Il ritorno in vecchio stile dei Cure

“Songs of a Lost World” è il primo disco in 16 anni della band britannica, che ha ripreso da dove aveva lasciato

La copertina di Songs of a Lost World
La copertina di Songs of a Lost World
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Il 1° novembre è uscito Songs of a Lost World, il quattordicesimo album in studio dei Cure, una delle più importanti e amate band britanniche degli anni Ottanta e Novanta, e il primo dopo un lungo periodo di inattività discografica: non facevano infatti un disco dai tempi di 4:13 Dream, del 2008. Anche se poi è uscito soltanto una settimana fa, nel 2024, i Cure avevano cominciato a parlare di un ipotetico nuovo album già nel 2019, poco prima dell’inizio della pandemia di Covid, quando il cantante Robert Smith aveva raccontato di aver ricominciato a scrivere canzoni e di aver trascorso del tempo insieme agli altri membri della band ai Rockfield Studios di Monmouth, in Galles, quello in cui i Queen registrarono buona parte del loro disco più famoso, A Night at the Opera.

Smith aveva anche dato qualche anticipazione sul nuovo disco, spiegando di avere intenzione di riprendere i suoni e le soluzioni compositive che caratterizzarono la primissima fase del gruppo, quella più lugubre e “dark” degli anni Ottanta, allontanandosi quindi dalle atmosfere pop e scanzonate tipiche delle canzoni più famose della band. 

Oltre che per le anticipazioni e per la distanza dal precedente, Songs of a Lost World era un album che i fan della band attendevano moltissimo anche perché diverse sue canzoni, come “Alone”, “And Nothing is Forever” e “I Can Never Say Goodbye”, erano state suonate in anteprima durante le date di Shows of a Lost World, l’ultimo – e lunghissimo – tour dei Cure. Anche per via delle parole di Smith, ci si aspettava un disco in vecchio stile, più che un tentativo di adattarsi a tendenze nuove o di produrre canzoni che potessero avere un vero successo commerciale.

Secondo la critica in effetti è stato così. Su Pitchfork, Ben Cardew ha scritto che Songs of a Lost World è un album «deliziosamente lento», senza ritornelli facili da ricordare né riff di chitarra malinconici e memorabili come quelli di “Friday I’m in Love”, “Boys Don’t Cry” e “Lullaby”.

Non ci sono neppure quelle «canzoni d’amore meravigliosamente sciocche» a cui i Cure hanno abituato il pubblico negli anni Novanta, ha notato Cardew, secondo cui Songs of a Lost World è un album flemmatico, cacofonico e volutamente minimale, in cui Smith e gli altri membri della band non fanno «nessun tentativo per coinvolgere i due miliardi di persone nate dall’uscita dello scorso album della band».

Songs of a Lost World è composto principalmente da tempi morti, lunghe parti strumentali, «linee di tastiera eteree» ed «eleganti e pensierose progressioni di accordi» e per questo motivo può risultare poco accessibile al primo ascolto, ha aggiunto Cardew, secondo cui queste caratteristiche emergono sin dalla prima canzone del disco, “Alone”, in cui Smith inizia a cantare soltanto dopo una sessione strumentale di più di tre minuti.

I cure nel 2006 (Getty)

Anche secondo il critico del Guardian Alexis Petridis i Cure hanno fatto un disco in vecchio stile, che a suo dire ricalca in parte la struttura di Disintegration (1989), uno degli album più famosi della band. Ned Raggett di The Quietus, una rispettata rivista online specializzata nella musica sperimentale e d’avanguardia, ha un parere un po’ diverso: dal suo punto di vista Songs of the Lost World non è un album nostalgico e che insegue vecchi suoni, ma un disco «fuori dal tempo, e in un certo senso schiacciato dal tempo», con cui i Cure hanno scelto di inaugurare una nuova fase artistica, più matura e diversa dalle precedenti.

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Altri critici hanno tralasciato l’aspetto più strettamente musicale per concentrarsi sui testi, e in particolare su ciò che Smith aveva in mente di raccontare. Lewie Parkinson-Jones di Slant ha scritto che, con Songs of a Lost World,  Smith ha dato corpo a «una riflessione cupa, a volte bellissima, sull’amore e la perdita». Rob Sheffield di Rolling Stone ha detto che la scrittura del disco gli è apparsa molto ispirata, e che il filo narrativo di tutte le canzoni è l’elaborazione del lutto, anche perché Smith lo ha composto al suo massimo picco di «turbamento emotivo», dopo la morte del padre, della madre e del fratello. Per questo motivo, secondo Sheffield, le canzoni di Songs of a Lost World ricordano «gli incubi adolescenziali di Pornography e Disintegration», ma aggiornati all’età adulta.

Robert Smith nel 2019 (Ian Gavan/Getty Images)

I Cure si formarono nel 1976 a Crawley, in Inghilterra, dall’incontro tra Smith e il bassista Michael Dempsey. Cominciarono a fare musica in un momento in cui diversi gruppi britannici e statunitensi stavano costruendo sull’eredità del punk approcci nuovi e più aperti a contaminazioni da generi diversi e alla sperimentazione con le nuove tecnologie. I Cure furono associati prima al cosiddetto post punk, un’etichetta piuttosto lasca sotto la quale furono riunite band molto diverse, dai Public Image Ltd ai Talking Heads, e poi alla new wave, un altro termine ombrello molto in voga soprattutto nel Regno Unito, usato per band rock e pop che usavano abbondantemente i sintetizzatori e che incorporavano elementi della musica tipicamente suonata nelle discoteche.

Il primo disco dei Cure, Three Imaginary Boys (1979), fu da subito un successo enorme e fissò alcuni stilemi tipici della band, come i riff di chitarra intricati e malinconici e testi intimisti e riflessivi che si distaccavano da quelli che avevano caratterizzato la prima fase del punk, incentrata quasi totalmente su temi politici e sulla denuncia sociale.

Questa formula fu confermata da Seventeen Seconds (1980), il loro secondo disco e il primo con Simon Gallup, che sostituì Dempsey come bassista del gruppo e che da lì in poi avrebbe contribuito in modo decisivo a definire il suono della band. Questa fase dei Cure, più nichilista, tetra e colma di richiami gotici, durò fino a Pornography (1982), il quarto album della band.

Da quel momento in poi i Cure cambiarono parzialmente approccio, in quella che la critica del tempo definì una «svolta pop». Continuarono a scrivere canzoni riflessive e malinconiche, ma dedicando maggiore attenzione alla melodia e all’orecchiabilità: la voce di Smith divenne meno monocorde e funerea, i riff di chitarra più allegri e ballabili, e le linee di basso di Gallup così melodiche da poter essere canticchiate. Uno dei primi esempi di questa nuova direzione artistica fu il singolo “Let’s Go to Bed”, del 1983.

I Cure si distinsero fin dal primo momento anche per la loro estetica peculiare, per il modo composto ma energico di stare sul palco e per la diffusione di una concezione di mascolinità del tutto nuova, lontana dal machismo e dalle esagerate esibizioni di virilità tipiche di molte band del periodo. Questo elemento fu anche uno dei temi che Smith approfondì maggiormente nei primi anni di carriera dei Cure: “Boys Don’t Cry”, una delle prime canzoni della band e probabilmente la più famosa, parla della difficoltà degli uomini di esprimere liberamente le proprie emozioni per via dell’influenza degli stereotipi sulla maschilità.

Con l’uscita del sesto disco, The Head on the Door (1985), i Cure diventarono uno dei gruppi più famosi al mondo. Accadde in parte grazie al successo di due singoli, “Inbetween Days” e “Close to Me”, che portarono l’album ai primi posti delle classifiche internazionali, e in parte grazie all’originalità dei videoclip diretti dal regista londinese Tim Pope, ricordati ancora oggi per i colori accesissimi e per il loro particolare simbolismo.

Nel 1989 uscì Disintegration, che segnò un primo ritorno ai suoni cupi dei primi dischi. Ottenne un successo di critica notevole, ed è tuttora citato come uno dei più influenti degli anni Ottanta. Fu anche il disco che provocò l’uscita dal gruppo del tastierista e batterista della band, Laurence Tolhurst, che poco prima della fine delle registrazioni fu cacciato dagli altri per via dei suoi problemi di alcolismo, e che nel 1991 fece causa a Smith e ai suoi ex compagni per ottenere il diritto di utilizzare il nome della band.

Nel 1992 uscì l’altrettanto popolare Wish, l’album che contiene “Friday I’m in Love”, una delle primissime canzoni che vengono in mente quando si pensa ai Cure: da allora, anche per via degli strascichi legali tra Smith e Tolhurst, l’attività discografica del gruppo è stata molto meno intensa. Fino al 2008 pubblicarono un disco ogni quattro anni.

La popolarità dei Cure è tuttora legata principalmente a Smith, che è diventato una figura amatissima dal pubblico per via del suo fare schietto e della sua immagine riconoscibile, che è stata spesso descritta come quella di un eterno adolescente: alcune caratteristiche estetiche, come i capelli disordinati e l’abitudine di indossare un rossetto, furono peraltro riprese da Paolo Sorrentino per la caratterizzazione di Cheyenne, il protagonista del suo film del 2001 This Must Be The Place, interpretato da Sean Penn. Le divagazioni poetiche e profonde che si concede spesso durante le interviste, le sue opinioni politiche progressiste e il suo modo notoriamente delicato e gentile di relazionarsi col pubblico lo hanno reso una delle personalità più apprezzate e rispettate della musica rock.

Anche se non hanno lavorato in studio, negli ultimi 16 anni i Cure hanno continuato a suonare dal vivo in maniera abbastanza continuativa, a collaborare con altri musicisti e gruppi e a far parlare di sé per le opinioni critiche che il cantante Robert Smith riserva abitualmente all’industria discografica, alla Corona britannica e al cosiddetto dynamic pricing, il sistema di vendita online di biglietti per concerti che ne adatta automaticamente il prezzo in base alla richiesta.

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