Come andò all’Italia coi dazi di Trump
Nel 2018 e nel 2019 il governo le provò tutte per limitare i danni delle politiche protezionistiche statunitensi
Durante la campagna elettorale Donald Trump aveva più volte annunciato l’intenzione di alzare i dazi sui prodotti importati negli Stati Uniti in maniera considerevole: fino al 60 per cento per i prodotti cinesi e fino al 20 per quelli del resto del mondo, tra cui verosimilmente anche quelli europei. È una delle conseguenze che la sua vittoria alle elezioni presidenziali statunitensi potrebbe avere sull’economia italiana ed europea, anche se è ancora presto per capire se davvero questo programma verrà attuato, e in che forma.
Tuttavia è indubbio che una simile politica doganale danneggerebbe in maniera significativa i paesi esportatori che commerciano molto con gli Stati Uniti, e tra questi c’è appunto l’Italia. Facendo previsioni un po’ approssimative e premature, c’è chi teme una ricaduta di vari miliardi all’anno per il sistema produttivo italiano. Per provare a capire meglio cosa potrebbe succedere, quindi, si può guardare a ciò che successe in passato, visto che non è la prima volta che Trump guida il paese: durante il suo primo mandato approvò pesanti dazi contro la Cina ma anche contro l’Unione Europea. Avvenne in maniera un po’ caotica tra il 2018 e il 2019 e, per quel che riguarda l’Italia, a essere interessati dai dazi furono soprattutto i prodotti agroalimentari e in particolare i formaggi.
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Ci fu bisogno di un notevole sforzo diplomatico per ottenere che l’amministrazione di Trump attenuasse le misure protezionistiche nei confronti dell’Italia. E fu uno sforzo che ebbe in parte dei risultati, nel senso che l’Italia fu colpita meno di altri paesi europei.
Alessandro Terzulli, il capo economista di SACE, la società controllata dal ministero dell’Economia che aiuta le imprese italiane a investire all’estero, dice che «quei due anni produssero un effetto relativamente limitato sull’export italiano negli Stati Uniti». Ma è difficile quantificare con esattezza quell’effetto, perché è un calcolo aleatorio (come facciamo a sapere con certezza che senza quei dazi le imprese italiane e i consumatori americani si sarebbero comportati in un certo modo o in un altro?) e per via dello stravolgimento dei commerci provocato dal Covid. Fonti del ministero degli Esteri parlano di «pochi miliardi, tra i due e i cinque», su un volume di beni esportati negli Stati Uniti di circa 44 miliardi.
Per l’Italia la relazione commerciale con gli Stati Uniti è irrinunciabile. Nel 2023, l’ultimo anno per cui si abbiano i dati completi di SACE, le imprese italiane hanno esportato beni per 67,3 miliardi, a fronte di un interscambio complessivo di 92,4 miliardi. Significa che l’Italia esporta circa 2,7 volte quello che importa, ed è proprio questo che induce Trump a predicare la necessità di riequilibrare la bilancia commerciale (cioè, in sostanza, di importare di meno dai paesi stranieri). Se gli Stati Uniti nel 2023 sono stati il secondo partner commerciale italiano, dopo la Germania e prima della Francia, l’Italia è stata il sedicesimo mercato di destinazione per gli Stati Uniti.
Il dato del 2023 è positivo: c’è stata infatti una crescita delle esportazioni negli Stati Uniti del 3,4 per cento, ben sopra la media dei valori totali di export italiani, per cui l’aumento è stato pressoché nullo. I settori più importanti sono stati la meccanica strumentale (cioè la produzione di macchinari necessari per l’industria), che ha rappresentato il 20 per cento del volume totale (con una crescita del 7,6 per cento); i mezzi di trasporto (auto, ma anche imbarcazioni e aerei), che è il 15; e la chimica e la farmaceutica, che è il 16 per cento. Sono andati meno bene, invece, le bevande e i cibi, il tessile e l’abbigliamento.
Sul 2024 si hanno i dati relativi ai primi nove mesi: a settembre il volume di esportazioni è risultato in calo dell’1,7 per cento rispetto al settembre del 2023. «Ma questo dato è frutto di forti oscillazioni: nel complesso, riteniamo ancora possibile chiudere il 2024 in sostanziale equilibrio, se non in lieve miglioramento, rispetto al 2023», dice Terzulli.
È dunque questo lo stato delle cose su cui le scelte di Trump potrebbero avere un impatto. «Un impatto contenuto nel breve termine», precisa Terzulli. «Considerando che l’insediamento ufficiale alla Casa Bianca ci sarà a gennaio, che l’attuazione effettiva delle misure promesse richiederà del tempo e forse dei compromessi e che queste misure non dispiegheranno immediatamente i loro effetti, sul 2025 l’effetto potrebbe essere trascurabile, e dunque le previsioni che in SACE abbiamo fatto a giugno, e che prevedono un aumento dell’export del 4,6 per cento rispetto al 2024, potrebbero restare valide». C’è più incertezza sul 2026: le stime in quel caso sono piuttosto a rischio. «Abbiamo teoricamente previsto una crescita del 3,5 per cento nell’era pre-Trump e come SACE monitoriamo costantemente tutti gli accadimenti geopolitici e gli effetti che potrebbero avere per rivedere le stime».
È inevitabile che, se così sarà, le imprese italiane ne risentiranno, anche per via di un effetto indiretto. L’innalzamento dei dazi esistenti e l’imposizione di nuovi da parte di Trump innescheranno ritorsioni da parte di altri paesi, che a loro volta porteranno a una contrazione generale degli scambi. In generale, le previsioni di vari istituti internazionali che anche SACE condivide parlano di un sostanziale dimezzamento del volume di commercio internazionale nel corso del quadriennio di Trump alla Casa Bianca: sarebbe un impatto nel complesso più consistente di quello avuto dai dazi imposti da Trump nel suo primo mandato.
Anche all’epoca l’obiettivo prioritario di Trump era ridurre le importazioni dalla Cina, che peraltro violava apertamente le regole dell’Organizzazione mondale del Commercio (WTO), ma al dunque la politica protezionistica si applicò anche all’Europa. In una prima fase, all’inizio del 2018, i dazi furono applicati su alluminio e acciaio. L’Italia, che pure fu colpita da queste misure, non ne risentì granché. Anzi, riuscì perfino a beneficiarne un po’, sostituendosi in parte ad alcuni fornitori asiatici e ad aumentare il volume di esportazione di questi prodotti, visto che nel frattempo negli Stati Uniti non erano riusciti a rimpiazzare le minori importazioni con produzione nazionale.
Il grosso delle sanzioni contro l’Europa (e contro l’Italia) fu però introdotto a partire dall’autunno del 2019, in seguito a un annoso contenzioso legale tra Boeing e Airbus, i due principali produttori di aerei americani ed europei. Gli Stati Uniti sostenevano da tempo che gli aiuti economici che l’Unione Europea riconosceva ad Airbus – un consorzio francese, tedesco, britannico e spagnolo attivo nel settore dell’aerospazio – fossero una violazione della concorrenza che alterava il libero mercato e danneggiava Boeing. Trump si intestò questa battaglia e non appena il WTO stabilì che gli aiuti europei ad Airbus fossero illeciti, nell’ottobre del 2019, ne approfittò per imporre nuovi dazi ai paesi europei per circa 7,5 miliardi di dollari. Lo fece senza attendere un’altra sentenza del WTO per certi versi complementare, che nel 2019 riconobbe come parzialmente illeciti anche gli aiuti di Stato ricevuti da Boeing, dando così la possibilità all’Unione di approvare a sua volta nuovi dazi nei confronti degli Stati Uniti.
Nella contesa che ne seguì fu coinvolta anche l’Italia. L’amministrazione di Trump fece elenchi di prodotti su cui le tariffe doganali sarebbero aumentate tra il 15 e il 40 per cento, tra cui anche molti prodotti agroalimentari italiani. Il governo di centrosinistra guidato da Giuseppe Conte si attivò per cercare di attenuare l’effetto di questi dazi. Anzitutto spiegando al governo americano che l’Italia non faceva parte del consorzio Airbus, e che dunque non era opportuno coinvolgerla.
Le risposte che il governo di Trump dette al ministero degli Esteri italiano furono ambigue e confuse. Prima gli americani ammisero di non aver tenuto conto di questo aspetto; poi aggiunsero però che sarebbe stato impensabile escludere solo l’Italia dal gruppo dei grandi paesi europei interessati dai dazi, al tempo stesso promettendo un trattamento di favore (le sanzioni sull’olio spagnolo, per esempio, favorirono le esportazioni di quello italiano, non interessato dalle misure di Trump). Infine, si capì che alla base dell’ostilità americana nei confronti italiani c’era l’atteggiamento per certi aspetti troppo morbido che l’Italia teneva nei confronti della Cina.
Nel marzo del 2019 l’Italia aveva firmato il memorandum della Via della Seta: un accordo commerciale che però aveva anche un valore politico, dal momento che l’Italia era l’unico paese del G7 e il primo tra i paesi fondatori dell’Unione Europea a definire questa intesa con il principale avversario degli Stati Uniti. Questa vicinanza alla Cina era motivo di diffidenza e di ostilità da parte dell’amministrazione di Trump. E dunque, neppure troppo indirettamente, includere l’Italia tra i paesi europei interessati dai dazi fu anche una forma di ritorsione e di pressione diplomatica da parte statunitense.
A quel punto la diplomazia italiana dovette muoversi in maniera più sotterranea. Tra i vari tentativi di lobbying messi in pratica ce ne fu uno notevole che riguardò il parmigiano.
Il ministero degli Esteri, tramite il sottosegretario Ivan Scalfarotto, e l’ambasciata italiana a Washington, guidata da Armando Varricchio, organizzarono vari incontri con Robert Lighthizer, il rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, per evitare l’innalzamento ulteriore dei dazi sul parmigiano, dal 25 al 40 per cento. L’ambasciata contattò vari senatori e rappresentanti del Congresso italoamericani, in carica e non, che a loro volta promossero una petizione che coinvolse anche molti commercianti e consumatori con origini italiane, che sarebbero stati anche loro danneggiati dall’aumento dei dazi come i produttori italiani. Alla fine, non senza difficoltà, anche questa operazione di sensibilizzazione contribuì a evitare che i dazi sul parmigiano aumentassero.
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Sui singoli prodotti la politica protezionistica di Trump fece qualche guaio, ma in ogni caso dal 2012 le esportazioni dell’Italia negli Stati Uniti aumentano ogni anno. Non hanno fatto eccezione neppure il 2018 e il 2019 né il 2020, anche se in quel caso i tassi di crescita sono stati leggermente più contenuti che nel periodo immediatamente precedente. Se nel 2017, stando ai dati forniti da SACE, le esportazioni erano cresciute del 9,6 per cento, nel 2018 l’aumento fu del 4,9, e nel 2019 del 7,4 per cento.
Nel 2020 diminuirono del 6,8 per cento, ma principalmente per effetto del Covid, che del resto causò un calo dell’interscambio commerciale dell’8,5 per cento. Ma già nei primi sei mesi del 2021, quando le misure di alleggerimento dei dazi volute dal nuovo presidente Joe Biden non avevano ancora dispiegato davvero i loro effetti, le esportazioni tornarono a salire del 15,1 per cento rispetto al primo semestre del 2020. E alla fine del 2021 la crescita calcolata da SACE fu del 16,3 per cento.
Insomma, i danni subiti dalle imprese italiane per le politiche protezionistiche del primo governo Trump furono tutto sommato contenute. «Ci fu sicuramente un deterioramento della fiducia degli operatori di mercato, e questo ha avuto un impatto negativo sul nostro export», dice ancora Terzulli. «Ma non per questo gli Stati Uniti hanno smesso di essere un mercato quanto mai prezioso e attrattivo per gli imprenditori italiani».