Per i Democratici sarà dura mantenere il controllo del Senato statunitense
È un grosso problema per una possibile amministrazione di Kamala Harris
Il 5 novembre negli Stati Uniti non si voterà solo per eleggere il o la prossima presidente: sulle schede elettorali ci saranno anche decine di referendum e candidati per i ruoli di governatore, senatore e deputato. Verranno rinnovati tutti i 435 seggi della Camera, come succede ogni due anni, e 34 dei 100 seggi del Senato. Il mandato dei senatori dura sei anni, ma ogni due anni viene rinnovato un terzo dei seggi.
Le elezioni del Congresso avranno ripercussioni importanti anche sui margini di azione del prossimo presidente: la Camera e il Senato devono approvare le leggi e le nomine di giudici e segretari, tra le altre cose. Non avere la maggioranza, oppure averne una molto risicata, e lavorare con un Congresso diviso, dove le due camere sono controllate da partiti diversi, metterebbe quindi in difficoltà il o la presidente e complicherebbe il processo legislativo.
Le ultime elezioni per la Camera e il Senato si sono svolte nel 2022. Al momento i Repubblicani hanno la maggioranza alla Camera, con 220 seggi contro i 212 dei Democratici (ci sono tre seggi vacanti). I Democratici hanno invece la maggioranza al Senato, con 51 parlamentari contro 49: un margine molto ridotto, nel quale anche un solo voto può fare la differenza. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che i senatori Democratici sono in realtà 47, a cui se ne aggiungono quattro formalmente indipendenti ma vicini al Partito Democratico, tra cui Bernie Sanders.
Come per le elezioni presidenziali, i sondaggi per molti seggi contesi sia alla Camera che al Senato sono incerti e tutte le previsioni vanno prese con cautela. Secondo il modello probabilistico elaborato dall’Economist, i Democratici hanno il 56 per cento di probabilità di ottenere la maggioranza alla Camera, e i Repubblicani hanno il 69 per cento di probabilità di controllare il Senato. Sarebbe una situazione opposta a quella attuale.
C’è una cosa che possiamo dare per relativamente sicura. I Democratici perderanno almeno un seggio al Senato: quello di Joe Manchin, un senatore indipendente del West Virginia, in carica dal 2010 che a questo giro non si è ricandidato.
Il West Virginia è uno stato profondamente conservatore, dove da più di vent’anni alle elezioni presidenziali vince il candidato Repubblicano, spesso con ampi margini. Manchin era un po’ un’eccezione: nonostante sia stato a lungo membro del Partito Democratico ha sempre mantenuto posizioni piuttosto conservatrici, e lo scorso maggio aveva lasciato il partito per diventare indipendente. Per un certo periodo si era anche parlato della possibilità che si candidasse alle elezioni presidenziali come indipendente, cosa che poi non è successa.
In seguito al suo ritiro è molto probabile che il suo seggio al Senato venga vinto dal candidato Repubblicano Jim Justice, indicato come favorito da tutti i sondaggi.
I Democratici potrebbero perdere un altro seggio in Montana, dove Jon Tester, in carica dal 2007, è in difficoltà contro il candidato Repubblicano Tim Sheehy. Anche il Montana è uno stato tradizionalmente Repubblicano, la cui composizione demografica sta cambiando molto negli ultimi anni a causa dell’arrivo di persone benestanti che comprano case e terreni, attirate dai prezzi relativamente bassi e dalla prospettiva di uno stile di vita tranquillo.
La perdita di due seggi – quelli di Manchin e Tester – potrebbe portare il Partito Democratico a perdere la maggioranza al Senato. È un problema: il Senato deve approvare a maggioranza semplice le nomine dei segretari, ossia i ministri. Se quindi Kamala Harris dovesse diventare presidente, un Senato a maggioranza Repubblicana potrebbe impedirle di nominare segretari considerati eccessivamente progressisti, costringendola a scendere a compromessi e proporre persone più moderate.
Il Senato ha anche il potere di bloccare le nomine dei giudici della Corte Suprema, un altro tema di cui negli ultimi due anni si è discusso a lungo. L’incarico dei giudici dura per tutta la vita, e durante il suo mandato l’ex presidente e attuale candidato Repubblicano Donald Trump riuscì a nominare tre giudici su un totale di nove, dando alla Corte un orientamento decisamente conservatore.
Al contrario, se Trump dovesse vincere le elezioni presidenziali e ottenere anche la maggioranza al Senato, avrebbe un largo margine di azione per nominare segretari e giudici.
In base ai sondaggi e ai risultati dei modelli probabilistici, è possibile che il prossimo Congresso sia ancora diviso e che quindi il partito del presidente non abbia la maggioranza in entrambe le camere. Sarebbe una cosa relativamente anomala: dal 1993 in poi tutti i presidenti sono entrati in carica con entrambe le camere controllate dal loro partito. Nel corso di una legislatura però è normale che qualche senatore o deputato cambi orientamento, oppure che gli equilibri si modifichino con le elezioni di metà mandato. Di conseguenza, molti presidenti hanno avuto a che fare con un Congresso diviso a un certo punto del loro mandato.
Al di là delle nomine di giudici o segretari, che per quanto importanti capitano poche volte nel corso di una presidenza, la mancanza di una maggioranza al Congresso ha conseguenze importanti sulle procedure legislative, dato che negli Stati Uniti (come in Italia) tutte le leggi devono essere approvate in forma uguale sia dalla Camera che dal Senato. Un Congresso diviso obbliga quindi i partiti a negoziare, rendendo più lente le procedure e complicando il lavoro del presidente, che in alcuni casi deve ridimensionare le sue proposte più ambiziose per ottenerne l’approvazione.
Negli ultimi mesi le conseguenze di un Congresso litigioso sono diventate evidenti in diverse occasioni. Ad esempio nell’ultimo anno l’approvazione di una norma che conteneva anche circa 61 miliardi di dollari in aiuti militari per l’Ucraina è rimasta in sospeso per mesi, proprio a causa dell’incapacità del Congresso di arrivare a un accordo.
La composizione del prossimo Congresso influenzerà la possibilità di Harris e Trump di raggiungere risultati concreti sulle molte proposte fatte in campagna elettorale, dalla costruzione di milioni di nuove case a vari bonus e agevolazioni fiscali.