La conferenza dell’ONU sulla biodiversità ha diviso paesi ricchi e no
Non è stato trovato un accordo sugli aiuti finanziari con cui le nazioni più sviluppate dovrebbero sostenere le altre nella conservazione della natura
Il 2 novembre a Cali, in Colombia, si è conclusa la 16esima conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, la COP16, che era iniziata il 21 ottobre. È finita con un giorno di ritardo rispetto al programma e in modo piuttosto disordinato perché i rappresentanti dei 196 paesi che hanno partecipato all’incontro si sono divisi su uno dei più importanti temi in discussione: l’entità e la gestione dei finanziamenti con cui i paesi più ricchi dovrebbero sostenere quelli con meno risorse per aiutarli a proteggere la propria biodiversità. È una questione rilevante perché gran parte dei territori con la maggiore ricchezza di specie animali e vegetali del mondo appartengono proprio a paesi in via di sviluppo, nell’America del Sud e in Africa.
C’erano grandi aspettative per la conferenza sulla biodiversità di quest’anno perché in occasione della precedente, organizzata tra Kunming e Montreal nel 2022, era stato raggiunto un accordo importante, con cui i paesi del mondo si erano impegnati a rendere aree protette il 30 per cento delle superfici terrestri e delle superfici marine del pianeta entro il 2030. Anche se a Cali qualche decisione è stata presa, sono mancati dei progressi significativi sulle questioni più complesse.
Il più importante risultato su cui i paesi dell’ONU sono riusciti a mettersi d’accordo riguarda un sistema per ricompensare i paesi dell’uso delle informazioni genetiche di piante, animali e microrganismi che vivono nel loro territorio, che sempre più spesso vengono sfruttate nella ricerca farmaceutica e non solo per sviluppare nuovi prodotti. Finora i dati genetici di moltissimi organismi (a cui ci si riferisce con la sigla DSI, da digital sequence information, “informazioni di sequenza digitale”) sono stati accessibili in modo gratuito all’interno di grandi banche dati.
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I delegati di Cali hanno approvato la creazione di un fondo in cui le aziende farmaceutiche e cosmetiche sopra a una certa dimensione che ottengono dei profitti dallo sfruttamento delle DSI devono versare delle compensazioni per i paesi da cui le DSI provengono, pari all’1 per cento dei propri profitti o allo 0,1 per cento dei propri ricavi. L’accordo sulla creazione del fondo prevede che ogni singolo paese possa decidere in autonomia se aderirvi o meno; nel primo caso dovrà approvare una legge apposita.
Dato che per le aziende la partecipazione al fondo è comunque volontaria, non ci sono grosse garanzie sulla sua efficacia: tutto dipenderà dal loro interesse a ottenere dei vantaggi in termini di reputazione attraverso i contributi versati al fondo. Secondo alcune stime il fondo di Cali potrebbe arrivare a raccogliere più di 1 miliardo di euro all’anno. I soldi raccolti poi dovrebbero essere destinati ad attività di conservazione degli ecosistemi naturali nei paesi beneficiari.
L’altro risultato concreto ottenuto dalla conferenza è stato l’inserimento del gruppo di lavoro che rappresenta le popolazioni indigene degli ambienti meno modificati dall’umanità del pianeta tra le delegazioni permanenti. Negli ultimi 20 anni questo gruppo ha sempre partecipato alle conferenze sulla biodiversità, in virtù dei propri interessi e del ruolo delle popolazioni indigene nella preservazione degli ecosistemi naturali (sebbene la famosa statistica sull’80 per cento della biodiversità protetta dagli indigeni sia falsa), però sempre in modo informale. D’ora in avanti invece la loro partecipazione sarà assicurata e riconosciuta in modo formale.
Non si è invece concluso molto su uno dei temi più difficili su cui i paesi del mondo avrebbero dovuto accordarsi, quello dei fondi per finanziare le attività di conservazione delle specie. Alla COP15 era stato stabilito che entro il 2025 i contributi annuali dei paesi più sviluppati e ricchi a quelli con meno risorse avrebbero dovuto essere pari a 20 miliardi di dollari: mancano due mesi al 2025 e l’obiettivo non è stato raggiunto. Il gruppo dei paesi africani e il Brasile avevano proposto di introdurre un nuovo meccanismo di finanziamento per distribuire i fondi per la biodiversità, ma l’Unione Europea e molti altri paesi ricchi si sono opposti, dicendo che creare un nuovo fondo non porterà necessariamente a maggiori finanziamenti.
Non essendo stato trovato un accordo entro il termine ufficiale della conferenza le discussioni sono proseguite per circa 12 ore, finché la presidente della conferenza, la ministra dell’Ambiente colombiana Susana Muhamad, ha dovuto interrompere i lavori perché molti delegati se ne erano andati e non c’era più il quorum per votare (le delegazioni di vari paesi in via di sviluppo, come gli stati insulari dell’oceano Pacifico, non potevano permettersi di cambiare i propri voli di ritorno dalla Colombia).
Non è nemmeno stato trovato un consenso su come controllare e verificare che i paesi del mondo mantengano le promesse del 2022 sull’ampliamento delle aree naturali protette.
Le discussioni su questi temi dovranno riprendere l’anno prossimo a Bangkok, in Thailandia, in un incontro preparatorio per la COP successiva. Alla COP16 di Cali hanno partecipato circa 23mila persone: è stata la più affollata conferenza internazionale sulla biodiversità che sia stata organizzata finora. La prossima, la COP17, si svolgerà in Armenia nel 2026.
Invece l’11 novembre a Baku, in Azerbaijan, inizierà la COP29 sul clima. In vista di quest’altro incontro internazionale, il cui obiettivo è proseguire le azioni coordinate di contrasto al riscaldamento globale, i delegati della COP16 hanno votato a favore di un documento che associa la perdita di biodiversità del pianeta al cambiamento climatico, una relazione provata da numerosi studi scientifici.