«Essere tetraplegico non è sempre terribile»
Lo racconta lo scrittore inglese Hanif Kureishi, paralizzato dopo una caduta: un nuovo libro raccoglie i suoi «dispacci» ospedalieri
Il 6 gennaio 2023 lo scrittore inglese Hanif Kureishi raccontò in una serie di post su X (Twitter) che da due settimane si trovava in ospedale a Roma con il corpo quasi completamente paralizzato. Il precedente 26 dicembre, a causa di uno svenimento, era caduto e così si era causato una lesione alla spina dorsale che gli aveva fatto perdere il controllo di gran parte del corpo. Lo scrittore, che ha 69 anni, parla più lentamente di prima ma non può tuttora camminare e usare le mani, se non per compiere azioni molto limitate. Ha però continuato a scrivere: è appena uscito un suo nuovo libro, In frantumi.
Kureishi non scrisse i primi tweet in autonomia, ma li dettò alla propria compagna, l’agente letteraria Isabella D’Amico. Il giorno successivo li ripropose come un unico testo anche nella sua newsletter creata con Substack: fu il primo dei «dispacci dal mio letto d’ospedale», scritti soprattutto con l’aiuto del figlio Carlo Kureishi, che è uno sceneggiatore. Sulla stampa italiana questi racconti hanno ricevuto particolare attenzione anche perché per sei mesi sono stati spediti da due ospedali romani, il Policlinico Gemelli e poi il Santa Lucia. Nel tempo più di 30mila persone li hanno seguiti attraverso la newsletter, in parte sottoscrivendo un abbonamento (da 6 euro al mese, o 60 all’anno), per sostenere il lavoro di Kureishi.
«Da quando ho iniziato a scrivere questi pezzi, sono usciti tanti articoli su di me e sul mio lavoro, in tutto il mondo», dice lo scrittore, in uno dei primi dispacci: «È stato gratificante, perché sono lusinghieri. È un po’ come la copertura mediatica che si potrebbe ricevere alla morte». Considerando la propria situazione, forse permanente, Kureishi scrive «almeno non ho perso la cosa più preziosa per me, la capacità di esprimermi» e si interroga: «Chissà, magari un giorno potrei essere in grado di fare un rapido cunnilingus, lo spero proprio. Ma al momento sono soltanto un disperato che tenta di aprire una confezione di anacardi usando solo i denti e il muro vicino alla faccia come puntello».
In frantumi è fatto di un anno di dispacci ed è quindi una specie di diario. È un resoconto sull’esperienza di diventare una persona con gravi disabilità a quasi 70 anni, presentata senza nascondere gli alti e i bassi in termini di disagi fisici e psicologici e nelle interazioni con le altre persone. Kureishi è noto per il suo senso dell’umorismo nero e per la schiettezza e l’assenza di inibizioni con cui ha sempre scritto di temi come la sessualità, anche non conforme, e l’uso di droghe. Questi aspetti sono molto presenti nel suo nuovo libro.
La quotidianità delle cure e della fisioterapia è raccontata senza risparmiare dettagli concreti su ciò che non è un problema per chi non è paralizzato: «Farsi grattare è una procedura complessa», spiega ad esempio. In un altro dispaccio rimpiange la lettura e dice che, pur avendo imparato a sfogliare i giornali digitali con il controllo vocale, non è una cosa molto agevole. Molti problemi nascono dal fatto che per ogni cosa si dipende dall’aiuto di qualcun altro e bisogna accettare di doverlo chiedere.
Ci sono poi vari passaggi che potrebbero risultare un po’ schifosi sulla necessità di farsi pulire da qualcun altro e sulle cosiddette esplorazioni rettali («il mio culo l’ho ribattezzato Route 66»). In un dispaccio dedicato alle conversazioni tra altre persone paralizzate e ricoverate con lui, Kureishi scrive: «Come dice Isabella, basta con merda e piscio. I lettori vogliono davvero sapere tutto? Ma questa è la realtà della vita qui per i pazienti». Il tema è comunque molto ricorrente: «Sto pensando di scrivere un romanzo ambientato in ospedale che si intitola “Ha liberato l’intestino?”».
Altri dispacci sono incentrati su riflessioni attorno all’assenza della sessualità nella nuova vita dello scrittore e a racconti autobiografici di gioventù e non solo, sempre senza apparenti censure: «Con i miei figli ho passato delle serate divertenti a base di coca», racconta a un certo punto Kureishi, parlando di esperienze personali con le droghe illegali come gli scrittori fanno raramente in Italia, «e ci sono amici che prendono l’MDMA con i loro figli, cosa che non farei per paura di rivelarmi troppo. I miei ragazzi però mi hanno introdotto ai funghi allucinogeni».
L’ultimo tweet di Kureishi dal Policlinico Gemelli di Roma:
Insieme agli aneddoti sulla vita in ospedale, In frantumi contiene anche una raccolta di riflessioni su vari temi, molti dei quali hanno a che vedere con il significato e la pratica della scrittura, romanzesca e no.
Kureishi è uno scrittore noto soprattutto per il suo primo romanzo, Il Budda delle periferie, uscito nel 1990, e per la sceneggiatura di My Beautiful Laundrette – Lavanderia a gettone di Stephen Frears, che uscì nel 1985 e fu candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale (che poi vinse Hannah e le sue sorelle di Woody Allen). Entrambi hanno per protagonista un giovane uomo britannico di origini indiane o pakistane che vive nella Londra degli anni Ottanta: furono alcune delle prime opere di narrativa incentrate sulle esperienze delle cosiddette “seconde generazioni” nel Regno Unito e in parte si rifacevano alla vita dello stesso Kureishi, nato da madre inglese e da padre pakistano e cresciuto nel quartiere londinese di Bromley.
Lo stile di Kureishi, che è autore di numerosi altri romanzi e sceneggiature, molte delle quali per il teatro, è sempre stato volutamente accessibile e “pop”. Usando un’espressione britannica si può definire “middlebrow”, cioè intermedio tra quella che è considerata cultura “alta” e quella che è considerata cultura “bassa”.
Kureishi ha sempre rivendicato questo approccio, affine a quello di molta produzione culturale britannica – anche musicale e cinematografica – degli anni Ottanta e Novanta che ha avuto grande successo in tutto il mondo. Anche nelle pagine di In frantumi se ne parla: «Gli artisti migliori, quelli che ammiro – Miles Davis, i Beatles, Hitchcock, ecc. – sono in grado di unire idee profonde dentro un involucro commerciale».
I dispacci però vanno oltre e aggiungono dei pezzi alla visione che Kureishi ha della propria professione: «Il lavoro della scrittura non è una terapia per chi scrive ma intrattenimento per chi legge», dice a un certo punto, parlando del fatto di avere in mente un pubblico, e «gli scrittori accudiscono l’anima dell’uomo nel suo difficile viaggio in questa vita impossibile», pensando all’importanza della scrittura nella sua vita attuale.
Inoltre celebrano le virtù della conversazione, visto che ora Kureishi passa gran parte del suo tempo a parlare con altre persone: «La conversazione è una cosa inutile nel senso migliore del termine. È anticapitalista: non ci si guadagna nulla; non offre nessun vantaggio materiale. C’è solo il piacere di star lì con un altro essere umano, di ascoltarlo, di uno scambio effimero che non ha molto altro significato al di là di una gratificazione temporanea condivisa».
I medici non sono mai riusciti a chiarire cosa provocò lo svenimento all’origine dei problemi di salute di Kureishi. Oggi lo scrittore riesce a muovere la testa e il collo, può parlare e ha mantenuto la sensibilità fino ai piedi, ma non può camminare, afferrare e usare oggetti con le mani e compiere le attività quotidiane in modo autonomo, può comandare una carrozzina elettrica.
Nei dispacci che ha scritto nel suo primo anno di persona con disabilità e nel libro che ne è stato tratto si alternano momenti più ottimisti, in cui il senso dell’umorismo alleggerisce il racconto dell’esperienza, e altri più negativi, in cui grandi dilemmi non trovano risposte. Parlando della sua compagna e del fatto che da quando è rimasto paralizzato non ha smesso di prendersi cura di lui, Kureishi scrive: «Mi ha chiesto “Ma tu avresti fatto questo per me?” non ho saputo risponderle. Non lo so». Ci sono i dispacci in cui lo scrittore condivide di essere «orgoglioso di dipendere da persone che mi amano» e dice che «essere paralizzati è un ottimo modo per conoscere gente nuova». Ma nella stessa giornata può anche scrivere: «Ne ho abbastanza di questa merda. Non ce la faccio. Non voglio vivere così».
Dopo i primi sei mesi, passati negli ospedali italiani Kureishi è tornato a Londra e da quasi un anno vive di nuovo nella sua casa, riadattata per le sue nuove esigenze. Il Servizio sanitario pubblico britannico gli garantisce una persona che lo assiste a tempo pieno, mentre per la fisioterapia quotidiana, necessaria a mantenersi in forze e in salute, deve usare le proprie risorse.
Senza nascondere la depressione e la disperazione, chiude il suo libro dicendo di essere fortunato rispetto ad altri pazienti, avendo una casa e una famiglia pronta a sostenerlo, e non si rassegna ai pensieri suicidi: «Devo continuare a prenderla sul ridere; non c’è altro da fare, non sono né stoico né coraggioso, non faccio nulla di straordinario, sono solo vittima del destino». Ora sta scrivendo un film tratto da In frantumi.
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