Giancarlo Giorgetti contro anni di propaganda della destra sull’economia

È stato criticato da diversi membri della sua maggioranza per una legge di bilancio cauta, e presentandola in parlamento si è tolto qualche sassolino

Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti (ANSA/FABIO FRUSTACI)
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Giovedì il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, della Lega, ha presentato al parlamento i contenuti del disegno di legge di bilancio che la Camera ha da pochi giorni iniziato ad analizzare. È una prassi consolidata: il ministro dell’Economia viene sempre ascoltato dalle commissioni competenti e risponde a deputati e senatori sulle scelte di politica economica che il governo ha adottato nel definire la manovra finanziaria, cioè il provvedimento con cui si decide come spendere i soldi a disposizione del governo per l’anno successivo.

Giorgetti ha rivendicato le scelte politiche complessive che stanno alla base della legge di bilancio: in una fase di ristrettezza economica, coi pochi margini di spesa concessi dalle regole europee del nuovo Patto di stabilità e con un bilancio pubblico piuttosto disastrato, si è deciso di favorire le famiglie con redditi medio-bassi e i lavoratori dipendenti, puntando anzitutto a rendere strutturale il taglio del cuneo fiscale (cioè a ridurre la differenza tra il costo del lavoro per le aziende e quanto il dipendente riceve effettivamente di stipendio netto: finora era stato temporaneo).

Il discorso di Giorgetti però è stato notevole perché in molti passaggi giustificava e spiegava le scelte del governo smentendo in maniera clamorosa la retorica e i programmi elettorali portati avanti per anni dai partiti della destra sovranista, tra cui il suo. Tra le altre cose, Giorgetti ha smentito le minimizzazioni della destra populista sull’importanza di avere un debito pubblico contenuto e ha rivendicato una legge sulle pensioni simile alla “Legge Fornero” tanto criticata negli anni dal leader del suo partito Matteo Salvini.

Fin dal suo insediamento come ministro dell’Economia Giorgetti ha adottato un approccio estremamente cauto sulla finanza pubblica, fino ad apparire un po’ come un fautore delle politiche del rigore spesso criticate da Salvini e Meloni. Giovedì ne ha approfittato per replicare ad alcune affermazioni dei suoi colleghi di maggioranza, che di questi ultimi giorni lo avevano un po’ criticato per le sue scelte, giudicate restrittive. Ha detto che per lui la necessità di ridurre il debito pubblico non è «un mantra», ma che preferirebbe di gran lunga avere come la Germania il debito al 60 per cento in rapporto al prodotto interno lordo, piuttosto che al 140 per cento com’è per l’Italia. «Avrei da pagare 45 miliardi di interessi in meno», ha detto. Si riferisce agli interessi sul debito, cioè quelli che il ministero dell’Economia deve pagare a investitori e risparmiatori che acquistano titoli di Stato italiani.

Per anni i leader della destra e degli altri partiti populisti hanno considerato i vincoli fiscali come un’imposizione delle istituzioni europee che non aveva alcun fondamento, sostenendo che si potesse accumulare tutto il debito che si voleva: ora Giorgetti ha detto che gli impegni del governo vanno concentrati prioritariamente al risanamento del bilancio, cosicché «ci liberiamo almeno in parte di questo fardello della spesa più odiosa e improduttiva che c’è», cioè appunto quella per gli interessi sul debito.

In un altro passaggio Giorgetti ha sostanzialmente preso in giro la posizione di un suo collega di partito, il senatore Claudio Borghi, leghista molto vicino a Salvini che per anni ha predicato la necessità di abbandonare l’euro e di tornare alla lira, e che tuttora conduce una costante campagna contro le politiche fiscali favorite dall’Unione Europea. Anche in un intervento al Senato in occasione del discorso di Giorgetti, Borghi aveva suggerito al ministro di non praticare con troppo zelo le politiche di risanamento del bilancio per compiacere le istituzioni europee. Giorgetti allora ha risposto alla provocazione, approfittando di una domanda del senatore del Movimento 5 Stelle Stefano Patuanelli, che aveva chiesto ironicamente se per far quadrare i conti della legge di bilancio Giorgetti avesse intenzione di mettersi a stampare moneta: il ministro ha detto che semmai quello di tornare a stampare banconote sarebbe «il sogno di Patuanelli e credo anche di Borghi», e che invece il governo aveva deciso con maggiore realismo di adottare significativi tagli alla spesa pubblica per finanziare le misure contenute nella finanziaria.

Era un riferimento a un vecchio ma mai del tutto accantonato dibattito all’interno della Lega: quello intorno alla tesi per cui sarebbe auspicabile avere una banca centrale a livello nazionale in grado di “monetizzare il debito”, cioè appunto emettere nuova moneta e con quella comprare il debito emesso dallo Stato. È una tesi piuttosto anacronistica, portata avanti da Borghi e da altri esponenti radicali della Lega, che è ormai del tutto inapplicabile in un contesto europeo.

Poi Giorgetti ha dovuto rispondere a domande sulle pensioni, e anche qui ha dovuto contraddire uno dei punti più qualificanti del programma della Lega degli ultimi anni. Con la legge di bilancio, come si era iniziato a fare già l’anno scorso, il governo ha infatti deciso di rendere significativamente più difficile e meno conveniente per i lavoratori andare in pensione in anticipo: di fatto in questo modo vengono ripresi vari elementi sostanziali della legge promossa da Elsa Fornero nel 2011, quando era ministra del Lavoro nel governo di Mario Monti, la stessa “Legge Fornero” contro cui Salvini ha fatto per anni grande propaganda politica.

Giorgetti ha detto che in realtà questo suo approccio non è in contraddizione con l’orientamento storico del suo partito, perché nella legge di bilancio viene riproposto e potenziato il cosiddetto “bonus Maroni”, cioè una agevolazione fiscale che il governo riconosce a chi, pur avendone i requisiti, rinuncia alla pensione anticipata e resta al lavoro. «La cosa mi riempie di orgoglio, perché Roberto Maroni è stato segretario del mio partito e questa idea l’ha avuta lui», ha detto Giorgetti, riferendosi all’ex leader della Lega tra il 2012 e il 2013 (morto nel 2022). È un’argomentazione scivolosa, visto che quella misura promossa da Maroni quando era ministro del Lavoro (tra il 2001 e il 2006) non è mai davvero stata valorizzata negli ultimi dieci anni dalla Lega di Matteo Salvini, subentrato proprio a Maroni, ed è stata recuperata da Giorgetti solo alla fine del 2022.

Salvini, Maroni e Giorgetti nel 2016 (ANSA/DANIEL DAL ZENNARO)

Un altro provvedimento della legge di bilancio su cui sono emerse contraddizioni tra Giorgetti e il resto del governo è l’estensione della cosiddetta “web tax”, una tassa sui ricavi che derivano dalla pubblicità online (pari al 3 per cento). Con la legge di bilancio non dovranno pagarla più solo le grandi aziende (quelle con ricavi globali di almeno 750 milioni di euro e che operano in Italia con ricavi di almeno 5,5 milioni), ma anche le piccole imprese (compresi i giornali online) che hanno introiti dalla pubblicità online. Giorgetti ha detto che è stato necessario perché le grandi aziende riescono agilmente a trasferire la loro sede legale nei paesi che hanno condizioni fiscali più vantaggiose, e il governo non stava quindi guadagnando da questa tassa quanto sperava.

Anche in questo caso la posizione di Giorgetti ribalta la posizione della destra degli ultimi anni. Fratelli d’Italia ha sempre considerato prioritario far pagare una tassa a quelli che Meloni definiva “i giganti del web”, biasimando la loro tendenza a fare utili nei paesi in cui non pagano le tasse e l’accondiscendenza dei governi italiani del passato nei confronti di questi “giganti”. Un po’ tutto il centrodestra, poi, in questi anni ha condannato l’ipotesi di tassare i ricavi (cioè, in sostanza, quello che un’impresa incassa) e non i profitti (cioè, gli utili al netto delle spese) perché questo principio non tiene conto degli investimenti e dei sacrifici che un’impresa fa per ottenere dei guadagni, soprattutto nella prima fase della sua esistenza e tanto più nel caso delle piccole imprese.

Giorgetti ha detto di essere disposto a valutare eventuali modifiche che il parlamento vorrà apportare a questa misura, ma ha raccomandato a deputati e senatori di tenere in conto che applicare la web tax solo alle grandi aziende potrebbe provocare ritorsioni commerciali da parte degli Stati Uniti, che potrebbero indispettirsi per il fatto che la tassa danneggia soprattutto alcune loro grandi aziende del settore. Per anni, quando da più parti si faceva osservare come l’applicazione della web tax da parte di un solo paese sarebbe stata da un lato impraticabile (proprio per la facilità delle imprese a eludere la tassa) e dall’altro diplomaticamente imbarazzante nei confronti degli Stati Uniti, erano proprio i partiti di destra a considerare questo atteggiamento come rinunciatario, se non addirittura servile.