• di Giulia Palladini e Edoardo Marangon
  • Storie/Idee
  • Giovedì 31 ottobre 2024

Salvare animali a Kharkiv

«Kharkiv alle luci del primo mattino appare diversa dai villaggi attraversati con Max e Cristina. Quando arriviamo di fronte alla porta della sede centrale di ARK ad attenderci c’è già Yarina, una delle responsabili dell’associazione. Ci chiede di accendere le torce dei cellulari perché pochi minuti prima c’è stato un blackout. Il buio corridoio di ingresso si apre all’interno su uno spazio più grande, illuminato da finestre che danno su un cortile. All’interno centinaia di gatti di ogni razza sonnecchiano e giocano tra installazioni in legno create appositamente. “Questo è uno dei più grandi rifugi per gatti che abbiamo, alcuni sono in quarantena, altri sono già stati adottati"».

Max, uno dei volontari di ARK, associazione che soccorre animali in difficoltà nella zona di Kharkiv in Ucraina. (Foto di Edoardo Marangon)
Max, uno dei volontari di ARK, associazione che soccorre animali in difficoltà nella zona di Kharkiv in Ucraina. (Foto di Edoardo Marangon)
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Toretsk è una città fantasma. Prima dell’invasione “full-scale” del 2022 contava oltre trentamila abitanti. Ora, mentre la attraversiamo, quello che resta sono cataste di rami caduti lungo le strade e le macerie degli edifici bruciati. «Oggi abbiamo quindici animali da recuperare», dice Max mentre con una mano guida il furgone e con l’altra fuma una sigaretta, «ma sono sicuro che ce ne saranno di più». Max è un ragazzo di vent’anni, la sua passione è fare il videoeditor, ma da un anno e mezzo lavora come volontario per Animal Rescue Kharkiv (ARK), un’associazione che recupera e ricolloca animali abbandonati nelle aree evacuate e bombardate vicino alla linea del fronte.

Nel bagagliaio sono impilati uno sull’altro trasportini vuoti per animali di diverse dimensioni che a ogni scossa urtano tra di loro. Con noi sul furgone c’è Cristina, che ha 27 anni ed è specializzata in pratiche di primo soccorso veterinario. Dai finestrini abbassati arriva intenso l’odore di bruciato e polvere da sparo, non ci sono palazzi attorno e le strade si snodano sconnesse all’interno di piccoli quartieri di dacie, le tipiche case di campagna ucraine. La linea del fronte russo-ucraino si trova a circa dieci chilometri e il rumore del furgone sull’asfalto dissestato è intervallato dall’eco sorda delle esplosioni all’orizzonte.

Max è in cerca di un posto riparato dove accostare; auto e furgoni sono spesso target per i droni in perlustrazione. Parcheggia sotto un albero e mentre scendiamo ci mostra sul suo cellulare la lista di posizioni che ha ricevuto. «Per ognuna ci è stato segnalato un animale ma in queste aree il GPS e la connessione internet non funzionano», spiega, e si allontana di qualche passo in cerca di segnale. Torna quindi indietro per sistemare l’antenna nera posizionata sul fianco del furgone. «È un’antenna Starlink», dice mentre riconnette alcuni cavi.

Starlink è una rete di satelliti a bassa orbita terrestre in grado di comunicare con terminali a terra in modo da garantire una connessione veloce e stabile. Dal momento in cui è stata lanciata, nel 2016, da Space X di Elon Musk, ha avuto un grande successo soprattutto in aree di conflitto o in situazioni di emergenza dove grazie a internet è stato possibile ripristinare le attività di networking. Questo vale non solo per le operazioni militari, ma anche per le centinaia di organizzazioni umanitarie operanti sui territori di guerra. Si stima che oggi ci siano decine di migliaia di dispositivi Starlink in Ucraina.  «Non conosciamo il luogo del salvataggio e le indicazioni che ci vengono fornite spesso non sono sufficienti con un paesaggio che cambia così rapidamente», continua Max. Inoltre, spiega che la connessione fornita da Starlink è l’unica possibilità per utilizzare app come Telegram, Viber, Signal e altre di messaggistica criptata che permettono una comunicazione immediata e protetta con gli altri volontari. I problemi di segnale che si riscontrano in queste aree, quindi, non dipendono dalla mancanza di antenne internet, ma dal fatto che ce ne sono troppe.

Dopo qualche minuto di tentativi, Max riesce a individuare il primo indirizzo grazie a Google Maps, è quello più vicino da raggiungere. «Dovremmo recuperare un cane di media taglia ma non sappiamo in che condizioni sarà e se è ancora lì», spiega Cristina, mentre prepara tutto l’occorrente per effettuare il salvataggio in sicurezza. «Se fosse aggressivo abbiamo queste cerbottane con del sonnifero per renderlo innocuo e recuperarlo. Molti sono ancora legati e spesso non mangiano da diversi giorni. Il primo tentativo è provare ad avvicinarli con del cibo».

La casa indicata ha un cancello in ferro, subito dietro si vede una tettoia in legno. Un cane abbaia dall’interno. È un meticcio di taglia media, non ha acqua, si mostra particolarmente aggressivo. «Il collare è troppo stretto, probabilmente ha causato un’infezione», dice Cristina indicando il collo del cane e subito prepara la cerbottana. Dopo essere stato colpito, l’animale si tranquillizza. Max scavalca la cancellata, taglia il collare e lo porta verso il furgone. «Sono stati gli stessi proprietari a segnalarci la casa, lo avevano lasciato qui quando sono scappati. Averlo trovato è una fortuna, capita spesso che l’animale scappi o che non riesca a sopravvivere», dice Cristina mentre accarezza il cane ancora stordito dal sonnifero e con cautela lo inserisce in un trasportino. Stiamo per ripartire, Max si sta occupando di comunicare all’associazione il ritrovamento del cane e le sue condizioni, quando Cristina nota due cuccioli di gatto a pochi metri dal furgone. Apre una scatoletta di cibo e dopo averli avvicinati, li prende delicatamente. «Anche loro vengono con noi», dice prima di risalire.

Gli indirizzi successivi sono più difficili da raggiungere. Di tanto in tanto qualcuno tra i residenti che passano di lì a piedi o in bicicletta ci fornisce delle indicazioni. Sono rimasti in pochi, per la maggior parte si tratta di anziani. Alcuni hanno preso in custodia gli animali delle famiglie scappate. ARK fornisce loro cibo per animali, medicinali e altri beni di prima necessità. Toretsk, che fa parte del distretto di Bakhmut, è una delle tante cittadine del Donbass dove gli allarmi aerei si interrompono di rado e dove restare vuol dire rischiare la vita ogni giorno. Chi ha scelto di farlo, nonostante le evacuazioni, spesso è motivato dalla propria ideologia politica filorussa, ma anche dall’impossibilità di lasciare la sua casa, l’unica fonte di sostentamento che ha: un pezzo di terra, un piccolo allevamento.

Sul percorso Max propone di fare una pausa. Accosta all’ombra di un’abitazione, la giornata è calda e nel furgone quasi tutte le cuccette sono piene. Ci sono un pastore tedesco, due pitbull, diversi meticci e una decina di gatti randagi. È proprio mentre scendiamo dal furgone che un fischio risuona nel cielo, un rumore simile a quello del decollo di un aereo seguito dal tonfo di un’esplosione a poche decine di metri da noi. «A terra!», grida Max. In un attimo la vibrazione dello scoppio si propaga violenta attraverso l’aria e l’asfalto, e una colonna di fumo nero si solleva. Detriti e terra piovono sui tetti delle case integre, sulle macerie di quelle già distrutte. «Sul furgone!», indica Cristina. In pochi secondi Max accende il motore e preme col piede sull’acceleratore. Dalla foschia scura alle nostre spalle un uomo corre in cerca di riparo, nel bagagliaio rimbalza furioso il mugolio degli animali spaventati. Alla prima esplosione ne seguono altre due, questa volta più lontane. «Non è più sicuro, dobbiamo tornare indietro», urla Max, cercando di sovrastare il rombo del motore in accelerazione.

Quando raggiungiamo Druzhkivka, a quaranta chilometri da Toretsk in direzione ovest, è già pomeriggio inoltrato. Ci fermiamo in uno spiazzo sterrato dove altri volontari del posto sono venuti per prelevare alcuni degli animali. Cristina sta valutando le generali condizioni di salute di ognuno. Alcuni hanno delle infezioni purtroppo, verranno messi in quarantena e curati. Delle famiglie che avevano mandato una segnalazione, diverse hanno già riconosciuto il loro cane attraverso le foto. Gli altri saranno dati in adozione o troveranno ospitalità in un canile o un gattile attrezzato.

Mentre Cristina prende accordi con i volontari, Max è seduto su uno dei sedili anteriori con la testa poggiata all’indietro e le gambe sospese molli a lato del cruscotto. Ha gli occhi chiusi e fuma vorace l’ennesima sigaretta della giornata. Mi avvicino e noto che la fiancata del furgone è costellata di fori circolari lasciati da una scarica di proiettili, probabilmente qualche settimana prima. Chiedo come mai abbia deciso di diventare un volontario. «Prima di questa guerra volevo fare il pompiere, poi ho capito che stare alle regole di un sistema gerarchico non fa per me. È lo stesso motivo per cui non mi sono arruolato, ho ancora vent’anni, non sono obbligato», dice mentre lancia via il mozzicone e si sfila il giubbotto antiproiettile. «Ho provato a lavorare nella comunicazione ma vedere quello che accadeva e continuare con la mia vita era troppo frustrante. Così quando ho scoperto ARK mi sono proposto e adesso questo è il mio lavoro».

Quando gli domando se non abbia paura di muoversi in zone così pericolose scuote la testa. «Quando sei per quasi tre anni in uno stato in guerra il concetto di paura cambia di molto. La mia vera paura è fermarmi, riflettere su ciò che sta accadendo. Ci sono persone che muoiono al fronte ogni giorno e io sento di dover essere qui. Ho bisogno di questa adrenalina per sapere che anch’io sto facendo qualcosa». Mentre scarica alcune casse di cibo per animali dal furgone gli chiedo come veda il suo futuro. «Il mio futuro a oggi è rimanere vivo. Come si fa a immaginare un futuro con tutto il dolore che vediamo ogni giorno? Molti dei miei amici sono morti sul campo, molti altri, soprattutto ragazze, sono andate via, la nostra generazione non ha futuro qui».

È impossibile stimare il numero di associazioni e organizzazioni nate nei più diversi ambiti dal 2022 in poi in Ucraina, si ipotizza che siano migliaia. Il numero cresce a dismisura se la data del conteggio viene anticipata al 2014, successivamente alle proteste di Euromaidan e all’invasione della Crimea. Emily Channell-Justice, antropologa e professoressa presso l’università di Harvard, ha approfondito il tema dell’attivismo e dell’auto-organizzazione in Ucraina nel suo Without the State: Self-Organization and Political Activism in Ukraine. Secondo lei, in assenza di un potere istituzionale solido e di uno Stato di diritto, dal 2014 in poi gli ucraini hanno adottato pratiche di cittadinanza attiva finalizzata al miglioramento sociale e a una rinnovata partecipazione politica. Questo fenomeno, che per la Channell-Justice ha interessato gruppi sia di destra che di sinistra, ha raggiunto l’apice proprio dopo il 2022, dopo l’invasione russa del 24 febbraio. Le attività di mutuo soccorso, raccolta fondi e altre forme di sostegno reciproco hanno creato reti di solidarietà che hanno avuto un impatto significativo sulla resistenza del Paese.

Mentre Cristina riordina le ultime cose, prima di salutarci, racconta un po’ di sé. «Di formazione sono un’architetta ma con la guerra il lavoro è stato sempre meno e l’ambiente sempre più esasperato così mi sono licenziata. È stato un periodo difficilissimo, ho sofferto di depressione e insonnia finché non ho cominciato a dedicarmi completamente a questo lavoro». Dopo aver frequentato un corso di base in assistenza veterinaria, Cristina ha aperto un canile dove ospita più di cento cani che gestisce grazie al sostegno di altre associazioni con cui collabora, tra cui ARK, di cui è anche volontaria. «Mi sarei arruolata anch’io nell’esercito ma non posso abbandonare questo progetto», continua mentre ci sediamo su un tronco steso a terra.

La storia di Cristina è fatta di alti e bassi, giornate vuote e notti insonni. È molto comune. In un report dell’International Journal of Mental Health Systems è evidenziato come a causa della guerra la salute mentale della popolazione ucraina sia sempre più compromessa, con percentuali particolarmente significative tra i giovani. In particolare, sembra ormai evidente un incremento notevole di stati di ansia, depressione e disturbi come quello da stress post-traumatico (PTSD). Ancor di più in assenza di un supporto adeguato e strutture idonee.

«Da quando lavoro come volontaria non prendo più psicofarmaci», dice, sciogliendosi la lunga treccia bionda che prima teneva sotto l’elmetto di protezione. «In momenti come questi quello che davvero ti fa stare male è sapere che non stai facendo niente per migliorare le cose. E ancor di più quando sai che altri muoiono per difenderti. Per noi quelle persone hanno dei nomi, dei volti. Abbiamo bisogno di fare perché non ci resta che questo».

Kharkiv alle luci del primo mattino appare diversa dai villaggi attraversati con Max e Cristina. Quando arriviamo di fronte alla porta della sede centrale di ARK ad attenderci c’è già Yarina, una delle responsabili dell’associazione. Ci chiede di accendere le torce dei cellulari perché pochi minuti prima che arrivassimo c’è stato un blackout. Il buio corridoio di ingresso si apre all’interno di uno spazio più grande, illuminato da alcune finestre che danno su un cortile. All’interno della stanza centinaia di gatti di ogni razza sonnecchiano e giocano tra installazioni in legno create appositamente. «Questo è uno dei più grandi rifugi per gatti che abbiamo, alcuni sono in quarantena, altri sono già stati adottati», spiega Yarina.

Yarina è una psicologa e nel 2016, quando ancora esercitava la professione a tempo pieno, ha cominciato come volontaria nell’associazione; ora questo è il suo lavoro. «Quando sono entrata salvavamo mille animali all’anno, ora sono più di sedicimila. C’è tanto da fare», dice mentre accarezza uno dei gatti sul divano al centro della stanza. «Abbiamo cercato di creare uno spazio accogliente per gli animali ma anche per i visitatori. Vengono qui in media trecento persone al mese, anziani che danno una mano, soldati in riabilitazione e tanti bambini. Per loro soprattutto, ma anche per gli adulti, la presenza degli animali ha un effetto calmante».

Mentre procediamo da una camera all’altra, Yarina racconta che l’obiettivo dell’associazione, oltre al ricollocamento degli animali in Ucraina e all’estero, è quello di costruire altri spazi come questi, altri luoghi dove la comunità possa ritrovarsi e sperimentare un senso di tranquillità. Ci vorrà tempo, però, perché per un progetto del genere servono fondi e la situazione a Kharkiv è ancora molto imprevedibile.

«Abbiamo un canile poco fuori città, ma non è ancora attrezzato. A volte ci chiedono perché investiamo così tante energie e risorse per gli animali e non per le persone. Ma qui è proprio di persone che si parla, spesso non conta la causa che sposi ma il processo che segui per realizzare la causa che hai scelto. Chi ci contatta il più delle volte ha perso ogni cosa, ha subìto dei lutti, e ritrovare un animale per loro significa riaprirsi alla vita. Fare questo lavoro, interagire con gli animali è quello che ci permette di fare qualcosa per stare bene nel dolore, per ritrovare parte della nostra umanità. Senza siamo già morti».

– Leggi anche: L’ultima guerra del soldato Bandit

Giulia Palladini e Edoardo Marangon
Giulia Palladini e Edoardo Marangon


Giulia Palladini è nata in Abruzzo nel 2000, ma studia all’Università di Pavia. Lavora da un anno come giornalista freelance e ha scritto di Ucraina per diverse testate. È caporedattrice della rivista universitaria Inchiostro. Questa è la sua seconda esperienza sul fronte ucraino.

Edoardo Marangon è fotogiornalista freelance nato nel 1998. Dopo aver documentato le migrazioni nelle aree di confine del nord Italia e nel nord della Francia, da oltre due anni si dedica a raccontare le storie lungo la linea del fronte in Ucraina. Vincitore di alcuni premi fotografici internazionali.

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