Che mestiere è la suora
«Quasi settant’anni fa in "Clausura", Sergio Zavoli mostrava un interesse laico, lucido, autenticamente curioso rispetto alla scelta di prendere i voti e rifiutare il ritmo rapinoso della modernità. È un interesse che condivido. Tempo fa, proprio qui sul "Post", avevo intervistato mariti e mogli di lungo corso. Ho pensato di fare un lavoro simile con chi consacra la propria vita e ho scoperto che nella mia "bolla" (tendenzialmente laica, di sinistra, intellettuale) molti avevano rapporti di profonda amicizia con suore. Ho contattato così, via WhatsApp, Suor Agnese, Suor Claretta e Suor Maria, che appartengono a ordini diversi, vivono in città diverse e lavorano però nello stesso ambito. Tutte e tre hanno avuto la generosità di aprirsi alle mie domande»
Sono passati quasi settant’anni da quando Sergio Zavoli, con l’audiodocumentario Clausura, ha raccontato la vita di un convento carmelitano introducendo un microfono attraverso le grate del parlatorio e lasciando che registrasse silenzi e fruscii, e soprattutto la voce delle monache che con intensità commovente rispondevano alle sue domande.
Da allora molte cose sono cambiate nel mondo, nella Chiesa, nel rapporto con la religione e la spiritualità. La crisi delle vocazioni è una realtà di anno in anno più incisiva, il numero di suore diminuisce, anche in Italia, con una flessione notevole.
Zavoli mostra un interesse laico, curioso verso la scelta radicale di una vita estranea al ritmo rapinoso della modernità. Interesse che condivido. Proprio qui sul Post ho intervistato, qualche tempo fa, due categorie di persone che hanno scelto un impegno a lungo termine: mariti e mogli di lungo corso. Abbiamo pensato di poter fare un lavoro simile con chi prende i voti: mi sono rivolta, ancora una volta, ai miei contatti sui social e ho chiesto se qualcuno conoscesse delle suore. Ancora una volta la risposta è stata generosissima. Ho scoperto che nella mia “bolla” (tendenzialmente laica, di sinistra, intellettuale) molti hanno rapporti di profonda amicizia con suore.
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Ho contattato così, via WhatsApp – sì, le suore usano WhatsApp e mandano messaggi, anche vocali, all’occorrenza, e pure emoji – tre suore. Nessuna di loro mi chiede l’anonimato, a differenza di quanto era successo con gli articoli su mogli e mariti, ma per rispetto della loro riservatezza darò loro nomi di fantasia.
Suor Agnese, Suor Claretta e Suor Maria, che appartengono a ordini diversi, vivono in città diverse e lavorano però sullo stesso fronte (Suor Agnese ha fondato una casa per aiutare le donne vittime di tratta e di violenza domestica; Suor Claretta e Suor Maria prestano servizio nelle carceri). Tutte e tre hanno avuto la generosità di raccontare le loro storie a partire dal momento in cui a ciascuna è successo qualcosa di indefinibile: un’intuizione che ha dato un corso nuovo alla loro esistenza. A tutte e tre è accaduto nella tarda adolescenza, l’età in cui abitualmente si inizia a decidere che strada intraprendere.
Suor Maria parla di “segnali”: «In terza media un mio compagno di classe è morto in un incidente in motorino. Possibile che una vita finisca così?, mi chiedevo. La mia era una famiglia aperta, impegnata in parrocchia; c’era posto per chiunque avesse bisogno. Quando mi sono iscritta a ragioneria, mi sono detta: è il momento di capire se i tuoi valori li hai scelti solo perché sono quelli della tua famiglia o ti appartengono davvero. Ero l’unica dei miei amici che andava ancora all’oratorio: mi rendevo conto che potevo sembrare un po’ sfigata [ride]… Invece mi sono accorta che i compagni mi rispettavano. A 18 anni ho seguito un corso di esercizi spirituali. Non saprei dire come… ma ho sentito, lì, che l’amore di Dio per me era smisurato, riempiva la mia vita. Non sapevo che significato avessero, ma sentivo che avevo ricevuto dei segnali».
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Sempre nell’estate dei 18 anni, Maria, che oggi ne ha 57, vive l’esperienza che più di ogni altra determinerà il suo futuro. Ricorda ancora il giorno: «31 luglio ’85. Mio fratello partiva militare. Con mio papà e i nostri amici l’abbiamo accompagnato alla Stazione Centrale, a Milano: c’ero stata mille volte, ma quella sera il mio cuore vedeva solo i poveri. Quelli che si preparavano a dormire sulla scalinata, una signora che rovistava in un cestino. Un ragazzo mi mostrò un buco nel braccio. Chiedeva soldi. Ho guardato il mio papà e gli abbiamo dato qualcosa, la voce del capostazione gridava di non dargli nulla. Ma io non reggevo. La notte non ho dormito, troppe domande nel mio cuore. Ero una ragazza fortunata. Me ne stavo nel mio letto, fra lenzuola pulite: perché quel ragazzo, quella donna, erano meno fortunati di me? Quella notte è stata importante. Non mi era ancora chiaro che il Signore mi chiamasse, ma il mio cuore si era spalancato. Mi sono diplomata, sono andata a lavorare in un’agenzia di pratiche auto. Però era successo qualcosa. Un giorno, parlando con una suora dell’istituto in cui poi sarei entrata [la Congregazione delle Suore di Carità delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa], che lavorava nel mio oratorio, mi sono detta: che bella una vita così, consacrata agli altri. Lì è iniziato il mio cammino».
Anche Suor Claretta e Suor Agnese ricordano perfettamente il momento in cui una sensazione nuova ha trovato posto nelle loro vite di ragazze.
Per Suor Claretta, a cambiare tutto è stato un pomeriggio al cinema: «Una domenica sono andata con le amiche a vedere un film, me lo ricorderò sempre. Era la storia di una suora che lavorava in un manicomio, e a colpirmi fu certo la scelta di dedicare ogni energia a curare la malattia mentale, ma soprattutto il coraggio di questa donazione completa a Dio per il bene dell’altro. E pensare che avevo ben tre zie suore, eravamo stati a trovarle a Bergamo tante volte e mai mi aveva sfiorata il pensiero di entrare in un istituto come il loro. Quando finalmente mi sono confidata con il mio parroco, lui non si è troppo stupito: è una scelta importante, non devi prenderla così, sull’onda dell’entusiasmo per un film. Io sono rimasta a lungo a interrogarmi. Nel frattempo lavoravo, mi trovavo anche bene, avevo tante amicizie. Compiuti i vent’anni mi sono detta che dovevo prendere una decisione: o portare la scelta fino in fondo, o mettermi il cuore in pace».
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Il film che ha segnato questo passaggio irreversibile doveva essere La storia di una monaca di Fred Zinnemann, con Audrey Hepburn nel ruolo di una giovane donna, Gabrielle, che prende i voti e il nome di Suor Lucia. Il film, che insiste sul contrasto fra l’austera norma monastica e la vibrante vocazione di Suor Lucia, esce negli stessi anni del documentario di Zavoli: nel momento in cui, dentro e fuori dalla Chiesa, si fa urgente il dibattito sull’opportunità di ripensare ritmi e precetti della vita religiosa in un mondo che cambia. Mi colpisce come la futura Suor Claretta, poco più che ragazzina, abbia sentito tanto forte l’identificazione con la fede della protagonista, da far passare in secondo piano l’attrito con la regola. Oggi racconta: «I voti di povertà, castità e obbedienza, possono pesare. Le difficoltà però si superano».
A differenza dei sacerdoti diocesani, le suore non hanno uno stipendio fisso per il loro impegno, il che comporta anche una scarsità di tutele dal punto di vista pensionistico (è comunque sempre l’INPS, a cui vengono versati i contributi previdenziali anche dei religiosi, a erogare la loro pensione): per questo, spesso si dedicano ad attività esterne, come l’insegnamento.
Suor Agnese ha messo in piedi una casa, ricavata all’interno della struttura in cui viveva con le consorelle, per accogliere donne e ragazze che hanno bisogno di riparo, in seguito a esperienze di sfruttamento o di violenza domestica. Vivono «di provvidenza. Ovvero donazioni. Siamo due suore, più le ragazze, una di loro è qui con le sue bambine. La nostra è una missione popolare».
Ma cosa significa rispettare il voto di povertà? Mi risponde suor Claretta: «Difficile da descrivere: viviamo di poco ma non ci manca nulla. Se però mi capita di desiderare qualcosa, io so che, in nome di quel voto, non potrò averlo. Il voto di castità è motivato da un amore più grande: il mio non è un amore a due ma universale, è carità. Il più difficile è il voto di obbedienza. Sessant’anni fa, poi, quando sono entrata in istituto, voleva dire che tutto quello che ti diceva la superiora, dovevi farlo e basta. Oggi è un’obbedienza più ragionata, meno perentoria».
Rifarebbe questo percorso, con il senno di poi? Mi risponde con tenerezza per la storia che l’ha portata fin qui: «A 78 anni sono felicissima della scelta che ho fatto, la rifarei mille volte. Ma non è stato facile».
Per Suor Agnese, «la storia di ogni chiamata è unica. È impossibile spiegare fino in fondo cosa succede il giorno in cui dentro ti scatta qualcosa che non avevi sentito mai». Agnese viene da una famiglia non praticante, la sua vita scorreva su binari regolari: la scuola, un fidanzatino. Negli ultimi anni di liceo riprende a frequentare la Chiesa – da cui si era allontanata per inerzia, come molti – per via di alcuni incontri organizzati in parrocchia. «Piano piano, sono tornata ai sacramenti. Era tutto nuovo, tutto bello, tutto verde». Quando a scuola le assegnano una ricerca su Santa Teresa, va a chiedere alle Apostole del Sacro Cuore di Avezzano se può accedere alla loro biblioteca.
«Non sapevo che sarei diventata un’Apostola anch’io. Appena metto piede in biblioteca, sento non proprio una voce – non è che senti voci, ma una domanda: chi ha detto che la tua strada sia la vita matrimoniale? Io stessa non capivo. Passavano i mesi e mi scoprivo diversa: non che non stessi bene con la persona con cui stavo, ma non ero appagata. Ho trovato il coraggio di chiedere aiuto a una suora che conoscevo, mi ha detto che era necessario riflettere con calma, mi ha incoraggiata a iscrivermi comunque a Lingue. Al secondo anno ho sentito che non potevo tenere il piede in due scarpe».
Con Maria, la famiglia è stata comprensiva: «I miei genitori non hanno mai cercato di farmi cambiare idea. Mia mamma mi diceva solo che ero troppo giovane, temeva che sarebbe stata una vita di sacrifici. Quello che ha sofferto di più è stato mio fratello. Oggi mi fa sorridere la sua reazione: Ma sei scema? Non se ne capacitava. Non rientravo proprio nel cliché della suora tranquilla. Facevo mille cose, avevo un sacco di amici».
Agnese ha dovuto ribaltare i piani che avevano per lei le persone che le volevano bene. «I miei erano arrabbiatissimi. Mia madre era molto triste, mio papà per un anno intero mi ha chiuso tutti i canali con la religione: non potevo andare a messa, frequentare i miei amici, era tutto un no. Io inventavo escamotage. Però era una grande sofferenza perché avevamo sempre avuto un rapporto molto bello, e di colpo non parlavamo più. Ho un carattere forte, come lo aveva lui. Passato un anno ho detto: io vado comunque. Tutta quella sofferenza era servita a farmi maturare nella scelta, e lui dev’essere stato toccato da Dio: ha capito che ero felice. Non capiva come: aveva una concezione anacronistica della vita religiosa. Mi diceva, tu sei brava, vai all’università, vuoi finire a pulire gli altari? Gli rispondevo, se c’è da pulire gli altari li pulirò. Poi la mia vita è fiorita e lui se ne è reso conto. Chi non ha capito, è stato il ragazzo che frequentavo all’epoca. Mi diceva ti hanno plagiata. Dimostrando di non conoscermi: non mi faccio plagiare proprio da nessuno».
Ancora più difficile è stato per Suor Claretta, figlia di una madre molto religiosa e di un padre credente ma non praticante, che si è trovata di fronte a un dilemma etico: «Mia mamma mi sognava sposata e mi ha detto no, tu non vai a fare la suora, ho già tre sorelle suore, basta così. Mio papà è rimasto muto per giorni. I miei due fratelli grandi pensavano che fosse un colpo di testa, che sarebbe passato. Finalmente mio padre mi dice: ci ho pensato, la vita è tua. I tuoi fratelli hanno sposato chi hanno voluto, non sono venuti a chiedere a me. Basta che tu sia contenta. Mi sono presa un mese per pensarci».
Passato il mese, decide di entrare nell’Istituto delle Suore Missionarie dell’Immacolata Regina della Pace: «Erano suore che vivevano per i giovani. Le suore della gente, le chiamavano così, mi piaceva. Sono entrata nell’istituto il 4 ottobre 1966, a vent’anni, accompagnata da mia mamma e da mio fratello più piccolo che, poverino, soffriva il distacco. Da un paio di settimane mio papà non stava bene. Tutti dicevano che era il dispiacere di perdere una figlia. Invece era malato: il 1° novembre del ’66 è morto, un male fulminante. Ho sofferto tantissimo, ero combattuta tra la mia scelta di vita e il pensiero di aver lasciato a casa una mamma con un bambino di otto anni. Sono riuscita a superare questa grande sofferenza grazie all’aiuto delle mie superiori ma anche a mia mamma che, nonostante il suo dolore, mi ha incoraggiata a perseverare».
L’opposizione iniziale dei familiari somiglia in queste storie a quella che si manifesta di fronte a una frequentazione sgradita. Mi colpisce anche l’energia con cui queste ragazze di qualche decennio fa si sono adoperate a convincere famiglie nella cui prospettiva ancora patriarcale l’alternativa al convento sarebbe stata comunque una sola: il matrimonio. Che è anche la grande rinuncia richiesta dalla scelta religiosa.
Per Suor Maria, i rimpianti non sono stati eccessivi: «Mi è capitato di sentire simpatie, da ragazza. Non che fossi innamorata: anche se non mi era ancora chiara la mia scelta, sentivo che non potevo andare oltre l’amicizia, anche se profondissima, ore e ore a parlare. Sapevo di non potermi permettere di giocare con i sentimenti degli altri».
Una scelta così radicale – sempre più rara, nel nostro tempo paralizzato di fronte alla varietà di opzioni possibili – richiede serietà nell’impegno e una dedizione propedeutica al grande passo. Spontaneamente, le mie intervistate ricorrono al paragone con il fidanzamento che precede un matrimonio: «È un percorso lungo – mi dice Suor Maria – nove anni: come un fidanzamento. Quelli della professione temporanea sono anni di discernimento, in cui si inizia a vivere la vita di consacrazione. Se capisci che quella vita non ti appartiene puoi tornare indietro. Invece, dopo la professione perpetua, c’è bisogno di una dispensa del papa: è un sacramento».
Il periodo del noviziato lo raccontano come un momento di gioia giovane, ma non privo di difficoltà.
«Ho cominciato il mio percorso da postulante: la più vecchia aveva 23 anni, eravamo ragazze allegre. Certo, è stata un po’ una sofferenza perché non avevo più il papà e quindi alla mia professione c’era solo mia mamma. Ho preso il nome di Suor Maria [per ragioni di anzianità è l’unica delle mie intervistate ad averlo cambiato, ndr], una suora a cui avevo voluto bene, che era mancata da poco. Anche questo mi ha aiutato a superare i miei dolori, pensare a lei, alla sua vita, alla sua passione».
Il noviziato interno è un periodo intenso. «Per un anno intero – racconta Suor Claretta – non si poteva uscire dall’istituto. Avevo ancora la possibilità di scegliere di tornare a casa senza farne un dramma, perché non avevo preso i voti perpetui. L’anno successivo, con il noviziato esterno, bisognava andare in una comunità di vita attiva, cominciare a capire qual è la missione della suora, la sua donazione alle persone. Mi hanno mandata in un asilo a Novara. C’erano altre due consorelle che non conoscevo: ho condiviso la vita con loro, non è stato sempre meraviglioso. Non le avevo scelte, mi ero trovata con loro; con una superiora anziana, regole da osservare, caratteri diversi. Purtroppo nel frattempo anche la mia mamma si era ammalata, sola con un ragazzino di dodici anni. Le superiori sono state comprensive, sono riuscita a passare molto tempo con lei e mio fratello che andava ancora a scuola».
Neanche Suor Agnese ha dimenticato problemi e gioie di quella fase: queste tre traiettorie di vita mostrano un aspetto inevitabile, eppure arduo da accettare, di qualsiasi scelta – il fatto che non si possa scegliere senza rinuncia.
«Sono le difficoltà della crescita: a ogni tappa nuove domande. Il periodo della formazione è lungo perché si tratta di una scelta di vita importante. Nel percorso si stringe un legame molto forte, perché ci sono tante tappe da attraversare. Sono stati dieci anni di una vita gioiosa, impegnativa: sei sempre di fronte alle novità, alle sfide che la vita ti porta. Quando c’è stasi non si va avanti, quindi devi rinnovarti sempre…»
Questa risposta mi colpisce: è qualcosa che mi sono sentita dire spesso, quando ho intervistato mogli e mariti.
«Se ti metti in gioco – continua Suor Agnese – la vita ti chiede sempre di più. Le difficoltà ci sono, sarebbe assurdo il contrario. Anche tra moglie e marito è così. Ci sono delle crisi. Ti domandi: chi è questa persona, che devo fare? Ti devi ri-innamorare, perché la quotidianità porta a dare per scontate tante cose. No?»
«Per capire la vita religiosa – mi dice Suor Claretta – bisogna tenere presente che senza la Parola di Dio va tutto per aria, perché siamo persone umane, con il nostro carattere, i nostri difetti. Viviamo momenti di crisi, ma abbiamo la preghiera e i segni che il Signore ci mette sulla strada».
C’è, nelle storie di queste vite, il senso di una donazione assoluta. Ma è inevitabile il confronto con l’usura cui la vita condivisa sottopone ogni slancio. Spiega Suor Agnese: «La comunità è una grande ricchezza della vita religiosa proprio perché è una sfida: ti costringe a toglierti dal centro, a capire la diversità delle persone che stanno con te. Questa comprensione non sempre è reciproca, devi saperlo accettare e domandarti: cosa mi sta chiedendo Dio, con questa sorella che in questo momento mi fa innervosire? Non c’è poi molta differenza tra vita religiosa e vita matrimoniale, bisogna sempre cercare un equilibrio. Lo sto imparando adesso, che vivo in una comunità particolare».
Da otto anni ha intrapreso un percorso con le ragazze vittime di tratta. «Andavamo sulla strada, di notte, con una consorella e alcuni amici. Nel buio più terribile ho trovato qualcosa che mi ha cambiato. Il dolore con cui eravamo in contatto sulla strada, nella notte, le ragazze con cui si era creata un’amicizia: abbiamo trasformato una parte della struttura in una casa per loro. Qualche tempo fa è arrivata una giovane vittima di violenza domestica. Siamo due suore più le ragazze, viviamo insieme. Le ragazze ci hanno aiutate a liberarci di tante sovrastrutture che ti vengono imposte dall’educazione ma anche dal cammino religioso. Quando cerchi di aiutare qualcuno pensi di fare il suo bene: non sempre è così. Questa vita comunitaria sui generis, aperta (abbiamo amici che vanno e vengono, mangiano, cucinano con noi, momenti belli e non belli, non siamo la pubblicità del Mulino Bianco) mi ha insegnato a ricominciare dall’amore. Che vuol dire accarezzare le ferite di queste ragazze. La cosa importante è aiutarle a capire che sono degne di essere amate. Stiamo parlando di gente che è stata venduta, abusata. La rinascita inizia con la fiducia».
Il rapporto con gli altri, di cura e assistenza, è un aspetto fondamentale della vita attiva. Non sempre è semplice dare forma a questo amore; non sempre ovvio trovargli una direzione. Suor Claretta, la direzione l’ha trovata solo quando ha capito di poter chiedere aiuto: «Mia mamma è morta e mio fratello è rimasto solo. I fratelli maggiori, sposati, volevano che lasciassi tutto per lui: sei l’unica che non ha altri impegni, mi dicevano. Dentro di me era radicata la convinzione della donazione a Dio, ma sentivo fortissima la responsabilità verso di lui, a cui ho sempre voluto un bene immenso. È stata una lotta, finché non ho capito che dovevo chiedere aiuto. I miei fratelli hanno capito che non avrei lasciato l’istituto, lì era il mio impegno, come per loro nelle famiglie che si erano formati. All’istituto hanno capito che avevo bisogno di andare spesso a casa per seguire mio fratello e mi hanno dato questa possibilità. Lui è cresciuto benissimo, si sarebbe potuto perdere, con tutti i dolori che ha avuto, e invece no. Mi è dispiaciuto solo che non sia venuto alla mia professione perpetua, perché in quel momento aveva sperato che scegliessi di rinunciare: ma poi ha capito anche lui che non è che chi sceglie di donarsi a Dio dimentica la famiglia, anzi».
Ha studiato da infermiera e si è presa cura di anziani, e poi di persone con problemi di tossicodipendenza. «Ho sempre accettato, anche se mi sono sentita tante volte incapace, di affrontare situazioni nuove che nemmeno mi ero mai immaginata». Come il carcere, dove tuttora presta servizio. Anche Suor Maria lavora in carcere: dopo sette anni nella casa di reclusione femminile della Giudecca, a Venezia, «oggi vado a Pavia tre giorni a settimana. Stavolta un carcere maschile. Del carcere non si può capire nulla, se non ci si entra e si vede la situazione. Non è questione di buonismo: in estate, poi, fra il caldo e le poche attività che si fermano, in assenza di qualsiasi stimolo per la vita, essere rinchiusi in quelle celle è insopportabile. E infatti c’è il tema terribile dei suicidi. Non si può capire, se non si vede».
In questa dedizione agli altri, Suor Maria ha trovato la sua risposta alle lacrime di quella notte di tanti anni fa. «Di fronte al dolore degli altri succede qualcosa di strano: a noi pare di poter aiutare, di salvare la dignità di chi soffre, dei dimenticati, dei poveri. Di fatto sono loro a salvare la nostra dignità perché ci permettono di rimanere umani. Di esistere, nel segno dell’amore per il prossimo».
Ad articolo finito, ricevo un messaggio inaspettato. Suor Roberta ha saputo da un’amica comune della mia ricerca. Le mando le domande: da quanti anni ha preso i voti, le difficoltà e le gioie del percorso, qualche dettaglio concreto: com’è la sua stanza, il suo rapporto con gli oggetti materiali, soldi, vestiti. Mi risponde con una fotografia via WhatsApp. È un ritaglio di un articolo di giornale, non c’è il nome della testata, certo una pubblicazione religiosa. C’è una foto di lei ragazza, sorridente sotto il velo.
Il trafiletto comincia con una domanda: perché hai chiamato proprio me, di otto fratelli che eravamo? Racconta della vocazione a 18 anni, combattuta fra l’innamoramento (usa proprio questa parola) per il Signore e la paura dei sacrifici: «La vita fuori dal convento mi affascinava…». Racconta di aver cercato di sottrarsi all’idea di prendere i voti, «fino al momento in cui sono stata certa della mia chiamata». E conclude con un ringraziamento «per gli amici; mi hanno fatto anche piangere, ma sono stati sinceri». La ringrazio per questa testimonianza. Mi manda un cuoricino in chat, e mi chiede se sono riuscita a leggere la data. È scritta a mano, in alto, sopra il ritaglio: luglio-agosto-settembre 1987.
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