopo ha parlato principalmente con media progressisti (con qualche eccezione: ha fatto anche un’intervista con Fox News). In questo modo «ha permesso al Partito Repubblicano di definirla», ha detto alla rivista Time un funzionario del Partito Democratico rimasto anonimo. «Avrebbe potuto […] raggiungere gli elettori di ogni orientamento politico, ma inspiegabilmente lei e Tim Walz si sono nascosti e non hanno fatto interviste per settimane».

Anche la scelta di Tim Walz come candidato vicepresidente non sembra aver portato a Harris i vantaggi che sperava: Walz si era presentato inizialmente come un eccellente comunicatore capace di rassicurare l’elettorato bianco e moderato del Partito Democratico, ma ha rapidamente perso efficacia e visibilità.

Nell’ultimo periodo di campagna Harris aveva cambiato approccio: aveva iniziato ad adottare toni più cupi, presentando Trump come un pericolo per la democrazia e per le istituzioni statunitensi. Sono gli stessi argomenti che usava Biden mesi prima, ma non è chiaro quanto davvero facciano presa sull’elettorato e soprattutto su quel segmento di persone che fino all’ultimo sono state indecise sul candidato per cui votare.

Kamala Harris prima del discorso con cui ha riconosciuto la vittoria di Donald Trump, il 6 novembre (AP Photo/Stephanie Scarbrough)

Harris è stata criticata anche per alcune proposte e convinzioni espresse durante la campagna per le primarie del Partito Democratico del 2019, dalle quali si ritirò piuttosto presto. In quegli anni tutto il partito si era spostato a sinistra, in parte per rispondere alle posizioni di estrema destra di Trump, che era presidente, e in parte per seguire una parte di elettorato sempre più identitaria.

Harris, per esempio, aveva detto di essere contraria al fracking (una tecnica di fratturazione idraulica usata per estrarre idrocarburi, che è dannosa per l’ambiente ma ha contribuito all’espansione dell’industria estrattiva americana e ha creato molti posti di lavoro), e favorevole a decriminalizzare gli ingressi illegali di persone migranti negli Stati Uniti. Ha poi cambiato idea su entrambi i temi, ma durante la campagna elettorale per le presidenziali non è riuscita a spiegare perché: «I miei valori non sono cambiati», si è limitata a rispondere durante un’intervista con CNN, in modo poco convincente.

I risultati delle presidenziali e la distribuzione del voto nelle varie fasce demografiche indicano però che la sconfitta di Harris non è attribuibile a un solo fattore o a una singola scelta sbagliata, ma più probabilmente a un insieme di scelte e tendenze che interessano non solo Harris ma tutto il Partito Democratico.

– Leggi anche: Trump è andato molto forte anche fra le minoranze etniche

Harris ha perso in tutti i sette stati in bilico, dove secondo i sondaggi lei e Trump erano molti vicini, e ha ottenuto risultati deludenti anche in stati solidamente Democratici: ha vinto di 12 punti percentuali nello stato di New York, dove nel 2020 Biden aveva vinto con più di 23 punti di distacco. In New Jersey ha vinto con 5 punti di vantaggio, contro i 16 che ebbe Biden quattro anni fa.

Ha ottenuto risultati poco soddisfacenti anche tra le donne, che erano di gran lunga il gruppo demografico su cui contava di più e che sperava di mobilitare a suo vantaggio puntando soprattutto sulla necessità di tutelare il diritto all’aborto. Secondo gli exit poll ha votato per Harris il 53 per cento delle donne, mentre nel 2020 aveva votato per Biden il 57 per cento. È andata molto male anche tra i latinoamericani: il 52 per cento di questi elettori ha votato per lei, un calo di 13 punti percentuali rispetto al risultato ottenuto da Biden nel 2020. Al contrario, l’elettorato Repubblicano che ha votato per Trump è stato il più eterogeneo da molti anni a questa parte.

Un cartello con la foto di Kamala Harris (Brandon Bell/Getty Images)

L’allontanamento delle minoranze dal Partito Democratico era iniziato ben prima della candidatura di Harris. I motivi sono molteplici e in parte indipendenti dai singoli candidati: c’entra il fatto che la società statunitense è in rapido cambiamento, tanto che continuare a ipotizzare le tendenze di voto di una persona in base a una sua singola caratteristica (che può essere l’appartenenza etnica, l’età o il genere) porta sempre più spesso a generalizzazioni fuorvianti.

Molti si sono chiesti se il fatto che Harris sia una donna possa avere influito sul risultato elettorale. È troppo presto per avere una risposta, che comunque sarebbe inevitabilmente complessa e sfaccettata. Guardando ai dati oggettivi, è vero che durante la campagna elettorale Harris non ha mai cercato di presentare l’elezione come un confronto tra un uomo e una donna: non ha sfruttato il suo genere, preferendo concentrarsi su altri temi, come appunto la difesa del diritto all’aborto e dei valori democratici.

È la strategia opposta a quella adottata nel 2016 dall’allora candidata Democratica Hillary Clinton, che invece aveva puntato molto sul fatto di poter realisticamente diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti (uno dei suoi slogan era “I’m with her”, ossia “sto con lei”). Anche in quel caso però Clinton aveva perso contro Trump.