Sarebbe bello se Dio esistesse
È il pensiero di David Baddiel nel suo libro “Il desiderio di Dio”, come spiega Luca Sofri nella prefazione
Il desiderio di Dio, di David Baddiel, è il nuovo libro pubblicato da Altrecose, il marchio editoriale creato dal Post assieme alla casa editrice Iperborea. È un saggio filosofico, scritto da un autore comico, che si occupa di un dibattito che all’estero è da sempre vivace, e che in Italia viene ancora allontanato con un certo imbarazzo, con il pretesto di dover rispettare religioni e fedi: il dibattito, più che sull’esistenza di Dio, sulle ragioni che ci portano a credere che Dio esista.
Quella che segue è la prefazione di Luca Sofri al libro Il desiderio di Dio, che può essere acquistato in tutte le librerie fisiche e digitali (ma anche sul sito del Post, con spese di spedizione gratuite).
***
L’aneddoto che racconta la fortunata genesi di questo libro – ovvero della sua traduzione italiana – potrebbe essere usato per smentire la tesi principale esposta nel libro stesso. Tesi principale che è, descritta sbrigativamente, questa: l’esistenza stessa di un forte desiderio che qualcosa esista rende i protagonisti di quel desiderio poco lucidi sulla sua reale esistenza. E di fatto indebolisce gli argomenti – già piuttosto fragili – a favore della sua esistenza.
Ecco com’è andata: ero a Londra con mia figlia, che vive là, e camminando per strada le stavo raccontando di una tentazione che avevo da tempo: di scrivere qualcosa intorno al rapporto che abbiamo con l’esistenza di Dio, tentazione che però era ancora piuttosto confusa nella mia testa. Siamo entrati in una libreria, e da uno scaffale di novità ho preso in mano questo libro di cui ignoravo tutto. Il risvolto di copertina diceva: «David Baddiel vorrebbe tanto che ci fosse un Dio. Ha passato un sacco di tempo a immaginare quanto la vita sarebbe migliore se ci fosse un Papà Supereroe che sconfiggesse la morte. Sfortunatamente per lui, non c’è». La mia tentazione di scrivere io qualcosa su questo argomento è immediatamente svanita: lo aveva già fatto David Baddiel, e probabilmente meglio (sicuramente meglio, posso dire ora dopo aver letto pure il resto del libro). E questa casuale scoperta sarebbe un bell’aneddoto da raccontare (no?) per suggerire che ci sia stato qualcosa di supremo e quasi divino – un destino – nell’idea di pubblicare questo libro da parte di Altrecose: se non fosse che, dice il libro, il desiderio di qualcosa di solito non rende il qualcosa più reale. E infatti probabilmente nessuno di voi pensa davvero che quello scaffale sia stato un segno che ho ricevuto da qualcosa di soprannaturale, che mi confermava la buona intenzione del progetto, e mi indicava la via. A certe cose soprannaturali crediamo meno che ad altre: ma lo leggerete meglio, e con maggior divertimento, nelle pagine che seguono.
David Baddiel ha un caffè di fiducia, sotto lo studio che usa come ufficio, a Camden. È abitualmente spettinato e allegro, e risponde a tutte le mie curiosità nate da quando ho letto quel risvolto di copertina. Molte le ho soddisfatte da solo nel frattempo, googlando e leggendo: Baddiel è un personaggio pubblico di eclettica ed estesa fama, nel Regno Unito, ma è difficile dargli un ruolo di una sola parola. È soprattutto un autore comico, autore di tante cose, ma «comico» è già riduttivo: i suoi ultimi libri – tutti molto venduti, tre in tre anni – sono stati sull’antisemitismo, sull’esistenza di Dio e sulla storia della sua famiglia. I precedenti sono stati libri di successo per ragazzi. Ma tra i teatri e le televisioni dove si è esibito per anni, forse la sua cosa buffamente più famosa è il testo di una canzone che la nazionale inglese maschile di calcio e i suoi tifosi adottano da anni nella speranza di vincere un grande trofeo internazionale, nota come «It’s Coming Home». Questa veloce descrizione della sua biografia professionale si riflette nella ricchezza di aspetti di questo peraltro breve libro, che a sua volta sintetizza le qualità dell’autore: è un «saggio» argomentativo che espone la sua tesi con brillantezza, citazioni competenti, episodi ed esperienze personali, e un prezioso senso dell’umorismo dall’inizio alla fine.
Ma non è solo perché è un libro piacevole e divertente – ottimo motivo – che lo abbiamo pubblicato in Italia: è di nuovo per quella cosa di cui stavo parlando con mia figlia, ovvero il fatto che la discussione sull’esistenza di Dio e sull’ateismo in Italia è stata sempre molto anestetizzata e allontanata con imbarazzo, come si fa con le cose disdicevoli, rispetto a quanto è avvenuto in altri paesi, dove i «classici» sull’ateismo che lo stesso Baddiel cita sono stati molto venduti, molto letti, e hanno alimentato riflessioni molto più esposte e pubbliche. Le ragioni le conosciamo e, diventa banale approfondirlo, sono evidentemente legate alla presenza e al ruolo della Chiesa e della religione in Italia: ragioni che hanno prodotto una sorta di censura soft, nella forma di «bisogna avere rispetto», intorno ai molti invece discutibilissimi aspetti – nel senso che sarebbe interessante discuterli pubblicamente – della Chiesa, della fede e delle religioni. Anzi, mi spiego meglio: a produrre censure sono per loro definizione le religioni in generale, in qualunque paese e in misure diverse; sono poi i singoli paesi e le loro culture laiche a trattare con le diverse religioni maggiori o minori indipendenze da queste censure, creando equilibri e sintonie che consentono diversi gradi di libertà religiosa ma anche di libertà d’espressione. In Italia sono per esempio poco significativi il fanatismo e l’integralismo religioso che vediamo in diversi paesi musulmani o negli Stati Uniti, ma al tempo stesso delle limitazioni culturali e psicologiche esistono e resistono. Consideriamo infatti «normale» e condivisa quella che è forse «la più antica cancel culture del mondo», come avevo scritto in un post – che in parte citerò – dedicato a spiegare che la suddetta «cancel culture» di cui parliamo tanto in questi anni non è niente di così eccezionale e ha un illustre precedente, quello religioso. Se c’è un ambito in cui non-si-può-dire è accettato e tollerato, in cui il preteso rispetto di comunità particolari impone silenzi e inibizioni, in cui simboli, regole, sensibilità vengono imposti di fatto a tutti e anche a chi non li condivide o non comprende, sono le religioni. Persino nei nostri tempi democratici e liberi, cresciamo in sistemi che accettano qualunque libertà di espressione fuorché quella che riguardi religioni o chiese, protette da un «rispetto» che non è altrettanto rispettato in nessun altro contesto. E che le religioni richiedono a tutti: e non c’è bisogno di guardare ai peggiori fanatismi religiosi e alle loro reazioni violente nei confronti di chi dica cose che non-si-devono-dire, per conoscere la sanzione pubblica che pure le nostre tolleranti culture riservano alle cose che non-si-devono-dire. Noi viviamo in un paese in cui bestemmiare non solo è punibile per il codice penale (e a volte è punito, per esempio nei programmi della tv di stato), ma è anche giudicato e sanzionato in quasi ogni contesto della vita civile: cioè esattamente come avviene con la «cancel culture» (lo scrivo non ricordando di avere bestemmiato mai in vita mia, malgrado la toscanità, e non essendo mai tentato di farlo; ma sono consapevole che «non potrei»: esattamente come chiunque si dica limitato dalle insistenti pressioni del «politically correct»). Noi poi abbiamo una religione di stato che l’ha canonizzato, il «non poter dire», con criteri assoluti e fanatici: «non nominare il nome di Dio invano». È un comandamento.
Ma non facciamoci distrarre dal caso puntuale del nome di Dio, irrilevante per questo libro: è la discussione critica sulle fedi e sulle religioni a essere forzatamente rimossa dal dibattito pubblico, in nome di un «rispetto» che proprio perché riservato a scelte irrazionali respinge qualunque argomento razionale. Sono le richieste di rispetto delle esigenze specifiche dei credenti, dei fedeli e delle chiese a essere prese in enorme considerazione, di fatto imposte a tutti, e persino normate, nelle nostre società.
Per questo ci è sembrato prezioso mettere in circolazione – accanto ai «classici» che pure Baddiel cita criticamente – uno spunto sull’ateismo riluttante, come lo chiama l’autore. Un piccolo contributo in un paese in cui è di norma ritenuto gravemente offensivo esprimere giudizi o perplessità sulle fedi e su chi le vive, sulle religioni e sui comportamenti loro associati; in tempi in cui invece si commenta «e che sarà mai» rispetto a qualunque battuta o considerazione discriminatoria sui cinesi, sugli omosessuali, sulle donne, sugli immigrati, sugli anziani, ma sui credenti non ci si permette. Uno spunto molto rispettoso, peraltro: persino invidioso. Desideroso.