Endorsement o non endorsement?
Il Washington Post ha deciso per la prima volta da decenni di non sostenere alcun candidato alla presidenza: è il secondo grande giornale statunitense a farlo
Venerdì il Washington Post, uno dei giornali più influenti negli Stati Uniti, ha fatto sapere in un editoriale firmato dal suo amministratore delegato, William Lewis, che non esprimerà il proprio endorsement – cioè il sostegno a un candidato – per le prossime elezioni presidenziali del 5 novembre, né lo farà più in futuro. Nonostante fosse stata in parte prevista, la notizia ha fatto molto discutere perché il Washington Post fa endorsement dal 1976 e non ne salta uno dal 1988, e ha sempre sostenuto candidati Democratici.
Quella di esprimere il proprio endorsement prima delle elezioni è una pratica molto radicata nelle redazioni statunitensi, ma da anni è in corso un dibattito sulle sempre maggiori difficoltà di fare comprendere ai lettori la possibile convivenza tra il racconto dei fatti e gli articoli di opinione all’interno della stessa offerta giornalistica, con conseguenze sulla credibilità dei giornali. Il Washington Post è il secondo grande giornale statunitense a evitare endorsement quest’anno dopo il Los Angeles Times: per le ultime due elezioni presidenziali tutti i principali giornali americani avevano sempre espresso il proprio sostegno per i candidati Democratici, contro Donald Trump.
Nel suo editoriale Lewis ha motivato la decisione dicendo che il giornale vuole tornare «alle sue radici» e ha citato un editoriale del 1960 in cui si dice che «è più saggio per un giornale indipendente nella capitale della nazione evitare endorsement formali».
Dopo la pubblicazione dell’editoriale del Washington Post il comitato di redazione (il Washington Post Guild) ha pubblicato un comunicato in cui si diceva «molto preoccupato» e l’opinionista Robert Kagan si è dimesso in segno di protesta. Sedici opinionisti della redazione – quindi quegli autori che lavorano separati dai giornalisti che si occupano di notizie – hanno pubblicato un articolo in cui definiscono la decisione «un terribile errore», sostenendo che un giornale indipendente debba poter essere libero di non fare endorsement, ma che questo non è il momento di esercitare questa opportunità, poiché uno dei due candidati «minaccia direttamente la libertà di stampa e i valori della Costituzione».
L’ex direttore del Washington Post Marty Baron ha scritto sui social che rinunciare agli endorsement è un «gesto codardo, con la democrazia come vittima». Altre critiche sono arrivate online da commentatori e politici, e al giornale sono arrivate mail di protesta dagli abbonati. Bob Woodward e Carl Bernstein, i due ex giornalisti del Washington Post diventati famosi per l’inchiesta del Watergate, hanno definito la decisione «sorprendente e deludente».
Pochi giorni fa anche Patrick Soon-Shiong – proprietario del Los Angeles Times dal 2018 – aveva deciso la stessa cosa causando anche lui un certo dissenso nel giornale, con le dimissioni di uno dei capi della redazione e di due giornalisti. Il Los Angeles Times, a sua volta uno dei giornali più letti negli Stati Uniti, non ha una storia di endorsement Democratici lunga come quella del Washington Post, ma da quando ha ricominciato a farli, nel 2008, ha sempre sostenuto i candidati del partito: Barack Obama, Hillary Clinton e Joe Biden.
Secondo il giornale online Semafor, circa 2mila persone hanno interrotto il proprio abbonamento al Washington Post e circa 1300 quello al Los Angeles Times.
Alcuni giornalisti del Washington Post che hanno chiesto di rimanere anonimi hanno detto che i dirigenti del giornale hanno preso la decisione di sospendere gli endorsement all’ultimo momento, tanto che era già stata preparata la bozza per un editoriale a sostegno di Kamala Harris. Sempre secondo fonti interne citate dallo stesso Washington Post la decisione di cambiare approccio sarebbe stata presa da Jeff Bezos, proprietario del giornale dal 2013.
Oltre a essere proprietario del giornale, Jeff Bezos è il fondatore di Amazon e il capo della società spaziale Blue Origin: per questo la decisione è stata interpretata da molti come una sua mossa interessata per mantenere buoni rapporti col governo nell’eventualità in cui vinca Trump. Lo stesso discorso è stato fatto anche per Soon-Shiong, che da imprenditore nell’industria farmaceutica potrebbe temere di essere ostacolato dalla FDA (Food and Drug Administration) in caso di vittoria Repubblicana.
Il Washington Post è inoltre da tempo impegnato ad aumentare il suo numero di abbonati per fronteggiare una crisi che va avanti da un paio d’anni, tra le altre cose puntando a raggiungere più persone con idee conservatrici. Al di là degli endorsement infatti il suo approccio è storicamente progressista e Democratico: nel 2017, dopo la vittoria di Trump, mise nella propria testata un motto che era un chiaro riferimento ai rischi della sua presidenza: «Democracy Dies in Darkness».
Nelle ultime settimane la maggior parte degli altri grossi giornali statunitensi hanno come sempre espresso il proprio endorsement. Il New York Times ha pubblicato il 30 settembre un editoriale a favore di Kamala Harris, e venerdì un altro articolo firmato dal gruppo di editorialisti del giornale, che è una specie di lungo e cupo anti-endorsement a Trump.