Come la vittoria di Trump sta già condizionando la politica italiana

Sulla questione ucraina, che divide Giorgia Meloni e Matteo Salvini, e sugli approcci in politica estera di Elly Schlein e Giuseppe Conte

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella viene ricevuto da Donald Trump alla Casa Bianca, il 16 dicembre 2019 (Francesco Ammendola/LaPresse)
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella viene ricevuto da Donald Trump alla Casa Bianca, il 16 dicembre 2019 (Francesco Ammendola/LaPresse)
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Come succede sempre, l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi avrà anche ripercussioni sulla politica italiana. La netta vittoria di Donald Trump condizionerà in una certa misura le scelte e gli orientamenti dei partiti, sia al governo sia all’opposizione, e in parte lo sta già facendo. Alcune di queste ripercussioni sono scontate, e si intravedono nelle prime reazioni che i principali leader politici hanno mostrato; altre sono più incerte, e hanno a che vedere con le scelte economiche e diplomatiche che il nuovo presidente degli Stati Uniti eventualmente prenderà.

Di certo nella destra ci sarà una rinnovata tendenza a utilizzare toni forti sui temi più identitari, soprattutto sull’immigrazione. È anche probabile un ripensamento delle politiche di sostegno militare all’Ucraina, così come un riposizionamento del governo di Giorgia Meloni in Europa, nella speranza di rendere l’Italia la principale interlocutrice europea degli Stati Uniti. Nelle opposizioni, invece, la storica e mai rinnegata simpatia di Giuseppe Conte nei confronti di Trump avrà verosimilmente l’effetto di allontanare ancora di più il Movimento 5 Stelle dal Partito Democratico sul fronte della politica estera, e non solo.

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Ci sono poi almeno due prevedibili conseguenze sul piano economico. Una riguarda il probabile aumento dei dazi doganali, stando agli annunci fatti da Trump in campagna elettorale, che renderà più complicate le esportazioni da parte delle imprese italiane, con ricadute negative sul prodotto interno lordo (PIL); l’altra ha a che vedere con la pressante richiesta fatta più volte da Trump ai paesi membri della NATO di aumentare la spesa per il settore della Difesa fino ad almeno il 2 per cento del PIL, un obiettivo che per l’Italia resta lontano e che richiederà investimenti onerosi nell’immediato futuro.

Come era facilmente prevedibile, il primo a commentare la vittoria di Trump in Italia è stato il leader della Lega Matteo Salvini, che lo ha fatto con grande entusiasmo e rivendicando, con toni vagamente polemici verso Meloni e Antonio Tajani, il fatto di essere stato l’unico nella coalizione di destra a non nascondere in tutti questi mesi la sua netta preferenza per il candidato Repubblicano. Nonostante in passato Trump abbia dimostrato di non corrispondere affatto la stima di Salvini nei suoi confronti, ora Salvini avrà gioco per rilanciare in Italia alcune istanze identitarie del suo partito, proprio in virtù dell’esito delle elezioni statunitensi.

Già nelle prime dichiarazioni fatte mercoledì mattina, Salvini ha esasperato i messaggi sulla necessità di rafforzare la «lotta all’immigrazione clandestina» e al «politicamente corretto», è tornato a criticare con durezza la Commissione Europea di Ursula von der Leyen e ha auspicato una rapida conclusione delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Insomma, a Salvini la vittoria di Trump offre una nuova occasione di spostarsi, sia pure solo strumentalmente, ancora più a destra, provando così a insidiare uno spazio tradizionalmente occupato da Fratelli d’Italia e a contendere a Meloni il suo elettorato più radicale.

Il ruolo di capo del governo impone a Meloni una maggiore cautela nei commenti e negli atteggiamenti. Di certo le idee di Trump, anche quelle più estreme, sono in sostanziale sintonia coi temi su cui Fratelli d’Italia ha fatto propaganda per anni, ma Meloni in questi ultimi tempi ha cercato e ottenuto buoni rapporti di collaborazione con l’amministrazione Democratica di Joe Biden. E proprio l’impegno che le ha garantito la vicinanza e la protezione di Biden, cioè il pieno sostegno alla resistenza ucraina contro l’aggressione russa, è forse adesso quello che rischia di essere più delicato e controverso per lei.

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Trump non ha mai nascosto la sua diffidenza nei confronti di Zelensky né la sua vicinanza umana a Vladimir Putin, e ha contestato duramente l’approccio seguito da Biden: i Repubblicani, spinti proprio dai più trumpiani del partito, hanno anzi più volte rallentato o boicottato i lavori del Congresso quando ha dovuto approvare l’invio di armi all’Ucraina. Per Meloni si apre dunque una nuova fase in cui, senza rinnegare quanto finora detto e fatto per Zelensky, dovrà probabilmente ricalibrare le sue scelte sulla base della linea che Trump deciderà di seguire. Il tutto mentre la Lega la incalzerà – come ha già iniziato a fare – per sospendere il sostegno militare all’Ucraina: e se finora per Meloni è stato abbastanza facile contenere il “pacifismo” della Lega e di Salvini su questo tema, ora le cose potrebbero cambiare. «Con la vittoria di Trump speriamo sia finalmente possibile iniziare a parlare di pace possibile e non soltanto di pace giusta», dice il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo.

Sempre sul piano diplomatico, Meloni sembra intenzionata a seguire un atteggiamento che i suoi più stretti collaboratori, pronosticando una vittoria di Trump, auspicavano già nelle scorse settimane. E cioè distanziarsi dalla tradizionale alleanza europea tra Francia e Germania, e proporre l’Italia come una sorta di “testa di ponte” tra gli Stati Uniti e l’Europa. È un po’ quello che cerca di fare da tempo il primo ministro ungherese Viktor Orbán, e che secondo i consiglieri politici di Meloni lei potrebbe fare meglio, forte del maggior prestigio dell’Italia rispetto all’Ungheria.

Il messaggio con cui Meloni si è congratulata con Trump mercoledì mattina contiene già alcuni indizi significativi, quando scrive – senza alcun accenno all’Unione Europea – che «Italia e Stati Uniti sono Nazioni “sorelle”», dicendosi certa che questo «legame strategico» ora potrà essere ancor più rafforzato. Proprio mentre il presidente francese Emmanuel Macron annunciava di aver parlato col cancelliere tedesco Olaf Scholz a proposito del lavoro che attende l’Unione nella nuova fase politica che si apre con la vittoria di Trump.

Non sarebbe un approccio inedito per l’Italia, questo. Già all’epoca del governo sostenuto da Lega e M5S, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte cercò di accreditarsi come controparte europea dell’amministrazione Trump, anche ponendosi in aperto contrasto con l’Unione Europea. Tra il 2018 e il 2019 più volte Trump incoraggiò l’Italia a uscirne, seguendo l’esempio del Regno Unito, e ne parlò perfino col presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando lo ricevette alla Casa Bianca, nell’ottobre del 2019. La tentazione ricorrente dei leader sovranisti italiani è insomma di guadagnarsi un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti per poter avere un ruolo più autonomo, e nelle intenzioni decisivo, anche in Europa.

Ci sono però anche grosse incognite economiche legate al nuovo mandato di Trump. La più consistente riguarda l’annunciato aumento dei dazi nei confronti dell’Unione Europea e soprattutto della Cina: la politica protezionista che Trump ha detto di voler attuare in maniera aggressiva, per favorire la produzione interna a discapito delle importazioni, rende più costoso per le industrie italiane esportare i propri prodotti negli Stati Uniti, che sono il secondo partner commerciale dell’Italia dopo la Germania, con oltre 67 miliardi di euro esportati nel 2023. Anche un lieve aumento delle tariffe doganali verso i paesi europei, e la “guerra” dei dazi che potrebbe generarsi tra Stati Uniti e Cina, avrebbero dunque consistenti effetti negativi sul nostro sistema produttivo, e renderebbero ancor più difficile per l’Italia rispettare i livelli di crescita del PIL stimati, già di per sé piuttosto ambiziosi.

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C’è poi il capitolo della spesa per la NATO. Dal 2014 i paesi che fanno parte dell’Alleanza atlantica, guidata proprio dagli Stati Uniti, si sono impegnati a spendere per il settore della difesa almeno il 2 per cento del proprio PIL. L’Italia non ha mai raggiunto questo obiettivo, e nel 2024 sarà uno degli 8 paesi, sui 32 che aderiscono alla NATO, a restare al di sotto del limite fissato: spende infatti poco meno dell’1,5 per cento del PIL in difesa. Per raggiungere il 2 per cento servirebbero grosso modo 10 miliardi, una cifra enorme per la situazione delle finanze pubbliche italiane. Spesso l’Italia, per giustificare in parte questo suo ritardo, ribadisce come il suo impegno per la NATO sia indiscutibilmente alto sotto altri fronti, essendo per esempio il paese che fornisce il contingente più numeroso alle varie missioni in cui l’Alleanza è coinvolta.

Ma nell’ultima riunione della NATO a Washington vari paesi hanno parlato del fatto che anche il 2 per cento del PIL è da considerarsi ormai come un obiettivo minimo, e che la spesa dovrebbe essere ancora più consistente, visto il contesto internazionale così teso. E durante il suo mandato Trump aveva spesso usato toni molto assertivi per spronare i paesi europei a spendere di più, arrivando quasi a minacciare l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel. Anche di recente si è detto non più disponibile a utilizzare l’esercito statunitense per garantire la protezione dell’Unione Europea. Il governo potrebbe dunque trovarsi in difficoltà: soldi per aumentare rapidamente e in maniera consistente la spesa militare non ce ne sono, e d’altro canto per Meloni rischierebbe di essere impopolare dirottare miliardi sulla difesa mentre è costretta, per esempio, a tagliare le risorse per scuola e sanità.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte al G7 di Biarritz, in Francia, con Donald Trump, il 24 agosto 2019 (Filippo Attili/LaPresse)

Se tutto ciò riguarda perlopiù la coalizione di governo, anche nelle opposizioni la vittoria di Trump sembra destinata a creare scompiglio. Conte l’ha commentata subito con toni tutto sommato positivi, e del resto i due si stanno simpatici dai tempi in cui era presidente del Consiglio. Conte non ha mai condiviso le letture per cui Trump rappresenti un pericolo per le democrazie liberali e per la stabilità dei rapporti transatlantici (cioè tra Stati Uniti e Unione Europea), condannò in maniera assai tiepida e vaga l’assalto al Congresso di Washington del 6 gennaio del 2021, e in questi mesi ha ribadito la sua sostanziale equidistanza ideologica tra Trump e la candidata dei Democratici, Kamala Harris. Parlando coi giornalisti alla Camera, in un paio di circostanze ha spiegato che il suo posizionamento era dovuto non solo a ragioni personali: era necessario, a suo avviso, garantire che anche nel fronte progressista ci fosse un possibile interlocutore di quello che verosimilmente sarebbe diventato il presidente degli Stati Uniti. E ora Conte vorrebbe ritagliarsi questo ruolo.

In una fase in cui il M5S è in difficoltà e subalterno al PD, il ruolo gli sarebbe funzionale anche per differenziarsi da Elly Schlein, che è stata invece convintamente dalla parte di Harris e che ha sempre guardato con timore a un ritorno di Trump alla Casa Bianca. L’alleanza di centrosinistra, già piuttosto sgangherata, rischia dunque di indebolirsi ancora di più. Non a caso, quando mercoledì mattina Conte ha commentato con una certa solerzia il successo di Trump, tra i dirigenti del PD c’è stato chi ha ricordato come quattro anni fa, di fronte alla vittoria di Biden, Conte – che era presidente del Consiglio – indugiò a lungo prima di complimentarsi, e la consueta telefonata per lo scambio di auguri avvenne in grande ritardo rispetto agli altri leader europei.